• Migranti, la #Medihospes si aggiudica l’appalto da 133 milioni di euro per i centri in Albania

    Il colosso dell’accoglienza in diverse inchieste anche per le condizioni poco dignitose di vita garantite nelle strutture. Il suo amministratore è #Camillo_Aceto, già arrestato a Bari e finito in #Mafia_capitale.

    La gallina dalle uova d’oro dei centri per migranti in Albania è finita nelle mani del businessman italiano dell’accoglienza, quel Camillo Aceto il cui nome, negli ultimi vent’anni, è comparso nelle più disparate inchieste della magistratura da un capo all’altro d’Italia e con le accuse più diverse: dalla truffa nelle forniture di pasti alle mense ospedaliere di Bari che lo vide finire agli arresti nel 2003 all’indagine per infiltrazioni mafiose nella gestione del Cara di Mineo in Mafia capitale a svariate indagini per frode in pubbliche forniture da parte delle varie società in cui ha avuto incarichi dirigenziali e che alla fine sono confluite nella Medihospes.

    Il colosso dell’accoglienza che gestisce più del 60 per cento di centri migranti in Italia, 3.800 posti letto in 26 strutture, si è aggiudicato il bando milionario per la gestione dei centri che il governo italiano intende aprire in Albania per tenervi, in attesa di rimpatrio, alcune migliaia di migranti provenienti dai cosiddetti paesi sicuri che verranno soccorsi da navi militari italiane in acque internazionali. Ben 133.789.967,55 milioni di euro la cifra che Medihospes incasserà per gestire l’accoglienza dei migranti nell’#hotspot di #Shengjin e nel centrio per richiedenti asilo ( con annesso Cpr) che sorgerà nell’area di #Gjader. La prefettura di Roma ha ritenuto l’offerta di Medihospes, con un ribasso del 4,94 per cento sulla base d’asta, più vantaggiosa rispetto a quelle degli altri due concorrenti selezionati tra oltre 30 aziende: il consorzio #Hera e #Officine_sociali. Per due anni, rinnovabili per altri due, Medihospes dovrà provvedere alle esigenze di vitto, alloggio e servizi basici per i migranti che verranno portati in Albania.

    Un’aggiudicazione che continua ad assembrare ombre sull’operazione Albania i cui altissimi costi di partenza (650 milioni) sono già lievitati a quasi un miliardo a fronte di una totale incertezza sui tempi di apertura dei centri. Stando al bando, Medihospes dovrebbe essere pronta per partire il 20 maggio. Peccato che, per quella data, nelle aree di Shengjin e Gjader non ci sarà molto altro oltre alle ruspe. La consegna dei lavori delle opere di urbanizzazione e della realizzazione delle strutture affidata al genio militare è infatti prevista per la fine di ottobre quando la stagione calda degli sbarchi sarà già finita.

    Il ruolo di semimonopolio di Medihospes nel mondo dell’accoglienza viene fuori dal report “Centri d’Italia” 2022 fatto da Action Aid e Open Polis sugli ultimi dati forniti dal Viminale: a quella data la cooperativa sociale gestiva 26 strutture in sei regioni: 24 Cas, il Cpa di Udine e l’hotspot di Messina, 3800 posti letto sempre sovraffollati in condizioni spesso oggetto di denunce.

    Ex amministratore de #La_Cascina, indagata in Mafia capitale, con sedi e iniziative spesso coincidenti con quelle della #Senis_Hospes, poi diventata Medihospes, Camillo Aceto è sempre caduto in piedi mantenendo un ruolo centrale. «Solo con economie di scala e sacrificando i servizi - osserva Fabrizio Coresi di Action Aid - solo soggetti come Medihospes possono riuscire a realizzare un ribasso consistente e rendersi disponibili a gestire centri come quelli in Albania dove i diritti delle persone accolte non sono al centro».

    https://www.repubblica.it/cronaca/2024/05/07/news/migranti_appalto_albania_medihospes-422857446

    #Albanie #Italie #asile #migrations #réfugiés #coût #appel_d'offre #externalisation #sous-traitance
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    ajouté à la métaliste sur l’#accord entre #Italie et #Albanie pour la construction de #centres d’accueil (sic) et identification des migrants/#réfugiés sur le territoire albanais...
    https://seenthis.net/messages/1043873

  • est déçue : pas déçue-déçue mais quand même un tantinet déçue. Non parce que même si elle n’y connaît rien en cinématographe normalement elle aime vraiment bien les films de Dumont — elle pense notamment aux ébouriffants « P’tit Quinquin » et « Coincoin et les z-Inhumains » ainsi qu’au poétique « Ma Loute ». Il y a une vraie signature, ça foisonne, c’est inattendu, c’est décalé, ça ne ressemble à rien d’autre, les décors et la lumière du Pas-de-Calais sont fantastiques, ça s’intéresse à la gueusaille, les personnages ont des trognes pas possibles, on se contrefiche de la vraisemblance et on entre dans ces univers comme dans d’un peu malsains contes de fées (les mauvaises langues argueront que c’est un pléonasme).

    Mais là, devant son long-métrage « France » (1), ça fait pschitt, le cinéaste s’est comme... normalisé. Ce n’est pas affreux, hein, il y a encore des trucs mais ces moments sont plus fugaces, l’ensemble est plus lisse, plus « déjà vu ». Des personnages comme celui de cette journaliste parisienne mi-ripou mi-névrosée on les a déjà croisés dans une quantité astronomique de bouquins et de films, celui-ci n’apporte pas grand-chose au propos. Qui plus outre Dumont s’y fait démonstratif, ce qu’il avait réussi à éviter jusqu’alors, et puis franchement filmer la ville avec de vrai·e·s acteurices ne lui réussit pas : son cinéma est taillé pour les comédien·ne·s amateurices et trisomiques errant sur les rivages semi-désertiques de la Mer du Nord.

    Zyva, heureusement que la Garreau n’est pas critique cinématographique parce qu’elle a du mal à camoufler qu’elle n’a rien à dire.

    #LaitCailléDuCinéma.

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    (1) C’est le prénom de l’héroïne, hein, pas le nom d’une petite république fascisante qui ne se sent plus pisser.

  • A #Lampedusa non nascevano bambini da più di mezzo secolo. Nel 2021 è nata Maria e le hanno dedicato un parco giochi, dove però i bimbi arrivati come lei via mare non possono giocare. Vietato per loro uscire dall’hotspot. Una storia di diritti negati a persone innocenti.

    https://twitter.com/SeaWatchItaly/status/1787832638901825906
    #toponymie #toponymie_migrante #noms_de_rue #migrations #Lampedusa

    • Si battezza Maria, la prima nata a Lampedusa dopo 51 anni

      E’ nata il 31 luglio 2021 a Lampedusa dove i suoi genitori, della Costa d’Avorio, sono giunti con un barcone partito dall’Africa.

      Ora Maria è tornata, dopo due anni e mezzo sull’isola dove oggi verrà battezzata durante la messa serale, nella parrocchia di San Gerlando. La bambina e i suoi genitori sono arrivati a Lampedusa da Cassaro, comune di poco più di 700 abitanti in provincia di Siracusa, dove sono ospiti della rete Sai (sistema accoglienza integrazione) gestita dalla cooperativa Passwork.

      La famiglia è stata accolta dal sindaco delle Pelagie Filippo Mannino che ha voluto la cittadinanza onoraria, deliberata dal Consiglio comunale, per la piccola. Il riconoscimento è stato conferito, mentre in via Roma è stato intitolato a Maria il parco giochi realizzato con i fondi Fami del ministero dell’Interno.

      Mannino, accogliendo ieri la bimba e i genitori, ha chiesto se fossero cattolici e se era possibile un incontro con la comunità dei fedeli di Lampedusa. I genitori di Maria si sono detti disponibili all’incontro e hanno anche manifestato l’intenzione di battezzare la piccola proprio nella sua isola. Stamani è stato contattato il parroco che ha dato il via libera e che ha già trovato la tutina bianca da far indossare a Maria.

      La bimba è stata la prima a nascere, dopo 51 anni, a Lampedusa, dove le donne non partoriscono per mancanza di una struttura sanitarie adeguata. Maria è nata nell’ambulatorio del punto territoriale d’emergenza (Pte). Rita, ivoriana di 38 anni, già madre di due figli rimasti in Costa d’Avorio, faceva parte di un gruppo di migranti salvato e sbarcato nell’isola. La donna, giunta alla fine della gestazione, è stata portata in via precauzionale al poliambulatorio. Al Pte la ha iniziato il travaglio e non essendo stato possibile trasferirla in elisoccorso i sanitari hanno deciso di farla partorire lì.

      Ad assisterla e supportarla oltre ai medici in servizio è stata Maria Raimondo, infermiera di Corleone in servizio all’ambulatorio di Lampedusa: i genitori hanno deciso di dare il nome della donna alla figlia.

      La cittadinanza onoraria e l’intitolazione del parco - partecipa anche per il dipartimento Libertà civili e immigrazione il vice prefetto Carmen Cosentino - sono state decise in quanto Maria è un simbolo di speranza. Nelle motivazioni è scritto: «Maria è il simbolo di chi c’è l’ha fatta ma soprattutto di chi non ce l’ha fatta, di chi nutre la speranza di raggiungere un posto migliore dove mettere radici, dove vivere nella piena libertà e legalità, dove il diritto all’infanzia è una priorità. Ed è per questo che la nostra comunità è in dovere e in diritto di riconoscerle la cittadinanza onoraria, un riconoscimento alla vita, alla solidarietà, al rispetto e tutela dei diritti umani e di tutti i bambini che come Maria sono nati a Lampedusa».

      https://www.ansa.it/sicilia/notizie/2024/05/04/maria-prima-nata-a-lampedusa-dopo-51-anni-si-battezza_1403e10e-4d73-46a1-a322-a

  • Naufragio del 2013 a Lampedusa, identificata dopo 11 anni una delle vittime

    La salma di #Weldu_Romel, identificata col codice «AM 16», è stata tumulata nel cimitero di Caltagirone

    Sono serviti 11 anni, ma adesso il migrante «Am16» - vittima della strage del 3 ottobre 2013 - ha un nome e cognome. Il ventisettenne eritreo, Weldu Romel, morto assieme ad altri 367 migranti, riposa nel cimitero di Caltagirone. E il 6 maggio sulla sua lapide, finalmente, ci sarà un nome. Lo hanno reso noto dl Comitato 3 ottobre, spiegando che l’identificazione è stata possibile «grazie al prezioso lavoro dell’istituto Labanof dell’università di Milano e al commissario straordinario per le persone scomparse».

    La salma di Weldu Romel, identificata col codice «Am 16», è stata tumulata, nell’ottobre 2013, nel cimitero di Caltagirone.

    Alla cerimonia per la posa della lapide con incisi il suo nome e cognome, che si terrà lunedì alle 10.30, parteciperanno, tra gli altri, il prefetto di Catania, Maria Carmela Librizzi, l’imam di Catania, Kheit Abdelhafid, monsignor Salvatore De Pasquale, vicario
    generale della Diocesi di Caltagirone, Tareke Brhane, presidente del Comitato 3 ottobre, Angela Ascanio, referente progetto Sai
    di Caltagirone e Vito Fiorino, nominato «Giusto» per aver salvato 47 persone mentre si consumava la tragedia.

    «La nostra battaglia è per dare un nome e una degna sepoltura alle vittime dei naufragi - sottolinea Tareke Brhane - negare, infatti, questo diritto è contro ogni principio di umanità. Ogni persona ha diritto a una degna sepoltura così come i familiari hanno diritto di avere un luogo in cui ricordare e piangere i propri cari. Siamo felici che oggi, finalmente, a Weldu sia stata ridata un’identità. Speriamo di poterlo fare ancora per le centinaia di vittime senza nome che ancora oggi sono sepolte nei tanti cimiteri del nostro Paese».

    https://www.agrigentonotizie.it/cronaca/naufragio-lampedusa-2013-identificata-vittima-dopo-11-anni-maggio-2

    #3_octobre_2023 #identification #migrations #mourir_aux_frontières #morts_aux_frontières #11_ans_après... #naufrage #Lampedusa

  • Des exportations massives de composants français à la Russie en 2023
    https://www.obsarm.info/spip.php?article651

    Une enquête de Nicolas Burnens (RTL), reposant sur un document confidentiel d’experts proches du gouvernement ukrainien, souligne que les grandes entreprises françaises d’armement et d’électronique Thales, Safran, Nicomatic et STMicroelectronics ont continué à contourner massivement les sanctions sur la Russie en 2023. Cette enquête confirme notre étude parue en juin 2023 . Les transferts de composants à usage militaire des grandes entreprises françaises (STMicroelectronics, Lynred, (...) #Armements

    / #Contrôle_des_exportations, Transferts / exportations, #Économie_de_guerre, #La_une

    #Transferts_/_exportations

  • « On peut tout faire avec la terre » : face au #plastique, six potières brandissent la #céramique

    Gobelets, cocottes en grès, pots à lactofermentation... Au sein du collectif #Faire_Argile, six potières luttent contre le plastique en fabriquant des objets en #terre.

    Depuis la gare du RER C à Brétigny-sur-Orge, il ne faut que 10 minutes de voiture pour arriver à l’atelier. Mariane est au volant, Aline sur le siège passager avant. « Vous voyez cette zone ici, montre la conductrice en passant devant plusieurs immeubles récents, ils ont construit un écoquartier. Avant, il y avait des arbustes, des arbres, c’était une friche, avec de la biodiversité. » Le béton et l’artificialisation ne sont pas vraiment la tasse de thé de Mariane.

    Un peu plus loin, elle gare sa voiture devant un portail sur lequel est accrochée la pancarte « La poterie de l’Orge », du nom de la rivière qui coule un peu plus bas. Nous sommes arrivées. Une longue allée mène à la maison et à l’atelier. « Tout le sol du jardin était cimenté quand nous nous sommes installés ici, raconte Mariane qui habite les lieux depuis quelques années. On essaie d’enlever les couches petit à petit. C’est un gros boulot ! » Objectif : redonner toute sa place à la terre.

    C’est aussi le projet de Faire argile, un collectif créé en 2020 qui considère l’argile comme « une MAD, une matière à défendre ». Il compte actuellement six potières, dont Mariane, l’énergique Brétignolaise, et la discrète Aline qui vit à Arras. Mais aussi Graziella, habitante du Val-de-Marne, et Carole, du Jura — « dans la région des lacs et des cascades », se plaît-elle à préciser. Ces deux dernières nous attendent à l’intérieur de la maison. Elles se retrouvent régulièrement pour travailler la terre ensemble, ici chez Mariane ou ailleurs.

    « On peut tout faire avec la terre ! »

    Sur la table basse, le thé est servi dans une théière en céramique et le gâteau a été cuit dans un moule… en céramique. Pareil pour les tasses et les petites assiettes. « Tout est en terre ici. On peut tout faire avec la terre ! » dit Mariane, rappelant à nos souvenirs les poignées de porte et interrupteurs, douilles ou fusibles électriques en porcelaine de chez nos grands-parents. Cette matière était alors prisée pour ses qualités isolantes. Même les canalisations étaient en céramique, tout comme certains systèmes de drainage ou d’irrigation.

    Le collectif Faire argile est né pendant le confinement. Alors privés de lieux d’exposition, potiers et potières ont eu le temps de cogiter sur leur métier, le sens de leur travail. En juillet 2020, ils et elles ont été une trentaine à se retrouver dans un grand atelier à Cluny en Bourgogne. Durant un mois, débats et réflexions ont été bon train entre tournages, modelages et coulages.

    Dans ce laboratoire, ils se sont mis à refabriquer des abreuvoirs à poule, des casseroles, des pots. Des savoir-faire se sont transmis. « À ce moment, je me suis aperçue que je n’étais pas la seule à me poser des questions sur comment on vend nos objets, explique Aline. À qui on s’adresse ? Qu’est-ce qu’on fait ? Avec quels matériaux ? On avait toutes une réelle réflexion sur notre production d’expression personnelle. »

    L’expression personnelle. Derrière cette formule, se cache l’évolution du métier de potier au cours du dernier siècle. « La poterie a accompagné l’histoire des humains depuis la nuit des temps, s’enflamme Mariane. Même avant le feu, on s’est servi de l’argile, on s’est exprimé avec l’argile. Mais l’argile nous a aussi permis de fabriquer des choses qui nous sont utiles. »

    Elle toque sur la paroi d’une des deux grandes jarres à huile anciennes qui trônent dans son salon et proviennent de Vallauris, ville provençale célèbre depuis le XVIᵉ siècle pour ses poteries : « Ça, c’est comme un Tupperware, c’est juste utilitaire ! » Pendant longtemps, la terre a eu une très grande place dans la vie quotidienne.

    Puis, petit à petit, les pots, les assiettes, les éviers en céramique fabriqués un peu partout en France ont laissé la place à des pots, des assiettes, des éviers, toujours en céramique, mais bien moins chers car produits en Chine. Jusqu’à l’avènement du plastique dans les années 1950. Face à l’effondrement de la demande, chaque céramiste a alors dû affirmer son propre style, son « expression personnelle », pour se différencier.
    Produire « des choses utilitaires, de bon sens »

    Dès lors, la frontière entre artisanat et art s’est estompée. « On est aujourd’hui plus sur des objets qui relèvent de la déco ou qui font rêver que sur des choses utilitaires, de bon sens », constate Mariane. Les quatre femmes avec lesquelles nous discutons en cette mi-avril ont toujours été potières. Les plus jeunes constatent que, dans leur formation, l’aspect artistique a pris le pas sur la fabrication d’objets usuels. « Or si j’ai fait ce métier, c’est parce qu’on peut vraiment tout faire avec la terre, dit Aline. C’est ce qui m’a passionnée et fascinée dès le départ et qui m’a toujours habitée. C’est pour ça que je suis dans Faire argile. Au fond de moi, je ne me retrouve pas complètement dans le côté artistique. »

    Les fondatrices du collectif soulignent que le métier de la poterie a toujours été très collectif de par la dureté du travail qu’il impliquait. « Pour cuire, il fallait mettre du bois entre 24 heures et une semaine, toutes les 6 à 8 minutes dans le four. On ne pouvait donc pas être tout seul. » Les cuissons collectives existent encore, même si aujourd’hui la plupart des professionnels utilisent leur propre four électrique. Mais l’esprit d’entraide et d’échange est très ancré et perdure, assurent les quatre potières.
    « Le plastique, c’est toujours une mauvaise idée »

    Retrouver la fabrication d’objets usuels qui aient du sens, travailler ensemble et en local, faire des objets de lutte contre le plastique car « le plastique, c’est toujours une mauvaise idée » : tels sont les trois ingrédients desquels a jailli Faire argile. Le pot à lactofermentation — qui permet de faire fermenter des légumes, sur le principe de la choucroute — a été l’un des premiers objets sur lesquels le collectif a travaillé. « Avec ce pot, nous voulions parler du bien manger, de la santé, de comment conserver ses légumes sans consommer d’énergie ».

    À quelques pas de la maison, Mariane et Graziella nous ouvrent les portes de l’atelier qu’elles partagent. Inondé par le soleil de fin d’après-midi, l’endroit baigne dans une atmosphère qui appelle au calme et à la concentration. La fine pellicule de poussière blanche qui recouvre tout donne un aspect laiteux au lieu. Les « pots à lacto » prennent le temps de sécher alignés sur une table, tête en bas. Sur le haut d’une étagère, leurs couvercles attendent sagement.

    Mariane se lance dans le tournage de deux nouveaux pots. La terre se modèle sous ses doigts sans efforts apparents et l’objet grandit peu à peu jusqu’à atteindre la bonne taille. Carole s’attelle à ajouter des anses aux cocottes, dans leur dernière phase de modelage. Elles iront rejoindre une prochaine cuisson dans le four électrique.

    Faire Argile a réfléchi à tout. Les potières ont opté pour des matières les plus locales possibles. « Souvent, les céramistes ne savent pas d’où vient la terre qu’ils tournent », ont-elles remarqué. Elles travaillent essentiellement avec de la terre extraite par les moines de Taizé en Côte-d’Or. Leur principe de base : que leurs objets puissent être facilement dupliqués par n’importe quel potier. Elles ont ainsi conçu un protocole de fabrication simple en réduisant au maximum les gestes. Il devient alors possible de répondre à de grosses commandes en fabriquant en série, à plusieurs, dans des ateliers situés dans des lieux différents.

    Pour émailler ces objets, c’est-à-dire les rendre imperméables (car l’argile est poreuse), elles utilisent la technique de l’engobe, en délayant argile et cendres issues de leur propre four ou poêle à bois. En fonction des essences de bois brûlé, les teintes sont différentes. Mais le design reste sobre pour que « l’esthétique de ces objets parle au plus grand nombre », explique Carole.

    Afin de réduire le temps et le coût de la cuisson, très énergivore, les potières ont décidé de ne procéder qu’à une seule et unique cuisson qui monte à 1 200 °C, au lieu des deux traditionnelles. « Ce qui permet aussi de réduire le prix de nos produits et de les rendre plus accessibles. C’était très important pour nous », dit Aline.
    Concurrencer les écocups

    Pour optimiser chaque cuisson, il fallait combler les trous entre les pots par de petits objets. Est alors née l’idée de fabriquer des gobelets, histoire de concurrencer les « écocups » en plastique, qui énervent particulièrement le petit groupe et que nombre de festivals et évènements ont adopté ces dernières années.

    Pour rivaliser, elles ont conçu différentes tailles : 10 centilitres pour le gobelet à café, 25 cl pour l’eau, 33 cl pour la bière. Aline est la spécialiste des gobelets : elle pratique le coulage de l’argile liquide dans des moules en plâtre. Après 15 minutes d’attente, elle retire les gobelets de leur carcan de plâtre, et les laisse sécher. Une fois cuits, ils pourront s’emboîter les uns dans les autres, comme les écocups.

    « Mais ça casse ! », pourraient s’inquiéter les néophytes. « Nous en avons toutes que nous trimballons partout et, jusque-là, nous n’avons jamais eu de casse, rétorquent les fabricantes en chœur. Mais oui, ça peut quand même casser, et c’est un peu plus lourd. »
    Terre à feu à Dieulefit

    Le collectif s’est parfois heurté à la perte des savoir-faire. Lors d’une résidence à Dieulefit, village de potiers dans la Drôme, est née l’idée de fabriquer une cocotte capable d’aller sur le feu, comme cela se faisait traditionnellement là-bas. S’est alors posée la question de trouver de la « terre à feu », pour supporter le contact direct de la flamme.

    « Nous avons dû procéder à des recherches. À Dieulefit, plus aucun potier n’a encore cette connaissance et personne ne sait plus où cette terre à feu pourrait se trouver. » Elles ont fini par comprendre ce qu’il y avait dans cette terre. À défaut de pouvoir la reproduire elles-mêmes, elles se fournissent chez un distributeur qui ajoute un minéral, la cordiérite, afin d’amortir le choc thermique.

    Leurs cocottes en grès, dont elles sont « très fières », peuvent ainsi aller sur le gaz et la vitrocéramique, mais pas sur l’induction. Ce serait possible, mais ça demanderait de rajouter une cuisson et une partie en métal. « On ne voit pas trop l’intérêt si l’objectif c’est de réduire notre empreinte carbone. » D’autant que cette cocotte possède une très bonne capacité pour retenir la chaleur, assurent ses créatrices, ce qui permet de l’utiliser « en cuisson douce ou cuisson en cocotte norvégienne ».

    Même pour la livraison de ses produits qu’on peut commander en ligne, le collectif a réfléchi à un système baptisé « le blablapot », réduisant au maximum les émissions de carbone : les objets ne sont livrés que dans le cadre d’un trajet existant. Elles ont ainsi développé un réseau qui s’étoffe peu à peu en fonction des trajets réguliers, des rencontres et des liens entre clients, potières et amis d’amis. « Parfois, il faut attendre plusieurs semaines pour recevoir sa commande, mais on finit toujours par trouver un ou une convoyeuse. Et nos clients sont prêts à attendre trois mois s’il le faut. » Une autre façon de relier la terre et l’humain.

    https://reporterre.net/On-peut-tout-faire-avec-la-terre-face-au-plastique-six-potieres-brandiss
    #poterie #alternative

  • “These Thankless Deserts” - Winston Churchill and the Middle East : An Introduction
    https://winstonchurchill.org/publications/finest-hour/finest-hour-196/churchill-and-the-middle-east-an-introduction
    Voici le point de vue de la société Winston Churchill. A noter : La Déclaration Balfour de 1917 était le résultat d’une intrigue de Dr. Chaim Weizmann

    Wikipedia nous informe que
    https://fr.wikipedia.org/wiki/D%C3%A9claration_Balfour_de_1917#Contexte_strat%C3%A9gique_internation

    Dès 1903 Herzl avait obtenu une lettre officielle du Foreign Office déclarant que la Grande-Bretagne acceptait un accord sur la création d’une colonie juive sous administration juive, document que Yoram Hazony juge « surpassant même la Déclaration Balfour ».
    ...
    Hazony (2007), p. 180 : « Lord Landsdowne est prêt à envisager favorablement ... un projet dont les caractéristiques principales sont l’octroi d’un vaste territoire, la nomination d’un responsable juif à la tête de l’administration (ayant) carte blanche en matière d’administration municipale, religieuse et purement intérieure » (voir lettre de Sir Clement Hill (en) à Leopold Greenberg (en), 14 août 1903. Repris in Die Welt, 29 août 1903)..

    Churchill étant proche des sionistes travaillait depuis ce moment et jusqu’à la fin de sa vie en faveur de la colonisation juive d’une partie du territoire arabe sous mandat britannique. L’article contient quelques éléments qui ont pu le motiver à prendre cette position.

    10.7.2023 by David Freeman - Finest Hour 196, Second Quarter 2022

    During the First World War, the United Kingdom went to war against the Ottoman Empire, which had allied itself with the Central Powers of Germany and the Austro-Hungarian Empire. The Ottoman Empire traced its origins and its name back to the thirteenth-century Turkish Sultan Osman I.

    Although once a great power controlling large sections of Europe, Africa, and Asia, the Ottoman Empire by the twentieth century had become known as the “sick man of Europe” and was much reduced in size. Nevertheless, the Turks still controlled nearly all of the lands of Arabia, including the Moslem Holy Cities of Mecca and Medina. For centuries, the office of Sultan had been combined with that of the Caliph, the spiritual leader of the Moslem world.

    All of this came to an end with Turkish defeat in the Great War. In 1915, the British attempted a quick thrust at the Ottoman capital of Constantinople (now known as Istanbul) with a plan strongly supported by First Lord of the Admiralty Winston Churchill. The Dardanelles (or Gallipoli) campaign ended in failure. The British then turned to attacking the Turks from further out, along the frontiers of Arabia.

    In control of Egypt since 1882, the British used the ancient land to launch an offensive against Gaza, which lay in Turkish-controlled Palestine near the Sinai border with Egypt. At the same time, the British opened talks with Emir Hussein ibn Ali Al-Hashimi, the Sharif of Mecca. The Sharifate included Mecca and Medina, both located in the western regions of Arabia known as the Hejaz. Although an Arab, Hussein served the Turks, his title of Sharif indicating descent from the Prophet Mohammad.

    In 1916, the British induced Hussein to declare independence and establish himself as King of the Hejaz. In doing this, the British hoped to bring down the Ottoman Empire from within and minimize the resources they would need to commit to the region. The “Arab Revolt,” however, failed to attract the sort of support for which the British had been hoping.

    Much more powerful among the Arabs than Hussein was Abdul Aziz ibn Saud, the dominant chieftain in the Nejd, the large, barren region of eastern Arabia. Ibn Saud was much more concerned with defeating his chief rival in the Nejd than making war against the Turks. And so, in the end, the British had to do most of their own fighting in the Middle East, using forces from Britain, India, South Africa, Australia, and New Zealand.

    Hussein had several sons. Of these, the one who worked most closely with the British during the war was Feisal, known variously as “Emir Feisal” and, after his father proclaimed himself king, “Prince Feisal.” In return for Arab support, the British made ambiguous promises about supporting the creation after the war of independent states, including the region of Palestine, which was vaguely understood to be the land around the Jordan River.

    In the search for victory, however, the British also made promises in other directions. In 1916, Britain and France entered into an agreement that became known as the Sykes-Picot Treaty. The two imperial powers decided to carve up the Arab lands once the Turks were defeated. The French would take the northern regions of Syria and Lebanon, which might include Mosul and parts of Palestine, but which would definitely include Damascus. The British would take most of Palestine and Mesopotamia.

    In 1917, the British entered into yet another potentially conflicting agreement. Even before 1914, the World Zionist Congress had begun to establish new settlements in Palestine, the ancient homeland of the Jewish people. During the war, Dr. Chaim Weizmann, a naturalized British citizen and a research chemist, provided vital assistance to the war effort as Director of the British Admiralty Laboratories (see FH 195). Weizmann skillfully used his influence to induce the British government to issue the Balfour Declaration, a letter from Foreign Secretary Arthur Balfour to Lord Rothschild pledging support for the establishment “in Palestine for a national home for the Jewish people.”
    Churchill and the Middle East
    British map appended to 1921 Cabinet Memorandum showing proposed Mandates

    In the final year of the war, British forces made major progress against the Turks. Starting from Basra, at the head of the Persian Gulf, the British swept up the valley of Mesopotamia and captured Baghdad. Under the leadership of Gen. Sir Edmund Allenby, the British Army finally took Gaza and pushed through to Jerusalem. In the interior, meanwhile, Arab forces carried out a guerrilla campaign against the Turks, assisted to a degree by a young archaeologist turned intelligence officer turned commando, T. E. Lawrence (see FH 119).

    In the fall of 1918, the Ottoman Empire finally collapsed. Turkish forces remaining in Arabia hastily retreated, creating a vacuum. The Allies had not anticipated this, and Feisal seized the opportunity to establish himself in Damascus with the intention of ruling a new kingdom from the world’s oldest continually inhabited city. The French, however, insisted on their “rights” under the Sykes-Picot agreement, and the British had to acquiesce on the grounds that amity with the French was more important to the United Kingdom than amity with the Arabs.

    The French, however, were not to be altogether satisfied. President Wilson of the United States insisted that the Allies were to gain no territory from the defeated Central Powers. Instead the former colonies of Germany and Turkey would come under the authority of the League of Nations, which would assign the various territories to member states with a “mandate” to assist the native populations towards self-government. At least in theory, French and British authority in the Middle East was supposed to be only temporary.

    For the most part, the British were anxious to exit their mandates as soon as possible. British forces in Mesopotamia were made unwelcome by the locals, who were also bitterly divided against one another. Chaos prevailed, and British troops were regularly ambushed and killed in what Churchill called “these thankless deserts.” The cost of military operations became a primary concern to Churchill after the Armistice, when he became Secretary of State for War and was told by Prime Minister David Lloyd George that his paramount responsibility had to be reduction of expenditure.

    By 1920, Churchill came to believe that reducing military spending in the Middle East required the establishment of an Arab Department within the Colonial Office, which could work to settle the grievances of the Arabs and thereby reduce hostilities in the region. He lamented the price in blood and treasure that Britain was paying to be “midwife to an ungrateful volcano” (see FH 132). After Lloyd George agreed to Churchill’s proposal, the Prime Minister invited his War Secretary to move to the Colonial Office and supervise the settlement process himself.

    Churchill became Secretary of State for the Colonies early in 1921 and immediately called for a conference to take place in Cairo that March. Altogether forty key people involved with Britain’s Middle Eastern affairs gathered for what Churchill jestingly called a meeting of the “forty thieves.” Out of this emerged what became known as the “Sharifian” solution.

    Hussein would continue to be recognized as King of the Hejaz. His son Feisal, driven from Damascus by the French, would be set up in Baghdad as King of Iraq, as Mesopotamia was formally renamed. Palestine would be divided along the line of the Jordan. The eastern side, or “Trans-Jordania” (later shortened to Jordan), would become an Arab kingdom under Feisal’s elder brother Abdullah. Churchill argued that the advantage of this would be that pressure applied in any one of the three states would also be felt in the other two. Ibn Saud, to keep the peace, would be given a healthy subsidy by the British government.

    The western side of Palestine remained under British mandate authority so as to fulfill the pledge made by the Balfour Declaration. Although the Arabs of Palestine (i.e., the Palestinians) protested against this, Churchill curtly rejected their representations during a visit to Jerusalem after the Cairo Conference ended. Churchill did not foresee Jewish immigration overtaking the Palestinian population and naively believed that the two groups, along with Arab Christians, would work together to create a peaceful, prosperous, secular Palestinian state. Churchill was not always right.

    In June 1921, Churchill made a lengthy speech to the House of Commons in which he outlined his settlement and the reasons behind it (see p. 38). This would be the longest statement Churchill ever made about the Middle East and its peoples. Over the following year and a half, he supervised the implementation of the decisions made at Cairo and approved by Parliament. The process was not without incident—Feisal was in a precarious position in Baghdad and constrained to demonstrate his independence—but went generally according to plan before Churchill and his Liberal party were driven from power late in 1922.

    Churchill’s most dedicated period of involvement with the Middle East ended with his tenure at the Colonial Office, but he continued to monitor events. The short-lived Kingdom of Hejaz ended when it was overrun in 1924 by the forces of ibn Saud, who unified the region with the Nejd to create the Kingdom of Saudi Arabia. Hussein went into exile, later to be buried in Jerusalem. After returning to Parliament as a Conservative, Churchill remained a supporter of Zionism and strongly objected when the government of Neville Chamberlain acted to restrict Jewish immigration into Palestine, even as Nazi Germany was forcing Jews in Europe to flee for their lives.

    During the Second World War, the Middle East became a critical zone for the Allies. The Suez Canal linked Britain with India and the Antipodes, and Egypt was a base from which to fight the Axis powers directly when first Italy and then Germany began offensive operations in North Africa. As Prime Minister, Churchill travelled to Cairo several times during the war. In 1945 it was where he last met with President Roosevelt and first met with ibn Saud. After a cabal of pro-fascist army officers seized control of the government in Baghdad in 1941, Churchill supported a bold and successful move to reestablish an Iraqi government friendly to Britain.

    Although out of office when Israel declared independence in 1948, Churchill expressed the view to his old friend and fellow Zionist Leo Amery that it was “a big event…in history” and “all to the good that the result has come about by fighting” (see FH 178). It also pleased Churchill that Weizmann became the first President of Israel and that the nation’s leading technical university chose to name its auditorium for the former British Prime Minister who had supported Zionism at a crucial moment (see FH 195).

    One hundred years on, the decisions that Churchill made about the Middle East continue to affect the world today.

    #Grande_Bretagne #Empire_ottoman #Palestine #histoire #impérialisme #Déclaration_Balfour #Conférence_du_Caire_1943 #Égypte #Iraq #Mésopotamie #Moyen-Orient #Lawrence_d_Arabie #Israel

    • April 26, 2023
      Winston Churchill’s 1922 White Paper for Palestine
      Finest Hour 196, Second Quarter 2022
      Page 32 - By Sarah Reguer
      https://winstonchurchill.org/publications/finest-hour/finest-hour-196/we-tender-our-most-grateful-thanks/?highlight=Dr.+Chaim+Weizmann

      (...) At the end of 1921 Churchill did act on issues connected with the Palestine garrison, but High Commissioner Samuel kept writing about the need for a clear political policy, since the political status was still not regularized by a formal document, either a British one or one from the League of Nations.

      Memoranda arrived from Samuel, from leading members of the Colonial Office’s advisory board, from Dr. Chaim Weizmann, president of the World Zionist Organization, and from the Arab delegation. On 11 August, Churchill wrote an introduction to a Palestine memorandum that was not very encouraging nor optimistic. “The situation in Palestine causes me perplexity and anxiety,” he began.1 “The whole country is in a ferment. The Zionist policy is profoundly unpopular with all except the Zionists.” Both sides were arming, elective institutions were refused in the interests of the Zionist policy, “and the high cost of the garrison is almost wholly due to our Zionist policy.”2 Meanwhile, even the Zionists were discontented at the lack of progress and the “chilling disapprobation” of the British officials and the military. (...)

  • Decolonizzare la memoria del presente
    https://resistenzeincirenaica.com/2024/04/26/decolonizzare-la-memoria-del-presente

    COMUNICATO Oggi, 25 aprile 2024, come Collettivo Kasciavìt abbiamo installato un nuovo monumento nella città di Milano. Il pilastro di una casa distrutta simboleggia il massacro e la devastazione portati avanti dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza, poiché non vogliamo che il dolore di un popolo e la devastazione di una terra rimangano inascoltati e... Continua a leggere

    #La_Federazione


    https://2.gravatar.com/avatar/b92df86975f8cd7a64480c50b5fe391940655ad781a4ad2175710d8c7343f086?s=96&d=

  • Trouver des débouchés pour la #laine

    Chaque année le cheptel ovin produit environ 14 000 tonnes de laine. Or elle est devenue une charge pour les eleveurs qui ne trouvent plus de #débouchés

    Pour les éleveurs, écouler sa laine est devenue très difficile. Au début du siècle dernier, l’#industrie_textile et la transformation de la laine étaient majeures en #France. Avant que n’arrivent le coton, les matières synthétiques et la concurrence des pays lointains. Désormais la laine est au mieux bradée, le plus souvent stockée. Parfois même brûlée par des éleveurs qui n’en ont pas le droit, mais ne savent plus que faire de cette laine qu’ils ont sur les bras. Car désormais, en France, elle n’est plus une #ressource_économique.

    A la disparition de l’appareil industriel s’est ajoutée une nouvelle accélération de la crise, avec le Covid. Cela a stoppé les exportations vers la #Chine, principale destination jusque-là. Les sept millions de bêtes du cheptel ovin de produisent naturellement près de 14 000 tonnes de #toisons chaque années Et pour leur bien-être les moutons sont tondus au moins une fois chaque année. La question donc, c’est que faire de cette laine qui est de toute façon là. Et dont seul un tout petit pourcentage est valorisé.

    Le ministère de l’agriculture a chargé ses services de se pencher sur la question l’an dernier pour identifier les manières de relancer la filière. Le #CGAER, le Conseil général de l’alimentation, de l’agriculture et des espaces ruraux a publié un #rapport.

    Et cela d’autant plus qu’il s’agit de matériaux locaux, renouvelables, biodégradables. Bref, des matériaux intéressants.

    Mais toutes les laines ne peuvent pas avoir les mêmes usages. Et en majorité, celles produites en France n’ont pas les fibres nécessaires pour faire des pull ou fournir l’industrie du luxe. Néanmoins il existe à la fois des débouchés historiques à relancer, et des techniques innovantes à soutenir. Il y a aujourd’hui deux grandes stratégies de développement. Le modèle du circuit court, avec des initiatives locales, déjà plus en plus nombreuses. Ce sont des petits élevages vendant sur les marchés, misant sur le goût pour les matières naturelles, ou les loisirs créatifs. Des petites entreprises, associations et filatures se multiplient sur le territoire. Elles gagneraient à être mieux coordonnées.

    Et puis il y a ceux qui visent une relance industrielle. Avec des pistes comme le rembourrage de matelas, des vêtement de protection des usages agricoles, éventuellement l’isolation thermique des bâtiments. Même si pour cela, la laine serait en concurrence avec d’autres matériaux naturel moins cher.
    Relancer une filière

    Mais plusieurs étapes restent nécessaires à la relance d’une filière.
    D’abord une meilleure connaissance statistique : réaliser un inventaire des qualités lainières de toutes les races françaises, et un suivi des marchés est un préalable.
    Ensuite, et c’est probablement le plus difficile, renforcer les capacité de production. Aujourd’hui il n’existe plus en France qu’une seule grande usine de lavage. Et peu de filatures. Mais une telle relance requiert de l’argent, et un marché.
    Enfin, une structuration. Au Royaume-Uni, la filière est en bonne forme, grâce à une coopérative qui assure la collecte de toute la laine et un label de promotion, de la qualité « British whool ». Le modèle n’est pas transposable. Mais les acteurs réfléchissent aux manières de montrer leur différences En imaginant par exemple un score carbone spécifique à la laine européennes. Un collectif nommé #Tricolor relance une organisation interprofessionnelle. il doit présenter à la mi mai sa feuille de route pour relancer la filière.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/le-journal-de-l-eco/trouver-des-debouches-pour-la-laine-6948130
    #valorisation #exportation

    • La valorisation de la laine et des #peaux_lainées

      Que faire des stocks de laine et de peaux lainées qui s’accumulent sur les exploitations ovines et chez les négociant ? Le CGAAER a tenté d’apporter une réponse au travers d’une mission de conseil.
      Enjeux

      Le troupeau ovin français compte environ sept millions de têtes.

      Historiquement sélectionnés pour produire de la laine, les moutons doivent être tondus au moins une fois par an pour leur bien-être et la préservation de leur état sanitaire. Toutefois, depuis plusieurs années, les éleveurs ovins rencontrent de grandes difficultés à commercialiser la laine et sont de plus en plus souvent contraints de la stocker sur l’exploitation. Une situation assez comparable est constatée chez les négociants en peaux lainées confrontés à la disparition de leurs marchés traditionnels.

      Alors que dans le passé laine et peaux lainées étaient source de richesse, l’absence de valorisation de ces matériaux locaux, renouvelables, biosourcés et biodégradables pose question. Une mission a été confiée au CGAAER.
      Méthodologie

      La mission s’est déroulée d’octobre 2022 à avril 2023. Elle a permis d’auditionner plus de cinquante acteurs des filières laines et peaux lainées afin d’appréhender les différentes modalités de valorisation envisageables. Un déplacement au Royaume-Uni a complété ces entretiens.
      Résumé

      Après avoir dressé un état des lieux de la situation des filières laines et peaux lainées et des marchés, la mission s’est attachée à analyser les caractéristiques du gisement lainier français et à identifier les facteurs ayant présidé à l’évolution de la filière depuis le milieu du siècle dernier, époque à laquelle la France était un des leaders mondiaux du textile et de la transformation de la laine.

      Prenant en compte les évolutions réglementaires en matière de valorisation des sous-produits animaux (SPAn) intervenues au début du XXIème siècle, la mission a étudié les freins à la valorisation de laine française, en lien notamment avec ses caractéristiques techniques. Outre les valorisations historiques, dites techniques, dans la filière textile ou celle du feutre et de ses produits dérivés, la mission s’est intéressée à des modes de valorisation émergents. En dépit d’une valeur ajoutée plus faible, ils peuvent présenter un intérêt, en matière d’amendements et de fertilisants organiques ou pour répondre à des demandes croissantes de protéines animales. Des valorisations cosmétiques (lanoline) ou pharmaceutiques ou nutraceutiques (vitamine D, mélanine, kératine) ont également été envisagées.

      Partant de ces constats et considérant que le problème concernait majoritairement la filière laine, les missionnés ont proposé des pistes d’amélioration et émis sept recommandations. Outre une nécessaire sensibilisation des éleveurs à la qualité de la laine produite, une meilleure structuration de la collecte de façon à faciliter les conditions de mise en marché et, dans la mesure du possible, la création d’une nouvelle unité de lavage industriel en France seraient de nature à faciliter la valorisation des laines de qualité supérieure dans la filière textile et le développement d’une filière d’isolants en laine.

      La mission a également esquissé des pistes, certes moins valorisantes à ce jour, qui, toutefois, apportent une réponse à la gestion des rebuts de tri aux différentes étapes de transformation, et permettent une valorisation en circuit court sous forme de compostage à la ferme ou la fabrication d’amendements organiques. Cette dernière piste nécessite toutefois des études et expertises complémentaires.

      pour télécharger le rapport :
      https://agriculture.gouv.fr/telecharger/137784

      https://agriculture.gouv.fr/la-valorisation-de-la-laine-et-des-peaux-lainees

  • Nicole Belloubet démet un sociologue pour qui le voile à l’école est un « vecteur d’émancipation »
    https://www.lopinion.fr/politique/nicole-belloubet-demet-un-sociologue-pour-qui-le-voile-a-lecole-est-un-vect


    Imagine que la science te donne tort…

    Voici ce que disait ce dernier sur RFI le 5 avril : « Le voile n’est pas le plus souvent un signe de prosélytisme – les enquêtes sociologiques montrent qu’il s’agit même souvent d’un vecteur d’émancipation pour les jeunes filles par rapport à leurs milieux – et le port du voile devrait donc être analysé chaque fois au cas par cas » Ajoutant, à propos de Maurice-Ravel : « ça illustre, me semble-t-il, les difficultés d’appliquer sereinement la loi qui (…) apparaît, à tort ou à raison, comme discriminatoire à l’égard des musulmans ». Il y a un an, la nomination au CSL d’Alain Policar par Pap Ndiaye, alors ministre de l’Education nationale, avait été très critiquée par les « historiques » de l’institution créée par Jean-Michel Blanquer qui y voyaient une manœuvre de dilution de la défense de la laïcité.

    • Ah les éléments perturbateurs selon Belloubet, une ado avec un foulard, un enfant en situation de handicap, la listen’est pas close...

    • Évincé du Conseil des sages de la laïcité, #Alain_Policar réagit : « L’illusion du pluralisme est écornée »
      https://www.mediapart.fr/journal/france/250424/evince-du-conseil-des-sages-de-la-laicite-alain-policar-reagit-l-illusion-

      L’interview que j’ai donnée à RFI le 5 avril sur l’affaire du lycée Maurice-Ravel, qui hélas n’était pas le reflet très exact de ce que j’ai dit, a suscité des attaques des collectifs #Vigilance_universités et #Vigilance_collèges_lycées, dans lequel deux membres du Conseil des sages siègent – Iannis Roder et Delphine Girard. Ce sont ceux avec lesquels je n’avais pratiquement pas réussi à nouer la moindre relation.

      Ce sont des idéologues, partisans d’une #laïcité intransigeante, qui considèrent qu’il faut la brandir à tout-va pour éloigner le danger islamiste. Ce n’est pas mon avis. En séance du Conseil j’avais dit en début d’année que si nous voulions célébrer l’anniversaire de la loi de 2004, il faudrait s’interroger sur les raisons pour lesquelles des familles et élèves en majorité #musulmans ne comprennent pas cette loi et la jugent discriminatoire. On m’a répondu que ce n’était pas le problème.

      On me reproche de ne pas respecter le droit positif, car je me réclame de la jurisprudence du Conseil d’État de novembre 1989 qui ne voulait pas de loi. Mais un droit en vigueur est pour moi questionnable et éventuellement destiné à changer selon les circonstances. La loi pouvait être bonne en 2004, mais ses conditions d’application ne sont pas totalement satisfaisantes. Si on s’intéressait plutôt aux manquements à l’obligation scolaire, on ne mettrait pas l’accent sur l’appartenance à une communauté religieuse quelconque. Ce n’est pas ce qui est fait.

      [...]

      La laïcité est pourtant le meilleur moyen d’organiser la coexistence des libertés, mais elle apparaît comme coercitive dans l’esprit de nombreux jeunes. Il faut que les raisons soient accessibles à tous. Malheureusement, la position majoritaire considère que la laïcité à la française n’est pas contestable.

      [...]

      De manière générale, il existe un biais majoritaire qui met en cause l’égalité civique en France. C’est ce qu’a développé Cécile Laborde [autrice de Français, encore un effort pour être républicains !, Seuil, 2010 – ndlr], mais ce sont des arguments que les nationaux-républicains comme Dominique Schnapper, la présidente du #Conseil_des_sages_de_la_laïcité, ont du mal à admettre. Et puis il y a l’#histoire_coloniale, dont on n’a pas fait le bilan de façon sérieuse en France. Nous n’avons pas suffisamment de recul sur la « mission civilisatrice » que l’#universalisme à la française était censé accomplir. Ça viendra peut-être. Quoi qu’il en soit, avec mon exclusion, l’illusion du pluralisme au sein du CSL est écornée.

  • « Quand vous avez un nombre de médecins insuffisant, il ne faut pas s’étonner que des groupes financiers prennent l’initiative »
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/04/21/quand-vous-avez-un-nombre-de-medecins-insuffisant-il-ne-faut-pas-s-etonner-q

    Les #groupes_financiers ont bénéficié du désengagement de l’Etat dans les besoins de #santé pour s’engouffrer dans le secteur, explique l’économiste Nicolas Da Silva dans un entretien au « Monde ». Au risque d’imposer leurs normes.
    Propos recueillis par Véronique Julia, Publié le 21 avril

    Nicolas Da Silva est économiste, maître de conférences en sciences économiques à l’université Sorbonne-Paris-Nord. Il appelle l’Etat à faire preuve d’imagination pour améliorer l’organisation de l’offre de soins sur tout le territoire [ah ah ah].

    L’offensive de la finance dans le secteur de la santé résulte-t-elle en partie des défaillances de l’Etat ?

    La finance profite de l’absence d’une réponse publique organisée aux problèmes que connaît le secteur de la médecine libérale. Et elle propose de pallier ces défaillances, en effet. Quand vous avez des besoins de santé non couverts, avec un nombre insuffisant de #médecins, des #déserts_médicaux et des urgences saturées faute d’alternative, il ne faut pas s’étonner que des groupes financiers prennent l’initiative et trouvent leur place dans le parcours de soins, en réorganisant l’offre et en investissant massivement. Et cela dans tous les domaines : la biologie, la radiologie, mais aussi les soins de premier recours.

    Juridiquement, les pouvoirs publics ont même facilité les initiatives privées et l’entrée d’investisseurs au capital des structures médicales. D’ailleurs, on entend davantage ceux qui râlent, mais certains médecins s’y retrouvent et ne se plaignent pas : quand un groupe privé s’occupe de toutes les tâches administratives et vous dit de vous concentrer sur votre cœur de métier, ça répond aussi à une attente formulée par les professionnels qui n’est pas suffisamment entendue.

    Vous alertez sur les dangers de cette tendance…

    Les financiers cherchent à rémunérer leur capital et ils sont dans leur rôle. Mais les risques sont multiples. Les risques d’inégalité d’abord, car ils ne vont investir que là où c’est rentable, ce qui peut les conduire à délaisser des actes, des zones géographiques, des pathologies et des publics moins intéressants d’un point de vue lucratif. Dans le domaine de la santé, la rémunération de l’offre de soins provient de financements publics, qui ne sont pas extensibles, donc comment faire du profit sans que ce soit sur le dos des patients et des professionnels de santé ?

    J’ajoute le risque de déposséder ces mêmes professionnels de leur outil de travail, ce dont les médecins prennent conscience. S’ils ne possèdent plus le contrôle de leur outil, ils peuvent perdre leur liberté d’exercice, et la logique financière pourrait prendre le pas sur le choix médical et l’intérêt du patient.

    Comment peut-on limiter ces risques ?

    Déjà, il serait bénéfique de chercher à quantifier et à qualifier la tendance observée depuis plusieurs années. On manque de données, c’est un travail titanesque de construire une cartographie des financiers et des financements. Ensuite, il faut réguler les statuts juridiques des groupes constitués pour s’assurer de l’indépendance réelle des praticiens. Enfin, il faut que les pouvoirs publics réagissent et aient un peu d’imagination pour mieux organiser l’offre sur le territoire : investir massivement dans certaines régions sous-dotées, mieux rémunérer certaines démarches d’installation, penser une organisation pérenne qui ne peut pas être que libérale…

    Laisser la finance pallier les manques relève d’une vue de court terme : cela rend service dans un premier temps, mais, finalement, cela peut bousculer le rapport de force avec des mastodontes qui imposeront leurs exigences tarifaires. C’est un vrai risque à prendre en compte.

    Véronique Julia

  • Il cotone “sporco e insostenibile” di #Zara ed #H&M e la distruzione del #Cerrado

    La Ong inglese #Earthsight ha condotto un’inchiesta per un anno lungo la filiera di questa fibra tessile: i due marchi della fast fashion avrebbero immesso sul mercato 800mila tonnellate di cotone coltivato su terreni disboscati illegalmente nella savana tropicale che copre un terzo del Brasile. “Il sistema di filiera ‘etica’ su cui si basano questi colossi è fondamentalmente difettoso”

    Se negli ultimi anni avete acquistato vestiti di cotone, asciugamani o lenzuola di H&M o Zara “probabilmente sono macchiati del saccheggio del Cerrado”, un’area ricchissima di biodiversità che copre quasi un quarto della superficie del Brasile. Sam Lawson, direttore della Ong britannica Earthsight, non usa mezzi termini per commentare l’esito dell’inchiesta “Fashion crimes. The European retail giants linked to dirty Brazilian cotton”, pubblicata l’11 aprile, che analizza la lunga e insostenibile filiera di questa fibra dalla produzione (in Brasile) alla lavorazione (in Paesi come Indonesia e Bangladesh), fino alla commercializzazione in Europa (Italia compresa) dove, secondo le stime di Earthsight, i due brand avrebbero messo in commercio prodotti realizzati con 800mila tonnellate di cotone coltivato su terreni disboscati illegalmente nel Cerrado.

    Ma andiamo con ordine. L’inchiesta di Earthsigh prende le mosse proprio dal grande Paese latinoamericano che, negli ultimi dieci anni, ha guadagnato crescente importanza nel mercato globale del cotone, di cui oggi è il secondo esportatore mondiale “e si prevede che entro il 2030 supererà gli Stati Uniti”. Il cuore di questa produzione si concentra in uno degli ecosistemi più fragili e preziosi del mondo: il Cerrado, una grande savana tropicale che ospita una delle più importanti aree di biodiversità al mondo, dove vivono oltre seimila specie di alberi così come centinaia di rettili, mammiferi, anfibi e uccelli.

    La sopravvivenza di questo inestimabile patrimonio è minacciata dalla deforestazione illegale che nel 2023 ha raggiunto livelli record, con un aumento del 43% rispetto al 2022. “Circa la metà della vegetazione nativa del Cerrado è già andata perduta, soprattutto per far posto all’espansione dell’agrobusiness”, evidenzia il report. Milioni di litri d’acqua vengono prelevati regolarmente dai fiumi e dalle falde per irrigare i campi di cotone, la cui coltivazione richiede l’utilizzo di 600 milioni di litri di pesticidi ogni anno.

    L’inchiesta di Earthsight analizza in particolare il ruolo di due dei principali produttori di cotone brasiliani: il gruppo Horita e SLC Agrícola che controllano enormi aziende e centinaia di migliaia di ettari di terreno. “Nel 2014 l’agenzia ambientale dello Stato di Bahia ha rilevato 25mila ettari deforestati illegalmente nelle aziende agricole di Horita a Estrondo -si legge nel report-. Nel 2020 la stessa agenzia ha dichiarato di non essere riuscita a trovare i permessi per altri 11.700 ettari deforestati dall’azienda tra il 2010 e il 2018”. Tra il 2010 e il 2019 l’azienda è stata multata complessivamente più di venti volte, per un totale di 4,5 milioni di dollari, per violazioni ambientali.

    Altrettanto gravi, le denunce rivolte a SLC Agrícola: tre aziende, tutte coltivate a cotone, hanno cancellato per sempre 40mila ettari di Cerrado nativo negli ultimi 12 anni. E, sebbene l’azienda abbia adottato una politica “zero deforestazione” nel 2021, è accusata di aver distrutto altri 1.356 ettari di vegetazione nel 2022. Accuse che hanno spinto il fondo pensionistico pubblico della Norvegia a ritirare i propri investimenti nella società brasiliana.

    Al termine di un lavoro d’inchiesta di un anno -durante il quale hanno analizzato migliaia di registri di spedizione, relazioni aziendali, elenchi di fornitori e siti web– i ricercatori di Earthsight hanno ricostruito la filiera che porta il cotone coltivato illegalmente nel Cerrado nei negozi di Zara ed H&M e poi negli armadi di milioni di persone. I ricercatori hanno identificato otto produttori di abbigliamento asiatici che utilizzano il cotone Horita e SLC e che allo stesso tempo forniscono alle due società di fast fashion milioni di capi di cotone finiti. Tra questi figura l’indonesiana PT Kahatex “il più grande acquirente di cotone contaminato Horita e SLC che abbiamo trovato”. H&M è il secondo cliente dell’azienda indonesiana, da cui ha acquistato milioni di paia di calzini, pantaloncini e pantaloni che sono poi stati messi in vendita nei negozi del gruppo negli Stati Uniti, in Germania, nel Regno Unito, in Svezia, nei Paesi Bassi, in Belgio, in Spagna, in Francia, in Polonia, in Irlanda, in Italia.

    Il cotone sporco del Cerrado è finito anche negli stabilimenti di Jamuna Group, uno dei maggiori conglomerati industriali del Bangladesh: “Nei negozi Zara in Europa, fino ad agosto 2023, sono stati venduti per 235 milioni di euro jeans e altri capi in denim confezionati da Jamuna, circa 21.500 paia al giorno -si legge nel report-. Inditex importa i capi prodotti da Jamuna in Spagna e nei Paesi Bassi, da dove li distribuisce ai suoi negozi Zara, Bershka e Pull&Bear in tutta Europa”. Complessivamente, secondo le stime che i ricercatori hanno elaborato consultando i registri delle spedizioni il Gruppo Horita e SLC Agrícola hanno esportato direttamente almeno 816mila tonnellate di cotone da Bahia verso i mercati esteri tra il 2014 e il 2023. Una quantità di materia prima sufficiente a produrre dieci milioni di capi d’abbigliamento e prodotti per la casa tra lenzuola, tovaglie e tende.

    Ma come è stato possibile, si sono chiesti i ricercatori, che le catene di approvvigionamento dei due marchi di moda siano state “contaminate” da cotone brasiliano legato a deforestazione e land grabbing? “Parte della risposta sta nel fatto che le loro politiche etiche sono piene di falle. Ma soprattutto, il sistema di filiera etica su cui si basano è fondamentalmente difettoso”.

    Il riferimento è al fatto che, nel tentativo di presentarsi come sostenibili e responsabili, i due brand si sono affidati a un sistema di certificazione denominato Better Cotton (BC). “Il cotone che abbiamo collegato agli abusi ambientali a Bahia ne riportava il marchio di qualità. Questo non dovrebbe sorprendere dal momento che Better Cotton è stata ripetutamente accusata di greenwashing e criticata per non aver garantito la piena tracciabilità delle catene di approvvigionamento”, scrivono i ricercatori di Earthsight nel rapporto. Evidenziando come, sebbene dal primo marzo 2024 le regole di BC siano state aggiornate, rimangano comunque una serie di criticità e di punti deboli. A partire dal fatto che il cotone proveniente da terreni disboscati illegalmente prima del 2020 venga ancora certificato.

    “È ormai molto chiaro che i crimini legati ai beni che consumiamo devono essere affrontati attraverso la regolamentazione, non attraverso le scelte dei consumatori -conclude Sam Lawson, direttore di Earthsignt-. Ciò significa che i legislatori dei Paesi consumatori dovrebbero mettere in atto leggi forti con un’applicazione rigorosa. Nel frattempo, gli acquirenti dovrebbero pensarci due volte prima di acquistare il prossimo capo di abbigliamento in cotone”.

    https://altreconomia.it/il-cotone-sporco-e-insostenibile-di-zara-ed-hm-e-la-distruzione-del-cer
    #industrie_textile #coton #mode #déforestation #Brésil #rapport #chiffres #statistiques #SLC_Agrícola #Horita #SLC #fast-fashion #land_grabbing #accaparement_de_terres #Better_Cotton #greenwashing #green-washing

    • Fashion Crimes: The European Retail Giants Linked to Dirty Brazilian Cotton


      Key Findings:

      - The world’s largest fashion brands, H&M and Zara, use cotton linked to land grabbing, illegal deforestation, violence, human rights violations and corruption in Brazil.
      - The cotton is grown by two of Brazil’s largest agribusinesses – SLC Agrícola and the Horita Group – in western Bahia state, a part of the precious Cerrado biome, which has been heavily deforested in recent decades to make way for industrial-scale agriculture.
      - Unlike in the Amazon, deforestation in the Cerrado is getting worse. The biome is home to five per cent of the world’s species. Many face extinction due to habitat loss if current deforestation trends are not reversed.
      - For centuries, traditional communities have lived in harmony with nature. These communities have seen their lands stolen and suffered attacks by greedy agribusinesses serving global cotton markets.
      - The tainted cotton in H&M and Zara’s supply chains is certified as ethical by the world’s largest cotton certification scheme, Better Cotton, which has failed to detect the illegalities committed by SLC and Horita. Better Cotton’s deep flaws will not be addressed by a recent update to its standards.
      - Failure by the fashion sector to monitor and ensure sustainability and legality in its cotton supply chains means governments in wealthy consumer markets must regulate them. Once in place, rules must be strictly enforced.

      https://www.earthsight.org.uk/fashion-crimes

  • Film Anti-squat, à découvrir
    https://ricochets.cc/Film-Anti-squat-a-decouvrir-7027.html

    Un film sorti à l’automne 2023 qui semble intéressant, à voir à l’occasion alors que de nouvelles lois répressives s’appliquent contre le squat et facilitent l’expulsion des pauvres en délicatesse de loyer. Dresser les gens les uns contre les autres, utliser des procédés dégeulasses, encourager le chacun pour soi et les mauvais « penchants » humains..., on retrouve apparemment dans cette fiction des ingrédients tristement habituels du capitalisme. Sur Wikipédia : Inès est menacée (...) #Les_Articles

    / #Logement, La propriété

    #La_propriété
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Anti-Squat

  • Uber, Bolt und Free Now: Berlin sperrt ab sofort ein Viertel der Autos
    https://www.berliner-zeitung.de/news/uber-bolt-und-free-now-berlin-sperrt-ab-sofort-ein-viertel-der-auto

    Der Berliner Senat überprüfte sämtliche Fahrdienste. Weil Genehmigungen fehlten oder fehlerhaft waren, werden fast 25 Prozent der Autos von Uber, Bolt und Free Now aus dem Verkehr gezogen.

    Wegen fehlender oder falscher Genehmigungen sperrt der Berliner Senat rund ein Viertel aller Mietwagen-Fahrzeuge, die auf Fahrdienstplattformen wie Uber, Free Now, Bolt oder Bilq angeboten werden. In den Wochen zuvor hatte das Landesamt für Bürger- und Ordnungsangelegenheiten (Labo) in diesem Zusammenhang mehr als 8900 Autos überprüft, wie die Senatsverwaltung für Verkehr am Freitag mitteilte. In mehr als 24 Prozent der Fälle gab es demnach Beanstandungen.

    Entweder lagen für die Autos keine gültigen Genehmigungen vor oder sie waren von einer bestehenden Erlaubnis nicht abgedeckt oder der angegebene Betriebssitz entsprach nicht der Genehmigung, hieß es weiter. Die beanstandeten Autos und Unternehmen sollen nun „unverzüglich“, spätestens aber bis zum kommenden Donnerstag, „von den Vermittlungsdiensten für weitere Vermittlungen gesperrt“ werden, hieß es. „Mit dieser umfassenden Bereinigung der Datenbestände ist der Prozess der Bestandsüberprüfung erfolgreich abgeschlossen.“

    Der Prüfung vorausgegangen waren Medienberichte und Erkenntnisse, wonach zahlreiche der auf den Plattformen angebotenen Autos ohne Genehmigung des Labo unterwegs sind. Die Autos gehören Firmen, die die Fahrzeuge samt Fahrer bei den Plattformen registrieren. Über die jeweiligen Apps können Kundinnen und Kunden dann eine Fahrt damit buchen.

    Schon im August vergangenen Jahres hatte der Senat deshalb veranlasst, dass jeder neu bei den Plattformen registrierte Mietwagen vom Landesamt überprüft und im Zweifel ausgeschlossen wird. Nun schaute sich die Behörde auch die Fahrzeuge an, die schon länger dort registriert sind. „Die genannten Maßnahmen tragen zu einer höheren Sicherheit für die Nutzerinnen und Nutzer, die Angebote der Vermittlungsdienste in Anspruch nehmen, bei“, teilte die Senatsverwaltung im März mit. Die Plattformanbieter hatten für die Überprüfung mit dem Senat kooperiert.

    #Berlin #Verkehr #LABO

  • Il corpo del Teatro, riflesso del reale
    https://resistenzeincirenaica.com/2024/04/20/il-corpo-del-teatro-riflesso-del-reale

    Opera MundiRigoletto Experientia Un #Film_Musicale di Paolo Fiore AngeliniCon #Raffaele_Abete, #Scilla_Cristiano, #Vladimir_Stoyanov Martedì 23 aprile 2024, ore 21, #CINEMA Jollyvia G. Marconi 14, BolognaAlla presenza del regista e del cast #Opera_Mundi prende spunto dalla messa in scena del Rigoletto di Giuseppe Verdi al Comunale di #Bologna per narrare la vita del... Continua a leggere

    #Annessioni_e_connessioni #Barbara_Francesca_Serofilli #Cristian_Poli #Lavinia_Turra #Paolo_Fiore_Angelini #Teatro_Comunale_di_Bologna


    https://1.gravatar.com/avatar/a58008e2faff908bf3bce3deda6cae65d83f56b910f14098523ef4fc18c7427a?s=96&d=

  • Bekämpfung illegaler Strukturen im Mietwagengewerbe
    https://www.berlin.de/sen/uvk/presse/pressemitteilungen/2024/pressemitteilung.1439400.php

    LABO prüft Mietwagen? Selten so jelacht. Die blinde Gurkentruppe ausde Puttkamer prüft 8940 Illegale und wird bei 24,12% fündig. Sanktion? Nich wirklich. Sollen die Plattformen aus der Vermittlung schmeiszen. Un schon is fertich. Ob dit man klappt?

    Wieso nur so wenje Vastöse? Na weil nich jeprüft wird.

    – Rückkehrpflicht?
    – Stellplätze am Betriebssitz?
    – Aufenthaltsräume?
    – Umsätze, Steuern und Sozialabgaben?
    – Dokumentation der Arbeitszeiten?
    – Arbeitszeitgesetz?
    – Pausen?
    – Mindestlohn?

    Allet Fehlanzeige. Intressiert nich. Eijentlich wird jarnich jeprüft.

    Die LABO-Aufgabe: Zuverlässigkeit der Betriebe sicherstellen. Da jehört dit allet szu. LABO hat schon wieda szein Job nich jemacht. Schon wieda durchjefalln.

    Und wat wird nu jemacht? Datenabgleich. Machen de Plattformen. Unklare Fälle? Klärn die Plattformen. Böcke zu Järtnern.

    Dis Zeugs muss komplett vonne Straße. Ausbeuta. Alle bescheißen. Ausnahmen? Keene. Dit kommt raus, wennste echt prüfst.

    Nu machma endlich. Ick vahunga hier anne Halte

    19.4.2024 Pressemitteilung der Senatsverwaltung für Mobilität, Verkehr, Klimaschutz und Umwelt (SenMVKU)

    LABO beanstandet ein Viertel der bei Vermittlungsdiensten registrierten Fahrzeuge

    Das Landesamt für Bürger- und Ordnungsangelegenheiten (LABO) hat erfolgreich einen weiteren entscheidenden Schritt im Rahmen seiner Maßnahmen zur Bekämpfung illegaler Strukturen im Mietwagengewerbe vollzogen. Alle bei den Vermittlungsplattformen Bliq, Bolt, FREENOW und Uber am 01.04.2024 registrierten Mietwagen-Unternehmen und Fahrzeuge wurden einer umfassenden Überprüfung unterzogen, um die Einhaltung der Genehmigungspflicht nach dem Personenbeförderungsgesetz (PBefG) sicherzustellen. Insgesamt wurden 8940 Datensätze (Fahrzeuge) überprüft. Diese Anzahl stellt die Gesamtzahl der bei den Plattformen registrierten Fahrzeuge dar, wobei auf die drei größten Anbieter im Schnitt je 2900 Fahrzeuge entfallen. Viele Unternehmen melden ihre Fahrzeuge bei mehreren Plattformen zur Vermittlung an.

    Von den überprüften Fahrzeug-Datensätzen wurden 24,12 %, also rund ein Viertel, beanstandet.

    Gründe für die Beanstandung waren:

    Für die Fahrzeuge war keine Genehmigung erteilt, oder diese war bereits abgelaufen oder durch das LABO aufgrund von Verstößen gegen das PBefG widerrufen.
    Es wurden Fahrzeuge festgestellt, die von einer bestehenden Genehmigung nicht abgedeckt waren.
    Der von den Unternehmen bei den Vermittlern angegebene Betriebssitz entsprach nicht der Genehmigung.

    182 Fahrzeug-Datensätze (2,04 %) konnten nicht abschließend geprüft werden, da sie unplausibel waren. Hier erfolgt zeitnah eine Klärung mit und durch die Vermittler.

    Die beanstandeten Fahrzeuge und Unternehmen werden unverzüglich, spätestens jedoch bis zum 25.04., von den Vermittlungsdiensten für weitere Vermittlungen gesperrt. Mit dieser umfassenden Bereinigung der Datenbestände ist der Prozess der Bestandsüberprüfung erfolgreich abgeschlossen.

    Da die Vermittler auch weiterhin verpflichtet sind, neue Unternehmen und Fahrzeuge vorab durch das LABO überprüfen zu lassen, wird sichergestellt, dass Fahrtaufträge nur an genehmigte Fahrzeuge vermittelt werden. Das LABO wird dies in Zusammenarbeit mit der Polizei weiterhin im Rahmen von Verkehrskontrollen überprüfen.

    Das LABO wird die erhobenen Daten weiter auswerten und konsolidieren. Dabei werden die Daten der Vermittler auch soweit zusammengeführt, dass festgestellt werden kann, wie viele Fahrzeuge unter Berücksichtigung der Mehrfacherfassung bei den verschiedenen Vermittlern von den Beanstandungen betroffen waren. Gleichzeitig wird damit erkennbar sein, wie viele der derzeit 4388 genehmigten Mietwagen ihre Dienste über mindestens eine der Vermittlungsplattformen anbieten. Diese Aufbereitung wird voraussichtlich zwei Wochen in Anspruch nehmen.

    Auf Basis der konsolidierten Daten wird das LABO weitere Maßnahmen gegen die beanstandeten Unternehmen ergreifen, darunter Bußgeldverfahren und Verfahren zum Widerruf nicht ordnungsgemäß genutzter Genehmigungen. Darüber hinaus können die gewonnenen Erkenntnisse Anlass für weitergehende Überprüfungen sein, an denen auch andere Behörden beteiligt sind. Für einen verstärkten Informationsaustausch zwischen den Behörden sowie die Vorbereitung und Durchführung gemeinsamer Maßnahmen wurde unter Federführung der Senatsverwaltung für Mobilität, Verkehr, Klimaschutz und Umwelt (SenMVKU) eine übergreifende Arbeitsgruppe ins Leben gerufen.

    #Berlin #Kreuzberg #Puttkamerstraße #SenMVKU #LABO #Uber #Plattformkapitalismus

  • Vers une révolution européenne : Inspirations zapatistes pour le changement social et politique
    https://bascules.blog/2024/04/19/vers-une-revolution-europeenne-inspirations-zapatistes-pour-le-changement

    « La rébellion zapatiste – Insurrection indienne et résistance planétaire » de #Jérôme_Baschet, édité par Flammarion en 2019, présente une analyse approfondie de l’expérience zapatiste au Chiapas, au Mexique, et explore son impact sur les mouvements de résistance à l’échelle mondiale. Baschet, historien et chercheur de renom, offre une perspective unique sur #La_rébellion_zapatiste en […]

    #Alternatives,_imaginaires,_mondes_émergents,_possibles_désirables...


    https://2.gravatar.com/avatar/2cef04a2923b4b5ffd87d36fa9b79bc27ee5b22c4478d785c3a3b7ef8ab60424?s=96&d=

  • Giorgia Meloni de retour à Tunis pour consolider son projet de coopération migratoire
    https://www.lemonde.fr/afrique/article/2024/04/18/giorgia-meloni-de-retour-a-tunis-pour-consolider-son-projet-de-cooperation-m

    Giorgia Meloni de retour à Tunis pour consolider son projet de coopération migratoire
    Cette quatrième visite de la présidente du conseil italien en moins d’un an consacre le président Kaïs Saïed comme son premier partenaire africain dans lutte contre les arrivées irrégulières dans la péninsule.
    Par Nissim Gasteli (Tunis) et Allan Kaval (Rome, correspondant)
    La Tunisie continue d’occuper une place à part dans la politique étrangère de Giorgia Meloni. Pour la quatrième fois en moins d’un an, la présidente du conseil italien s’est rendue à Tunis, mercredi 17 avril, pour rencontrer son homologue, le président Kaïs Saïed.
    Accompagnée d’une large délégation ministérielle, Mme Meloni n’est restée que quelques heures dans la capitale tunisienne, avant de s’envoler pour la réunion du Conseil européen à Bruxelles. Elle en a profité pour annoncer plusieurs protocoles de coopération : un soutien direct d’une valeur de 50 millions d’euros au budget de l’Etat tunisien en faveur de « l’efficacité énergétique et des énergies renouvelables », une ligne de crédit de 55 millions d’euros pour soutenir les petites et moyennes entreprises tunisiennes et un accord-cadre permettant de poser les bases d’une collaboration dans le domaine universitaire.
    Lors de sa « déclaration à la presse » – à laquelle les journalistes n’étaient pas conviés –, Giorgia Meloni a mis en avant, à travers ces accords, une approche « complètement nouvelle », « égalitaire », basée sur « l’intérêt mutuel » des nations, qui s’inscrit dans son ambitieuse politique africaine, placée au cœur de sa diplomatie et désormais inséparable d’une stratégie migratoire centrée sur l’objectif de mettre un terme aux arrivées irrégulières sur le territoire italien. « Nous ne pouvons plus traiter la question migratoire de manière isolée avec nos partenaires africains, explique une source diplomatique italienne haut placée. Elle doit être incluse dans une approche globale et prendre pour base les exigences des pays de départs et de transit. »
    La vision de Giorgia Meloni, qui relève d’abord d’un récit et d’un discours mais qui se construit progressivement de visites officielles en accords divers, intègre son concept de « plan Mattei pour l’Afrique ». Lancé lors du sommet Italie-Afrique, les 28 et 29 janvier, celui-ci doit impliquer tout son gouvernement ainsi que les différents acteurs de l’économie italienne. « Cette nouvelle visite de Giorgia Meloni en Tunisie a pour objet de montrer que ce plan commence à avoir des applications concrètes et à projeter l’image d’une diplomatie en action en direction ses partenaires internationaux comme à son électorat », explique Maria Fantappie, directrice du département Méditerranée, Moyen-Orient et Afrique à l’Istituto Affari Internazionali, un influent centre de réflexion romain, précisant que « la Tunisie est le pays où la politique africaine du gouvernement italien a été testée pour la première fois grâce à la relation personnelle entre la présidente du conseil et Kaïs Saïed. »
    Le président tunisien, qui a multiplié au cours des derniers jours les mises en garde, répétant que son pays ne traiterait avec les autres nations que « sur un pied d’égalité » semble apprécier la rhétorique de Giorgia Meloni, seule dirigeante européenne avec laquelle il entretient un dialogue aussi régulier, qui évite soigneusement d’aborder sa dérive autoritaire. Au cours de la visite, M. Saïed a salué cette collaboration et exprimé son souhait de « renforcer et diversifier les liens de coopération et de partenariat entre les deux pays amis ».
    Une volonté partagée par Rome pour qui la Tunisie représente de nombreux intérêts. Dans le domaine énergétique, dans lequel l’Italie ambitionne de devenir un « hub » entre les deux rives de la Méditerranée, les réseaux électriques des deux pays devraient, d’ici à 2025, être interconnectés par le câble sous-marin El Med ouvrant la voie à l’exploitation du vaste potentiel du sud tunisien dans la production d’énergies solaires et éoliennes. Le territoire tunisien sert aussi de plateforme de transit du gaz algérien vers la péninsule italienne. La Tunisie est enfin un important débouché pour près de 900 entreprises de la péninsule, présentes sur son territoire.
    Sur le plan migratoire, alors que le printemps apporte des conditions climatiques favorables aux traversées de la Méditerranée et que les élections européennes de juin approchent, Giorgia Meloni mise en effet sur la coopération de la Tunisie pour éviter que la campagne ne soit affectée par des pics d’arrivées dont les effets seraient politiquement désastreux. Les images de septembre 2023 montrant un afflux exceptionnel de plus de 10 000 migrants partis des rivages de la Tunisie pour débarquer sur l’île de Lampedusa avaient produit un vent de panique parmi les gouvernements européens et remis en cause la pertinence des premiers efforts de la présidente du conseil italien sur le front tunisien.Depuis cet épisode, les autorités tunisiennes ont soigneusement réaffirmé leur contrôle sur la frontière maritime tout en renforçant, sur terre, la répression des exilés, multipliant les campagnes d’expulsion vers les frontières de l’Algérie et de la Libye. Si celles-ci s’étaient faites au prix de nombreuses violations de droits humains, Giorgia Meloni n’a pas manqué lors de son discours de « remercier encore une fois les autorités tunisiennes » pour le travail effectué et de se féliciter des résultats de l’accord de « partenariat stratégique complet » signé, sous ses auspices, par l’Union européenne et la Tunisie, le 16 juillet 2023.
    Au-delà de cette satisfaction affichée, sa visite intervient dans un contexte d’augmentation des arrivées de migrants sur le rivage italien en provenance des côtes tunisiennes, au cours des dernières semaines. Si cette tendance reste à relativiser car elles ont diminué de moitié au cours des quatre premiers mois de l’année 2024 par rapport à la précédente, elle montre toutefois la volatilité du contrôle migratoire tunisien. Le président Kaïs Saïed a ainsi rappelé, une fois de plus, son refus catégorique que son pays soit « une destination ou un point de passage pour les migrants irréguliers ». A El Amra, région côtière du centre-est de la Tunisie, située à plus d’une centaine de kilomètres de Lampedusa, ils sont pourtant des milliers à attendre, dans des conditions extrêmement précaires, de pouvoir traverser la Méditerranée. Le contrôle migratoire délégué à la Tunisie par le mémorandum de juillet 2023, présenté par Giorgia Meloni lors de sa signature comme « un modèle pour l’établissement de nouvelles relations avec l’Afrique du Nord » et depuis dupliqué avec l’Egypte et prochainement la Mauritanie, paraît aujourd’hui fragile

    #covid-19#migrant#migration#italie#tunisie#lampedusa#afriquedunord#mediterranee#traversee#migrationirreguliere#approcheglobale#partenariat#sante

  • #Nestlé adds sugar to infant milk sold in poorer countries, report finds | Global development | The Guardian
    https://www.theguardian.com/global-development/2024/apr/17/nestle-adds-sugar-to-infant-milk-sold-in-poorer-countries-report-finds

    Campaigners from Public Eye, a Swiss investigative organisation, sent samples of the Swiss multinational’s baby-food products sold in Asia, Africa and Latin America to a Belgian laboratory for testing.

    The results, and examination of product packaging, revealed added sugar in the form of sucrose or honey in samples of #Nido, a follow-up milk formula brand intended for use for infants aged one and above, and #Cerelac, a cereal aimed at children aged between six months and two years.

    In Nestlé’s main European markets, including the UK, there is no added sugar in formulas for young children. While some cereals aimed at older toddlers contain added sugar, there is none in products targeted at babies between six months and one year.

    #criminels #sucre #laits #bébés

  • Radio Canada Des tests de paternité vendus au Canada qui identifiaient le mauvais père D’après des renseignements fournis par Jorge Barrera, de CBC News

    « [Nos tests de paternité prénataux] n’étaient pas si fiables », admet à la caméra cachée le propriétaire de la compagnie Viaguard Accu-Metrics, de Toronto, qui a vendu de tels tests d’ADN en ligne pour 800 $ à 1000 $ de 2014 à 2020, selon une enquête de CBC.

    Harvey Tenenbaum, qui dirige toujours le laboratoire de Toronto à l’âge de 91 ans, a confié à la caméra cachée d’un journaliste de CBC qui se faisait passer pour un client, qu’il se « méfie de ce test maintenant ».

    Grâce à un kit maison visant à prélever quelques gouttes de sang de la femme enceinte et un échantillon buccal d’ADN de l’homme, le test devait permettre de confirmer l’identité du père avant la naissance de l’enfant.


    À la caméra cachée, M. Tenenbaum admet toutefois que le test a produit des résultats erronés au fil des années.

    C’est arrivé. Un père blanc se fait tester et le bébé est noir.
    Une citation de Harvey Tenenbaum, propriétaire du laboratoire

    À la caméra cachée, M. Tenenbaum se dit conscient des conséquences possibles d’une erreur : “Si on identifie le mauvais père, la mère peut avoir un avortement.”

    Questionné par CBC, il assure publiquement que les tests étaient, au contraire, « précis » et « parfaits ». Il a cessé de les vendre, ajoute-t-il, parce que l’un des éléments était devenu trop coûteux.

    La vie chamboulée d’une mère
    “Je hais le nom Viaguard”, lance Corale Mayer, 22 ans, de North Bay, en Ontario.

    Lorsqu’elle est tombée enceinte en 2019, à l’âge de 19 ans, elle n’était pas sûre de qui était le père et a commandé un test de Viaguard, renvoyant ensuite les échantillons demandés par la poste.

    Un premier test erroné de la compagnie, raconte-t-elle, lui a fait croire que le père n’était pas l’homme avec qui elle était. Un deuxième test, lui aussi erroné a-t-elle appris après la naissance de sa fille, indiquait que le père était plutôt un autre homme, qui ne voulait rien savoir d’avoir un enfant.

    Ça a été extrêmement traumatisant.
    Une citation de Corale Mayer, mère

    Elle a lancé un groupe dans les médias sociaux qui compte des dizaines d’autres personnes qui soutiennent que leur vie a aussi été chamboulée par des tests de paternité erronés de Viaguard.

    La faute du test ?
    Sika Richot a travaillé comme réceptionniste pour Viaguard durant près de trois mois en 2019.

    Elle soutient que le laboratoire lui demandait de questionner les femmes qui commandaient un test de paternité sur leur cycle menstruel et sur les dates auxquelles elles avaient eu des relations sexuelles avec les différents pères possibles, des questions qui n’ont rien à voir avec un test d’ADN.

    Le personnel compilait ensuite ces renseignements dans un cycle d’ovulation pour réduire le nombre de pères potentiels, affirme Mme Richot. “[Tenenbaum] allait toujours dire : ’’Celui-ci est le père biologique, c’est certain’’”, soutient-elle.


    M. Tenenbaum laisse entendre, lui, que les clients sont responsables des résultats erronés, en raison d’une mauvaise collecte des échantillons. “On a fait des milliers de tests et la moitié des erreurs venaient de la collecte”, dit-il.

    Le Dr Mohammad Akbari, directeur de recherche au laboratoire de génétique moléculaire de l’Hôpital Women’s College, à Toronto, affirme que le genre de test que Viaguard disait utiliser est fiable normalement, mais qu’il faut plus que quelques gouttes de sang de la mère pour confirmer l’ADN du fœtus.

    Il faut au moins 10 ml de sang d’une veine de la mère pour un test adéquat.
    Une citation de Le Dr Mohammad Akbari, expert dans les tests d’ADN

    Dans certains cas, comme l’illustre une poursuite contre Viaguard en Californie, les clients devaient se rendre à un laboratoire pour le prélèvement de sang. Cette poursuite s’est conclue par un règlement à l’amiable.

    Santé Canada indique par courriel qu’elle ne réglemente pas les tests commerciaux d’ADN comme ceux de Viaguard.

    La compagnie n’offre plus de tests de paternité prénataux, mais continue à vendre des tests d’ADN postnataux, tout comme des tests pour déterminer la race des chiens, notamment.

    D’après des renseignements fournis par Jorge Barrera, de CBC News

    #ADN #Tests #identité #enfants #fœtus #laboratoires #maternité #paternité #femmes #hommes #famille #médecine #génétique

  • 05.02.2017, #Tal_Abdoul, VENTIMIGLIA : MIGRANTE TRAVOLTO E UCCISO DA UN TRENO NELL’ULTIMA GALLERIA PRIMA DELLA FRANCIA
    (pour archivage)

    Un migrante è stato travolto e ucciso da un treno regionale francese, che procedeva verso l’Italia, intorno alle 7, a Ventimiglia, all’interno della galleria «Dogana», di 407 metri di lunghezza, l’ultima prima del confine con la Francia. Sul posto sono presenti il personale sanitario del 118 con polizia, carabinieri e vigili del fuoco. La vittima si trovava assieme ad altri stranieri e, come solitamente accade in questi casi, sarebbe stato lo spostamento d’aria provocato dal treno in corsa, a rivelarsi fatale.

    Il traffico ferroviario è stato inizialmente interrotto in entrambi i sensi di marcia e sarà ripristinato a senso unico alternato, prima del definitivo ripristino della circolazione. Il bilancio degli ultimi due anni è di due morti e un ferito sulla linea ferroviaria Ventimiglia-Mentone (in territorio italiano).

    Episodi, comunque, tutti risalenti al periodo tra l’agosto del 2016 e il gennaio del 2017. Nel pomeriggio del 5 agosto scorso, in concomitanza con i disordini tra «no border» e forze dell’ordine, ai Balzi Rossi di Ventimiglia, veniva investito e gravemente ferito un giovane africano che assieme ad altri stranieri cercava di raggiungere la Francia.

    La sera del 23 dicembre scorso, un algerino di 25 anni veniva ucciso sullo stesso tratto di linea, compreso tra Ventimiglia e Mentone. Assieme ad altri stranieri era appena saltato sulla ferrovia, quando è passato il treno che lo ha centrato. A questi si aggiungono altri morti sulla strada. Sull’autostrada, in particolare. Africani travolti da auto piuttosto che furgoni o, in un caso, anche da uno scooter.

    https://primalariviera.it/cronaca/ventimiglia-migrante-travolto-e-ucciso-da-un-treno-nellultima-galleri
    #Vintimille #asile #migrations #réfugiés #morts #mourir_aux_frontières #frontière_sud-alpine #France #Italie #Alpes_Maritimes

    Nom présent sur cette liste :
    5 février 2017 : Tal Abdoul (1997,Guinée) est mort percuté par un train de la SNCF dans le tunnel des Douanes.
    https://www.roya-citoyenne.fr/2023/02/frontiere-de-tous-les-dangers-la-fermeture-des-frontieres-tue-les-dec

    –—

    ajouté au fil de discussion sur les morts à la frontière de Vintimille :
    https://seenthis.net/messages/784767

    lui-même ajouté à la métaliste sur les morts aux frontières alpines :
    https://seenthis.net/messages/758646

    • Muore travolto da un trenoi sogni infranti di un migrante

      La vittima non ancora identificata investita in galleria dopo Latte.

      Non si sa ancora chi fosse. Si sa soltanto che cercava disperatamente di oltrepassare il confine con la Francia, verso una nuova vita, ma che a pochi metri dalla meta ha trovato la morte, nella galleria ferroviaria «Dogana», l’ultima dopo #Latte di Ventimiglia, prima della frontiera. E’ stato investito da un treno in corsa ed è deceduto sul colpo. Il migrante, secondo i primi accertamenti, proverrebbe dall’Africa Centrale e avrebbe tra i 25 e i 30 anni. Viaggiava solo, a piedi, lungo i binari. Addosso pochi effetti personali e nessun documento: per questo gli agenti della scientifica del commissariato di Ventimiglia stanno faticando a identificarlo. Il suo corpo è stato composto all’obitorio di Sanremo e in queste ore saranno prelevate le impronte digitali, per tentare di scoprirne l’identità e di ricostruire il suo viaggio (non è escluso che sia stato fotosegnalato durante altri controlli).

      L’allarme è stato lanciato dal macchinista del treno francese che ha investito lo straniero. Il convoglio era partito da Cannes alle 5,18 e sarebbe dovuto arrivare a Ventimiglia alle 6,53. Già in territorio italiano, a una manciata di minuti dall’arrivo in stazione, l’incidente. In galleria, in un tratto buio, dove sarebbe stato praticamente impossibile evitare l’impatto. Il macchinista, che ha riferito alla polizia di aver soltanto avvertito l’impatto improvvisamente, ha fermato il treno e chiamato i soccorsi. Sono intervenuti gli agenti della polizia Ferroviaria di Ventimiglia, agli ordini del dirigente Sergio Moroni. Il traffico ferroviario è stato interrotto ed è ripreso soltanto verso le 11,30.

      «Sono tragedie ormai annunciate - commenta Maurizio Marmo, direttore della Caritas diocesana che da anni è in prima linea per gli aiuti ai profughi - Sono già capitate e non è cambiato nulla. Il blocco francese alla frontiera rende il viaggio più pericoloso (per chi vuole evitare i controlli), o più costoso (per chi sceglie di affidarsi ad un passeur)». Marmo sottolinea anche che è necessario comunque predisporre luoghi di accoglienza adeguati, «soprattutto per le donne e i minori. Le istituzioni devono dare una risposta umana a chi è in viaggio». Senza contare che dalla scorsa settimana sono stati anche sospesi gli arrivi al centro migranti del Parco Roja, per svolgere alcuni lavori di manutenzione ai moduli abitativi che ospitano i bagni e le docce. «L’unica cosa da fare è proseguire con gli accordi e arrivare a diminuire gli arrivi. Altrimenti continueremo a fare i conti con tragedie come questa - spiega il sindaco di Ventimiglia Enrico Ioculano - Distribuire i profughi è l’unica strada per aiutare loro ed evitare disagi per i cittadini».

      https://www.lastampa.it/imperia-sanremo/2017/02/06/news/muore-travolto-da-un-trenoi-sogni-infranti-di-un-migrante-1.34649005

  • Germany prepares to widen fixed border checks

    (automne 2023 —> pour archivage)

    Germany is expected to notify the EU about plans to introduce fixed border checks on the Polish, Czech Republic and Swiss borders. Previously, this had only been possible at the Austrian frontier.

    The German Interior Ministry is expected to register fixed border controls with Poland, the Czech Republic and Switzerland with the European Commission in light of a high number of refugees entering Germany.

    The intention of the checks is to more effectively fight against people smugglers and to detect and stop unauthorized entries.
    What we know so far

    According to government sources, the necessary notification in Brussels was being prepared on Monday.

    The plan is an extension of police checks directly at the border in place at the border with Austria since 2015.

    German Interior Minister Nancy Faeser had long rejected permanent fixed contro points, citing, among other things, the effects on commuters and freight transport. The norm in the EU’s Schengen Zone is for open borders but with police reserving the right to check anybody crossing at random, but not at set checkpoints.

    Interior ministers of the eastern German states of Brandenburg and Saxony have pressed Faeser to implement fixed checks.

    Germany had introduced additional controls at border crossings with Poland and the Czech Republic in September, but these were not intended to be permanent.

    German municipalities have urged the federal government to provide more funding to cope with the surge in migrant arrivals. They have pointed to stretched accommodation and services that seem similar to the events of 2015, when Germany took in over 1 million refugees mainly fleeing war in the Middle East.

    Opposition parties in Germany have also called on the government to limit the number of asylum-seekers, with Bavaria’s conservative Premier Markus Söder suggesting an annual upper limit on asylum seekers of 200,000.

    https://www.dw.com/en/germany-prepares-to-widen-fixed-border-checks/a-67109731

    #Allemagne #Pologne #Suisse #République_Tchèque

    #Allemagne #Suisse #contrôles_systématiques_aux_frontières #France #frontières_intérieures #frontières #asile #migrations #réfugiés #frontière_sud-alpine #prolongation #2023 #2024 #contrôles_frontaliers #frontière_sud-alpine

    –—

    ajouté à cette métaliste sur l’annonce du rétablissement des contrôles frontaliers de la part de plusieurs pays européens :
    https://seenthis.net/messages/1021987

    • 15.12.2023 : L’Allemagne prolonge de trois mois les contrôles aux frontières suisses

      L’Allemagne estime que la protection des frontières extérieures de l’UE est déterminante pour limiter l’immigration irrégulière. Elle prolonge donc les contrôles à la frontière avec la Suisse jusqu’au 15 mars 2024 au moins. Les frontières allemandes avec la Pologne et la République tchèque sont également concernées.

      Afin de lutter encore plus fortement contre la criminalité liée au trafic de migrants et de limiter la migration irrégulière, les contrôles seront poursuivis et ont été notifiés à la Commission européenne, a annoncé vendredi le ministère allemand de l’Intérieur.

      Berlin avait introduit en octobre des contrôles aux frontières avec la Pologne, la République tchèque et la Suisse, en raison de la nette augmentation du nombre de réfugiés en Allemagne. Cette mesure a été prolongée à plusieurs reprises.

      Mesures efficaces

      Le nombre d’entrées non autorisées en Allemagne a diminué de 60%, passant de plus de 20’000 en octobre à 7300 entrées non autorisées en novembre. « Nos mesures sont efficaces », a déclaré la ministre de l’Intérieur Nancy Faeser.

      Les contrôles aux frontières intérieures entre l’Allemagne et l’Autriche, qui avaient déjà commencé à l’automne 2015, durent actuellement jusqu’au 11 mai 2024.

      Les contrôles aux frontières ne sont en fait pas prévus au sein de l’espace Schengen et doivent être notifiés à Bruxelles. S’il ne s’agit que de quelques jours, il est possible de le faire à court terme, mais cette possibilité prend fin après deux mois, soit vendredi 15 décembre dans le cas de l’Allemagne.

      https://www.rts.ch/info/monde/14556738-lallemagne-prolonge-de-trois-mois-les-controles-aux-frontieres-suisses.

    • 17.10.2024 : Face à l’immigration illégale, l’Allemagne réinstaure des contrôles à la frontière suisse

      Le ministère allemand de l’Intérieur a notifié lundi auprès de la Commission européenne « des contrôles temporaires aux frontières avec la Pologne, la République tchèque et la Suisse »

      Le gouvernement allemand a annoncé le renforcement de sa surveillance aux frontières au sud et à l’est. Depuis lundi, des contrôles stationnaires aux passages douaniers avec la Pologne, la République tchèque et la Suisse ont été instaurés, indique le ministère allemand de l’Intérieur. Cette mesure exceptionnelle, qui nécessite l’aval de Bruxelles, est destinée à durer 10 jours, et peut être prolongée pour deux mois, précise le ministère.

      Des contrôles de ce type ont été mis en place à la frontière autrichienne depuis 2015, au moment de l’afflux sans précédent d’immigrants vers l’Allemagne, une décision dont la prolongation de six mois à compter du 12 novembre a également été annoncée ce lundi. « La police fédérale peut utiliser les mêmes moyens aux frontières avec la Pologne, la République tchèque et la Suisse que ceux déjà en place avec l’Autriche », précise le ministère. Les voyageurs transfrontaliers ne devraient cependant pas être confrontés à des contrôles systématiques : « un paquet de contrôles fixes et mobiles » sera mis en œuvre « de façon flexible et selon la situation », a déclaré la ministre allemande Nancy Faeser, citée dans le communiqué.

      Une importante hausse des arrivées en Allemagne

      L’Allemagne est confrontée à une forte hausse de l’immigration illégale. De janvier à début octobre, la police a comptabilisé environ 98 000 arrivées illégales dans le pays, dépassant déjà le nombre total des arrivées pour l’année 2022 qui était d’environ 92 000. Pour justifier les mesures décidées, l’Allemagne s’appuie sur un article de la réglementation de Schengen qui permet d’introduire pour une période limitée des contrôles intérieurs aux frontières en cas « de menace sérieuse à l’ordre public ou à la sécurité intérieure ».

      Nancy Faeser s’était pourtant jusqu’ici montrée réticente à l’idée d’instaurer des contrôles fixes, en raison notamment de leur impact sur les travailleurs frontaliers ainsi que sur les échanges commerciaux avec les pays voisins : ces mesures ralentissent en effet considérablement le trafic et créent des embouteillages. Mais la hausse des arrivées illégales provoque un vif débat en Allemagne, dont les capacités d’accueil s’épuisent. Les communes et les régions, qui ont aussi absorbé l’arrivée d’un million de réfugiés ukrainiens depuis février 2022, se disent à la limite de leur capacité d’accueil, alors que la situation profite à l’extrême-droite, qui a obtenu des résultats records dans deux scrutins régionaux il y a une semaine.

      « Le nombre de personnes qui viennent actuellement chez nous est trop élevé », avait récemment martelé le chancelier Olaf Scholz, en présentant des mesures pour accélérer les expulsions de personnes déboutées de l’asile. La décision était donc attendue, et « la ministre de l’Intérieur […] a apparemment attendu les élections législatives polonaises avant de rendre publique sa décision », note le Tages-Anzeiger.
      Poursuite de la collaboration avec les douaniers suisses

      Nancy Fraeser « a assuré à [Elisabeth] Baume-Schneider que le trafic frontalier serait entravé aussi peu que possible », indique le Département fédéral de justice et police (DFJP) à Keystone-ATS. La conseillère fédérale et la ministre allemande ont par ailleurs convenu lundi de renforcer la « collaboration fructueuse » entre les deux pays dans le cadre du plan d’action mis en place en 2022 qui prévoit des patrouilles en commun et un meilleur échange d’informations pour enrayer les migrations secondaires, ajoute le DFJP. Au parlement, l’annonce allemande semble être accueillie avec compréhension : « ce n’est pas un secret que de nombreux migrants utilisent la Suisse comme pays de transit, tous ceux qui prennent le train de Milan à Zurich le voient », a réagi dans la Neue Zürcher Zeitung le président de la Commission de politique extérieure du Conseil national, Hans-Peter Portmann (PLR/ZH).

      Un porte-parole du gouvernement allemand a par ailleurs confirmé au quotidien zurichois que les contrôles avaient commencé à être mis en place ce lundi, et qu’ils « seront renforcés dans les jours à venir en fonction de l’évaluation de la situation par la police fédérale » allemande. « Les contrôles fixes aux frontières présentent l’avantage […] que les personnes peuvent être refoulées par la police fédérale dès qu’elles tentent de franchir la frontière », poursuit la NZZ. « Elles sont alors considérées comme n’étant pas entrées sur le territoire » et nécessitent un investissement bureaucratique « incomparablement plus faible » que dans le cas d’un processus d’expulsion du territoire, argumente le journal.

      « Les spécialistes, les politiciens et les policiers sont loin d’être d’accord » sur l’efficacité des contrôles, tempère le Tages-Anzeiger qui rappelle qu’il y a quelques semaines encore, Nancy Faeser qualifiait les contrôles fixes de « fausses solutions ». Reste, conclut le Tagi, qu’il est « pour l’instant impossible d’estimer » les effets concrets des nouvelles mesures à la frontière suisse, notamment sur le trafic important des pendulaires avec le Bade-Wurtemberg.

      https://www.letemps.ch/suisse/face-a-l-immigration-illegale-l-allemagne-reinstaure-des-controles-a-la-fron

    • La Suisse accusée de « #laisser_passer » les migrants

      Le président du Conseil national Martin Candinas est en visite à Berlin ce vendredi, dans un climat tendu : l’Allemagne reproche à la Suisse de faciliter le transit des demandeurs d’asile.

      Le nombre des réfugiés arrivant en Europe atteint un nouveau record… et l’Allemagne est une fois de plus en première ligne. Elle accuse ses voisins de « laisser passer » des demandeurs d’asile de Syrie, d’Afghanistan, du Pakistan ou d’Irak, voire de leur faciliter le transit comme en Suisse. La télévision suisse alémanique avait révélé fin 2022 comment la compagnie ferroviaire CFF avait mis en place des « wagons réservés aux étrangers » avec des portes fermées à clé pour conduire les réfugiés jusqu’à Bâle.

      « Ça ne peut plus continuer ! […] Il nous faut une protection plus efficace à la frontière entre l’Allemagne et la Suisse. » (Thomas Strobel, ministre de l’Intérieur du Bade-Wurtemberg)

      La situation est particulièrement dramatique à la frontière avec la Pologne avec 14’303 illégaux arrêtés dans les sept premiers mois de l’année (+143% par rapport à 2022). En provenance de Suisse, la progression est encore plus importante : +200%, soit plus de 6000 illégaux arrêtées à la frontière avec le #Bade-Wurtemberg. « Les passages entre la Suisse et l’Allemagne n’ont jamais été aussi élevés depuis 2016 », s’est plaint le Ministère de la justice de la région frontalière dans un communiqué officiel.

      « Nos villes et nos communes ont atteint leurs capacités d’accueil. Ça ne peut plus continuer ! […] Il nous faut une protection plus efficace à la frontière entre l’Allemagne et la Suisse », a insisté avant l’été Thomas Strobel, le ministre conservateur (CDU) de l’Intérieur du Bade-Wurtemberg. Pour le chef du groupe parlementaire des libéraux (FDP), Hans-Ulrich Rülke, il n’est « pas normal qu’un État non-membre de l’UE comme la Suisse introduise des réfugiés en Allemagne par le Bade- Wurtemberg ».

      Menace de l’opposition

      Lors du débat de politique générale à l’assemblée fédérale (Bundestag), mercredi 6 septembre, Friedrich Merz, le leader de l’opposition conservatrice (CDU), a attaqué lui aussi la Suisse en l’accusant de ne pas respecter le « règlement de Dublin » qui l’oblige à traiter les demandes d’asile chez elle ou à renvoyer des réfugiés dans le premier pays d’enregistrement (la plupart des demandes sont faites en Autriche).

      « Vu le nombre de passages illégaux, nous sommes prêts à rétablir des contrôles aux frontières. » (Friedrich Merz, leader de l’opposition conservatrice (CDU))

      « Notre volonté n’est pas de réinstaller des barrières douanières aux frontières polonaises, tchèques et suisses. Mais vu le nombre de passages illégaux, nous sommes prêts à rétablir des contrôles », at- il menacé dans l’hémicycle sous les huées de la gauche gouvernementale.

      Une déclaration qui met le président du Conseil national dans l’embarras. Martin Candinas rencontre ce vendredi à 9 heures la vice-présidente du Bundestag, Yvonne Magwas (CDU), pour un entretien bilatéral. « La Suisse respecte le règlement de Dublin », nous a-t-il assuré jeudi, ne voulant pas davantage commenter cette crise. Il ne compte pas aborder le sujet avec les officiels allemands, sauf si ces derniers souhaitent lui en parler. Du côté allemand, on reste également discret sur la teneur de l’entretien.

      Le président du Conseil national Martin Candinas, qui doit rencontrer vendredi la vice-présidente du Bundestag, assure que « la Suisse respecte le règlement de Dublin ».

      La tension est sensible aux frontières polonaises et tchèques. La Saxe a décidé d’envoyer sa propre police pour épauler les agents fédéraux chargés de contrôler seulement les passages frontaliers officiels. Le ministre de l’Intérieur de Saxe, Armin Schuster, a estimé qu’il n’avait pas d’autre choix que d’employer cette méthode. Dès la première semaine, ses agents ont arrêté 307 clandestins et 7 passeurs sur un total de 514 personnes contrôlées… « Vous le voyez, le principe des accords de Dublin ne fonctionne pas », regrette-t-il. Friedrich Merz abonde : « Cela me fait mal au coeur de voir que nous ne sommes même pas en mesure de protéger nos propres frontières, d’autant plus que celles de l’Europe ne sont toujours pas sécurisées. »

      Épargner les frontaliers

      Mais la ministre fédérale de l’Intérieur, la social-démocrate Nacy Faeser, refuse catégoriquement la mise en place de contrôles permanents, surtout vers la Suisse. Les experts les considèrent comme inefficaces. La Bavière a mis en place 5 points de contrôle à la frontière autrichienne en 2015. « Ces contrôles n’ont aucun sens », estime Andreas Roßkopf du syndicat de la police (GdP).

      « Ils bouleversent surtout le quotidien des frontaliers. Le personnel soignant, les artisans et de nombreux pendulaires des deux pays sont concernés. Ils affectent durablement notre économie », ajoute la ministre. Elle a en revanche ordonné le renforcement des contrôles aléatoires aux frontières.

      https://www.tdg.ch/tensions-avec-lallemagne-la-suisse-accusee-de-laisser-passer-les-migrants-428988

    • A #Buchs, « porte d’entrée orientale du pays », la banalité de l’immigration

      Sorti ce lundi, le baromètre des préoccupations Ipsos réalisé par « Le Temps » place l’immigration en quatrième position. A Buchs, où plus de 26 000 personnes « illégales » ont été contrôlées l’an dernier, le phénomène fait désormais partie du paysage.

      La scène est devenue parfaitement ordinaire : il est un peu moins de 10h à la #gare de Buchs (SG) ce mardi 23 août et une cinquantaine d’hommes en training sont alignés contre un mur par les gardes-frontières suisses. Les voyageurs – des Afghans fuyant les talibans, des Nord-Africains en quête d’une vie meilleure et d’autres compagnons d’infortune internationaux – affluent tous du même endroit : #Vienne, d’où les trains de nuit rallient régulièrement Zurich (notre reportage sur la question : https://www.letemps.ch/suisse/rails-entre-vienne-zurich-migrants-route-balkans).

      L’année dernière, pas moins de 26 000 « entrées illégales » ont été enregistrées par l’Office fédéral de la douane à la frontière orientale suisse. Ce qui représente deux fois la population de Buchs, 13 000 habitants. Dans la petite localité saint-galloise, cet afflux ininterrompu laisse cependant froid. Les nouveaux arrivants ne sont pas là pour rester, alors à quoi bon s’en soucier ? Et qu’importent les Accords de Schengen-Dublin.

      « Les journaux n’en parlent plus »

      L’immigration. Politiquement, la thématique est omniprésente. Toutefois, rares sont les lieux en Suisse où le phénomène est aussi visible qu’à Buchs. « Porte d’entrée orientale » du pays comme il est souvent qualifié, le gros bourg est connu pour son joli château surplombant un petit lac, sa vieille ville bucolique. Mais surtout pour sa gare où, ce mardi, à quelques centaines de mètres d’écart, deux réalités s’affrontent. Sur le quai 5, des migrants dépenaillés cheminent en file indienne, entourés par des douaniers et des policiers… alors qu’à deux pas du quai 1, des ouvriers s’affairent pour préparer la 39e édition de la Buchserfest. Agendée trois jours plus tard, la manifestation annonce « concerts, spectacles de danse et restauration variée pour petits et grands ». Et c’est surtout cette perspective qui anime les bistrots de la rue centrale.

      « C’est une gare de transit, dit avec fatalité Barbara Gähwiler-Bader, présidente du PS de la commune, attablée au Café Wanger. Pour être franche, à moins de prendre le train, rien ne laisse penser que des milliers de personnes mettent un premier pied en Suisse ici chaque année. La politique locale ne s’intéresse pas au sujet, les journaux du coin n’en parlent plus, ni vraiment les habitants. C’est parfois à se demander si le phénomène est encore là. Ici tout va bien, et tant que c’est le cas, rien ne bouge. Réfléchir à la situation de ces gens, c’est réfléchir à ses propres privilèges. Et tout le monde n’a pas envie de faire l’effort. » Dans la station frontière, seul un panneau en persan indiquant les toilettes signale la spécificité des lieux. Le centre d’asile le plus proche est à plus de 30 kilomètres.

      « Rien n’est vraiment entrepris dans la commune, admet la socialiste, mais que faire ? C’est une situation tragique mais ils ne font qu’entrer et sortir. Très peu souhaitent s’attarder en Suisse. Les autorités les chargent dans le train suivant et ils partent pour la France, l’Allemagne, le Royaume- Uni. Voilà. » Si les arrivants dénués de papiers sont censés être identifiés, enregistrés et contrôlés, la police saint-galloise reconnaît laisser passer nombre d’entre eux sans intervenir. La plupart des vagabonds (contrôlés ou non) poursuivent ensuite leur chemin – avec ou sans billet – vers Zurich, puis Bâle, avant de sortir des frontières de la Suisse. Et de la liste des problèmes du pays.

      « On se sent en danger à la gare »

      Une attitude laxiste, selon Sascha Schmid, représentant local de l’UDC, membre du législatif cantonal et candidat au Conseil national aux élections fédérales 2023. « Il y a des lois en Suisse et elles doivent être respectées, tonne le vingtenaire, banquier au Liechtenstein. Ces gens ne restent peut-être pas à Buchs mais qui sait s’ils sortent vraiment du pays ? Il n’y a aucune garantie. Et qui nous dit que l’Allemagne ou la France ne durciront pas un jour les contrôles à leurs frontières ? Nous nous retrouverions dans une situation intenable. » Le politicien dénonce particulièrement le laisser-faire autrichien… tout en reconnaissant que Berne agit grosso modo comme Vienne, une étape plus loin.

      « Le problème est global, poursuit-il. Mais il existe des solutions. L’UDC aimerait une mise en oeuvre stricte des Accords de Schengen-Dublin (le renvoi des étrangers dans leur premier pays d’enregistrement). Toutefois, comme ces accords sont cliniquement morts, j’estime qu’il faut faire preuve de courage et considérer d’autres options. De très nombreux Autrichiens viennent travailler chaque jour dans la région. Il doit être possible de mettre la pression sur leur gouvernement pour qu’il respecte les accords internationaux. Il n’est pas acceptable d’enrichir les frontaliers sans contrepartie. » Si la plupart des migrants ne s’attardent pas à Buchs, Sascha Schmid considère tout de même qu’ils font « grimper l’insécurité à la gare et que la criminalité augmente en ville, tout comme les cambriolages et les vols ».

      « Ici la vie continue »

      Un diagnostic que Rolf Pfeiffer, président indépendant de la ville de Buchs depuis mars, réfute en bloc. « Les arrivants ne sont mêlés à aucun souci local, dit-il. Tout est calme. Tout se passe bien.

      C’est un non-sujet. Buchs surgit régulièrement dans les médias parce que nous sommes situés à la frontière, mais la ville est concentrée sur d’autres problèmes. » Jouxtant le Liechtenstein – dont la place financière attire de nombreux habitants optant pour une résidence en Suisse voisine – mais également proche de Saint-Gall, Coire (GR), Zurich (ZH), Feldkirch (AU) et Bregenz (AU), la petite cité grandit vite et il s’agit d’adapter ses infrastructures, précise-t-il. Un défi bien plus pressant que ce qui se trame au bord des rails.

      « Si le besoin surgit, complète le Saint-Gallois, nous nous mettons à disposition des membres de la protection civile pour monter quelques tentes destinées à accueillir les migrants qui en ont besoin. Généralement pendant une nuit tout au plus. Les coûts engendrés nous sont ensuite remboursés par la Confédération. Comprenez-moi bien, d’un point de vue humanitaire, la condition des arrivants est certainement triste. Ils sont là, nous les voyons. Nous n’ignorons pas la chose. Mais ici la vie continue. Nous ne pouvons pas influencer la situation, qui doit être réglée entre Etats. » Le jour de notre visite, la Confédération annonçait justement une nouvelle contribution de 300 millions d’euros sur sept ans destinée à « l’amélioration de la protection des frontières extérieures de l’espace Schengen ». Une décision qui fait suite au plébiscite (71,6% de oui) des Suisses à une participation élargie de Berne aux activités de Frontex en 2022. Et aux difficultés de la Suisse à gérer cette problématique.

      Car même si beaucoup de migrants poursuivent leur chemin, pas moins de 14 000 demandes d’asile ont été enregistrées par le Secrétariat d’Etat aux migrations en juillet 2023 et, au vu des pronostics – le nombre total pourrait monter à plus de 30 000 d’ici à la fin de l’année –, les centres d’accueil fédéraux craignent d’atteindre leurs limites. Vendredi dernier, la conseillère fédérale Elisabeth Baume-Schneider annonçait avoir arraché 1800 places supplémentaires aux cantons sur un objectif de 3000 – sans pour autant rassurer sur le long terme. Au centre de l’Europe, la Suisse mise cependant sur une autre solution : déléguer. « Une protection efficace des frontières extérieures de l’espace Schengen contribue à la sécurité et à la gestion migratoire de la Suisse, affirmait mercredi dernier le Conseil fédéral. Mieux les contrôles aux frontières extérieures fonctionneront, moins il y aura besoin de contrôles aux frontières nationales suisses. » Et, à l’instar de Buchs, moins il faudra se préoccuper de la chose.

      https://www.letemps.ch/suisse/suisse-alemanique/a-buchs-la-banalite-de-la-migration

      #statistiques #chiffres #2023

  • Ostfrau erster Generation: Selbstbewusst zwischen Traumberuf, Kindern und Karrieremann
    https://www.berliner-zeitung.de/mensch-metropole/ostfrau-erster-generation-selbstbewusst-zwischen-traumberuf-kindern


    September 1984: Fidel Castro plaudert privat mit Konrad „Konni“ Naumann (l.). Fidel redet und redet. Irmingart Lemke (r.) dolmetscht und folgt dem Comandante bis in die Fingerbewegung.


    Irmingart Lemke als Sprachmittlerin zwischen Luis Corvalán (l.) und Erich Honecker

    14.4.2024 Maritta Adam-Tkalec - Wie die Dolmetscherin Irmingart Lemke den Dreikampf des Lebens bewältigte und wie sie Männer wie Fidel Castro und Erich Honecker erlebte.

    Ein Mädchen aus Bülzig macht 1955 Abitur in Wittenberg, und anstatt risikoarm und ortsverhaftet Lehrerin zu werden, erhält sie unerwartet die Chance, Spanisch und Englisch zu studieren statt Russisch. 20 Jahre später erklimmt sie die Höhen des Dolmetscherfachs. Sie übersetzt offizielle und – viel interessanter – informelle Treffen mit Fidel Castro und DDR-Spitzenpolitikern. Sie weiß von Erich Honecker und seiner Frau Margot, der DDR-Bildungsministerin, aus dem Nähkästchen zu plaudern.

    Viele Delegationen hat sie auf Reisen ins sozialistische Kuba, nach Spanien und Lateinamerika als Dolmetscherin begleitet – ein Traum für eine junge Frau aus der DDR. Aber sie war eben einfach gut in ihrem Fach.

    Irmingart Lemke, geboren 1937, hat neben dem anspruchsvollen Beruf eine Tochter und einen Sohn großgezogen und den Haushalt für einen ebenso viel beschäftigten wie viel abwesenden Mann bewältigt, einen passionierten Außenhändler, der in den letzten DDR-Jahren zum stellvertretenden Außenhandelsminister aufgestiegen war. Eine Ostfrau der ersten Generation. Wie hat sie das gemacht? War das eher Last oder mehr Lust? Und was hat sie von den Begegnungen mit charismatischen Welt-Persönlichkeiten wie Fidel zu erzählen?
    Fidel Castro privat: Wie der Comandante ein Nashorn erledigte

    Ihre Lieblingsgeschichte bestätigt, was man über den kubanischen Revolutionsführer, Partei-, Staats- und Regierungschef Kubas so hörte. Sie geht so: Konrad Naumann, Konni, volkstümlicher SED-Parteisekretär der DDR-Hauptstadt, reiste vom 6. bis zum 14. September 1984 nach Havanna, Irmingart Lemke an seiner Seite. Sein Gegenüber war der Bürgermeister Havannas, aber: „Keiner durfte heimkommen, ohne nicht wenigstens einen kurzen Termin bei Fidel Castro nachweisen zu können, sonst galt die Reise als nicht richtig erfolgreich“, erinnert sich die Dolmetscherin.

    „Soll der Mann im Haushalt helfen?“

    Tatsächlich hatte Konrad Naumann seinen offiziellen Termin beim Revolutionsidol in dessen Palast der Revolution; man redete unter anderem über den Nato-Raketenbeschluss: „Konni Naumann tat so, als wisse er viel mehr als andere über die Stationierung; Fidel wusste gar nichts.“

    Am späten Abend rollte eine Autokolonne vor die Residenz der DDR-Delegation. Ins Haus trat der bärtige Comandante sehr entspannt in seiner Arbeitskleidung, der grünen Uniform. Er wolle mehr erfahren, sagte er, um dann unablässig selbst zu sprechen. Er lud alle – auch das Küchenpersonal – zum Zuhören ein.

    Irmingart Lemke hat unter die Bilder in ihrem Fotoalbum geschrieben: „Er redete und redete“ – über die Vorbereitung der Expedition mit der „Granma“ (das Schiff, das die ersten 82 kubanischen Kämpfer 1952 von Mexiko nach Kuba brachte) und wie sie die Gewehre besorgt hatten. Oder die Macho-Schnurre à la Hemingway von einem Nashorn, das beim Umzug des Zoos von Havanna vom Auto gesprungen war und er, der Comandante en jefe, das Tier persönlich „erledigte“. Angeregt plauderte Fidel über Treibjagden, die der damalige sowjetische Staats- und Parteichef Nikita Chruschtschow für ihn organisierte oder über das Gämsenschießen in der ČSSR.

    Die Dolmetscherin hatte zu tun. Man muss eine sehr strapazierfähige Stimme haben in diesem Beruf und eine noch stabilere Konzentration – zumal beim Simultandolmetschen. Drei Stunden ging das so, Fidel immer die Havanna-Zigarre in der Hand. Dann stand er auf und teilte gut gelaunt mit, er habe sich „wunderbar entspannt im Kreise von Freunden gefühlt“.

    Irmingart Lemke war schwer beeindruckt: „Er war enorm locker, natürlich auch ein Selbstdarsteller, aber man konnte sich der Ausstrahlung nicht entziehen.“ Und sie war stolz, dass Fidel sie als Dolmetscherin zugelassen und nicht den mitgebrachten eigenen gewählt hatte. Im Nachhinein wertet sie Fidel als tragische Persönlichkeit mit historischer Bedeutung, die ihr Leben lang für die Verwirklichung einer Vision gekämpft habe, die sie wohl im hohen Alter selber als „so, wie versucht, nicht realisierbar“ erkannt habe.

    Aber zurück zu den Anfängen. Die Geburt der Tochter, ein ungeplantes Kind, bremste zunächst den Start in den Beruf. Anfang der 1960er stand den Paaren die Pille noch nicht zur Verfügung, die kam 1965. Auch Krippen waren selten. „Da saß ich mit dem Kind zu Hause und sah jeden Morgen Frauen und Männer zur Arbeit gehen.“ Sie empfand das als eine harte Zeit: „Ich hatte die Ausbildung, ich wollte arbeiten. Der Wunsch hat uns – ohne jede Ideologie – geprägt“, erinnert sie sich: „Wir waren eben eine neue Generation.“ Der Beruf als Dolmetscherin – als Dienstleisterin – habe perfekt zu ihrem Charakter gepasst.
    Wie die DDR „eigentlich alles“ an Kuba verschenkte

    Sie hatte allerdings zu jener Zeit schon eine erste, zum Süchtigwerden taugende Erfahrung: An ihrem ersten Arbeitsplatz, einem Außenhandelsbetrieb, waren 1960, kurz nach der Revolution, die ersten Kubaner aufgetaucht und baten um Hilfe. Die Berufsanfängerin wurde zum Dolmetschen in den Bereich Feinmechanik-Optik gebeten („Da saß mein späterer Mann und hat mich umgehend abends zum Essen eingeladen“) und kurz darauf ging es mit einer Gruppe von Ingenieuren und Händlern (darunter ihr späterer Mann) nach Kuba –„ein absolutes Wunder“, sagt sie.

    Was für Wege man damals flog! Über Amsterdam, die kapverdische Insel Sal und das karibische Curaçao nach Havanna. Sie erlebte, wie die DDR an das junge Kuba „eigentlich alles verschenkte“: Straßenbaumaschinen, Krankenhausausrüstung, Zusagen auf Kredit. Mit hochfliegenden Gefühlen spazierte sie durch Havanna, ihre erste große Stadt außerhalb der Heimat. Auf der Treppe der Uni hörte sie die flammende Rede eines jungen Mannes: „Ich hatte keine Ahnung, dass das Fidel Castro war.“

    Dann saß sie wieder im Ost-Berliner Büro, übersetzte „brav und mühsam mit Wörterbuch, jede Seite maschinengetippt, drei Durchschläge mit Blaupapier“. Das Kind kam, sie fand, es war zu früh. Der wenig geliebte Ausweg: „Was man heute Homeoffice nennt und damals Heimarbeit hieß.“ Ein Kollege brachte zu übersetzendes Material in die AWG-Neubauwohnung in Friedrichsfelde und holte es fertig wieder ab. Etwa vier Jahre lang ging das so. Das Kind saß neben ihr im Ställchen. „Das war Stress.“

    Hat sie mit ihrer Situation gehadert? „Ja, ich dachte schon, dass ich gerade zu kurz komme.“ Und dann kam „der Lichtblick“: Gamal Abdel Nasser, der erste Präsident des unabhängigen Ägyptens, hatte DDR-Chef Walter Ulbricht eingeladen. Es ging um Handelsverträge. So reiste Irmingart Lemke im Februar 1965 nach Kairo und übersetzte auf der Reiseschreibmaschine. Sie sah die Pyramiden – Ulbricht und Nasser leider nicht.

    Angesichts der zweiten Schwangerschaft und der Perspektive, weiter zu Hause zu hocken, beschloss sie: „So geht’s nicht weiter.“ Sie drängte ihren Mann, der eine Karriere in seinem Betrieb in Aussicht hatte, für beide „was im Ausland“ zu suchen. Wo man Spanisch spricht, das konnte der Außenhändlergatte nämlich auch ganz ordentlich.
    Ausnahmeleben in Havanna

    So kam er als Handelsattaché nach Kuba und sie als fest angestellte Mitarbeiterin der Dolmetscherabteilung des Außenhandelsministeriums. Die vierjährige Tochter ging in den deutschen Kindergarten, das sechs Monate alte Baby wurde in die Obhut einer jungen Kubanerin gegeben. „Sie war den ganzen Tag bei uns, gewissermaßen eine Haushälterin, froh über den Verdienst. Ein unglaublicher Luxus.“

    War es schwer, den Mann zu überzeugen, seiner Frau zuliebe die Laufbahn zu ändern? „Das hat gedauert“, sagt sie, „aber letztlich hat er positiv reagiert.“ Eine partnerschaftlich getroffene Entscheidung. 1965 – das war zwölf Jahre, bevor in der Bundesrepublik das Gesetz aufgehoben wurde, das Frauen die Arbeitsaufnahme nur nach Genehmigung durch den Gatten erlaubte.

    Freundschaften und Spannungen bei Intertext

    Als wunderbare Zeit erlebte sie die Jahre in Havanna, nur dass sie sich immer wieder für Empfänge schick aufbrezeln musste: „Das war nicht mein Ding.“ Fotos zeigen die junge Irmingart Lemke mit einer feschen blonden Kurzhaarfrisur, eine attraktive, sportliche Frau. Offenkundig aufs Praktische orientiert.

    Nach drei Jahren folgte der Ehemann einem Ruf in sein künftiges Ministerium. Sie landete beim parteieigenen Sprachmittlerbetrieb Intertext, Anfang der 1970er wurde die Abteilung Auslandsinformation geschaffen, für alle Weltsprachen. Ihr unterstanden 15 bis 20 Leute der Spanischgruppe, darunter Muttersprachler, ins DDR-Exil geflüchtete Chilenen zum Beispiel. „Da entstanden viele Freundschaften“, sagt die damalige Gruppenleiterin. Spannungen habe es allerdings auch gegeben – zwischen jenen, die reisen durften, und den anderen.

    Jetzt begann das Dolmetschen auf politischer Ebene: Damals kamen viele Persönlichkeiten aus Lateinamerika in die DDR, Menschen wie Luis Corvalán, Generalsekretär der KP Chiles, nach langer Haft in Pinochets Gefängnis freigekämpft, und seine Frau Lily oder Rodney Arismendi, Chef der KP Uruguays, „ein Intellektueller, beeindruckend“. Etwa 40 Gespräche dieser Kategorie mit Erich Honecker hat Irmingart Lemke gedolmetscht.

    Wie war das mit Erich Honecker? „Eine sehr einfache Sprache, meist Floskel an Floskel, leicht zu übersetzen, aber langweilig.“ Sie hat den Mann, der mehr als zwei Jahrzehnte die Geschicke der DDR bestimmte, als höflichen, aber sehr steifen Menschen erlebt, der, so vermutet sie, seinen Mangel an Bildung und die folglich „dünne Sprache“ durch Förmlichkeit überspielte.

    Die beiden Kinder waren inzwischen als Teenager selbstständig genug und ganz froh, dass nicht ständig einer zu Hause war. Beklagt hätten sie sich nie, nur der Sohn habe dem Vater mal vorgeworfen, er sei zu wenig da. „Sie haben sich beizeiten ein eigenes Leben gebaut.“ Doch der Haushalt klebte im Wesentlichen und recht traditionell an der Frau: „Wenn ich eine Woche auf Reisen war, füllte sich der Wäschekorb, da wurde nur das Allernötigste gemacht.“ Aber die Kinder profitierten auch von den Reisen der Mutter. Die sparte sich nämlich das zur Verpflegung gedachte Tagegeld (in Devisen) vom Munde ab und brachte begehrte Schallplatten oder schicke Klamotten mit.

    Jetzt ist Irmingart Lemke 86 Jahre alt, pflegt den Garten um das Häuschen in einem Berliner Vorort. Der Sohn ist ein erfolgreicher CEO, die Tochter lebt in Chile, deren Tochter bereitet sich auf ein Informatik-Studium in Potsdam vor. Die frühere Dolmetscherin hat ihre Erinnerungen in Alben geordnet. Wie oft wohl ihr blonder Schopf neben den Männern auf der Seite 1 des Neuen Deutschland war – und damit auch in der Berliner Zeitung? Natürlich ohne Namensnennung – wer kennt schon die Dolmetscher? Immerhin verdiente sie sich den Vaterländischen Verdienstorden in Bronze (1987) und den Orden Banner der Arbeit Stufe III (1984). Diese Information muss man im Archiv suchen, ihr selbst ist das nicht der Rede wert.

    Zu Besuch bei Honeckers in Chile

    Als die Lemkes nach der Wende regelmäßig zur Tochter nach Chile flogen, besuchten sie dort auch die Honeckers. Irmingart hatte auch für die als arrogant geltende Margot gearbeitet, sie zum Beispiel nach Nicaragua begleitet. Im persönlichen Umgang sei sie gar nicht hochnäsig gewesen, aber bis zum Schluss vom bevorstehenden Sieg des Kommunismus überzeugt.

    Beim ersten Besuch in dem kleinen Häuschen in Santiago lebte Erich Honecker noch: „Er kam im eleganten Morgenmantel herbei und scherzte, er bekäme mehr Rente als seine Frau, weil er ja schon als 14-Jähriger gearbeitet habe.“ Er sei freundlich, aber kühl und unpersönlich geblieben, auch im Umgang mit den Chilenen, denen er doch eigentlich nahestand. Die Margot, so berichtet die Besucherin, sei ihrem Enkel eine gute Oma gewesen.

    Rückblickend sagt Irmingart Lemke: „Ich bin meinem Mann und seiner beruflichen Entwicklung gefolgt“, allerdings mit wachsendem Selbstbewusstsein. In der nächsten Generation gab es Pille, Krippen, Kindergärten; qualifizierte Frauen waren keine Seltenheit mehr. Aber sie führten dieselben Diskussionen. Heutige Paare handeln ihr Leben mit größerer Selbstverständlichkeit aus: Wer steckt wann zurück, wer bringt den Müll runter, wer geht zum Elternabend? Die Ergebnisse des Aushandelns haben sich zugunsten der Frauen verschoben. Hoffen wir mal.

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  • Les réfractaires depuis l’invasion de l’Ukraine par la Russie (13ème partie • avril 2024)
    https://www.obsarm.info/spip.php?article648

    Depuis octobre 2022, Guy Dechesne recense longuement les actes de désertion, d’insoumission, de désobéissance et d’exil posés pour refuser de combattre, les actions de désobéissance civiles pour entraver la guerre et les appuis que les réfractaires reçoivent tant dans les pays concernés qu’à l’étranger dans le prolongement d’un dossier paru dans le numéro 164-165 de « Damoclès ». Cette rubrique est rédigée à partir d’un suivi méticuleux des médias. 13ème épisode, avril 2024. Retrouvez (...) #Résistances

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