• Assurance maladie du Morbihan : une offensive sur les fraudeurs rapporte 4,6 M€ | Le Télégramme
    https://www.letelegramme.fr/bretagne/assurance-maladie-du-morbihan-une-offensive-sur-les-fraudeurs-rapporte-
    L’article commence par la présentation du cas d’une salariée dont « l’arnaque » est qualifiée de « perle ».

    […]
    Cette arnaque est l’une des « perles » que l’équipe de contrôle de la CPAM a débusquées en 2023. Une année record dans le Morbihan : l’administration a détecté et stoppé un montant de fraudes de 4,6 M€, contre 2 M € en 2022. Dans le cas de cette assurée, la caisse a récupéré le montant total des IJ versées (12 500 €) et a prononcé une pénalité financière de 4 000 €.

    Portée par une réglementation qui se durcit, la caisse participe à l’offensive nationale contre les arnaques, qui, dans le Morbihan, émanent des assurés dans 63 % des cas. Un chiffre trompeur car ce sont de petits resquilleurs, qui représentent 10 % des sommes détournées.

    Portée par une réglementation qui se durcit, la caisse participe à l’offensive nationale contre les arnaques, qui, dans le Morbihan, émanent des assurés dans 63 % des cas. Un chiffre trompeur car ce sont de petits resquilleurs, qui représentent 10 % des sommes détournées.[…]

    Le gros des fraudes, 90 % des sommes, provient des professionnels, des fournisseurs de services et de matériel médical et des établissements de santé. Depuis trois ans, l’arnaque au 100 % santé a la cote. Des escrocs vendent des prothèses auditives défectueuses, ou fabriquent de fausses ordonnances, pour toucher le remboursement à 100 % de l’Assurance maladie.

    Et un nouveau type de fraude occupe également la caisse du Morbihan : les « kits » clé en main vendus en ligne, principalement pour de faux arrêts de travail. « Ils sont directement proposés sur les réseaux sociaux, regrette Gaspard Lallich. C’est de plus en plus pratiqué, l’accès à la fraude est démocratisé ». Deux nouveaux délits sont créés, cette année, pour cibler ces fournisseurs de kits, dont un « délit de facilitation à la fraude sociale ».

    • c’est bien pour cela que l’offensive (médiatique) se concentre sur les petits resquilleurs

      « On a un meilleur échange de données avec les impôts, le parquet, l’ARS, la gendarmerie, les organismes sociaux, etc. On a aussi des outils prédictifs qui nous permettent de cibler des comportements de consommation de soins ou de prescription atypiques ».

    • Les flics de la CPAM auront une médaille pour avoir parfaitement médiatisé la récupération de 102% du montant des fraudes de la multitude des petits arnaqueurs * qui n’ont que ce qu’ils méritent, il faut sauver notre système de santé.

      En anglais, on parle de low hanging fruits 🍑

      * soit 10% du montant total de la fraude, suggestion de présentation, un crédit vous engage, document non contractuel, ne pas jeter sur la voie publique, le société décline toute responsabilité

    • En guise de diversion aussi, pointer des fraudes exceptionnelles effectuées au bas de l’échelle évite de mettre en lumière l’ordinaire de la fraude issue du coeur du système de santé et des soignants les plus gradés. Comme dans le cas de l’infirmière voyoute mais mégalomane et peu prudente qui vient cacher la forêt des arrangements rémunérateurs effectués au quotidien (labos et autres structures capitalistiques inclus).

      Fraude à l’Assurance-maladie : une infirmière condamnée pour avoir facturé des actes fictifs pour plus de 1,5 million d’euros
      https://www.lemonde.fr/livres/article/2024/04/18/l-esclavage-dans-les-mondes-musulmans-de-m-hamed-oualdi-tordre-le-cou-aux-cl

      #CPAM #santé #fraude

  • «Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per stranieri»
    https://www.meltingpot.org/2023/11/trattenuti-una-radiografia-del-sistema-detentivo-per-stranieri

    Un sistema inumano e costoso, inefficace e ingovernabile, che negli anni ha ottenuto un solo risultato evidente: divenire lo strumento per rimpatri accelerati dei cittadini tunisini, che nel periodo 2018-2021 rappresentano quasi il 50% delle persone in ingresso in un Centro di permanenza per il rimpatrio (CPR) e quasi il 70% dei rimpatri. Ma i migranti tunisini sono stati solo il 18% degli arrivi via mare nel 2018-2023. Quasi il 70% dei rimpatri dai CPR è di soli cittadini tunisini. Sono questi i tratti caratteristici del sistema dei CPR raccolti nel report “Trattenuti. Una radiografia del sistema detentivo per (...)

  • Il sistema delle “coop pigliatutto”

    Per anni hanno dominato il settore dell’accoglienza in Veneto prima di sbarcare nella detenzione amministrativa. Oggi gestiscono due Cpr, tra cui quello di Gradisca d’Isonzo, dove dalla sua riapertura sono morte quattro persone

    Il 16 dicembre del 2019 il Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, riapre, a sei anni dalle proteste che hanno portato alla sua chiusura. Tra i primi trattenuti del nuovo corso, c’è un gruppo di circa settanta persone provenienti dal centro di Bari, dove sono stati bruciati tre degli ultimi quattro moduli rimasti dopo le proteste dei mesi precedenti. Bibudi Anthony Nzuzi è tra coloro che sono stati trasferiti «di punto in bianco», dice, in Friuli. L’accoglienza non è stata delle migliori: «Pioveva, faceva freddo, ci siamo ritrovati i poliziotti in tenuta antisommossa. Non avevamo materassi, non c’erano coperte, non avevamo niente per poterci vestire. Ci siamo ritrovati a dormire al freddo perché non c’era il riscaldamento», racconta.

    Nzuzi è nel Cpr friulano anche tra il 17 e il 18 gennaio 2020, quando muore un trattenuto georgiano di 37 anni, Vakhtang Enukidze. I poliziotti di cui parla Nzuzi stanno sedando una protesta. «Hanno inizialmente pestato tutti, solo che lui [Vakhtang Enukidze] era caduto – racconta – ma continuavano a pestarlo e gli altri ragazzi si sono buttati addosso ai poliziotti e l’hanno tirato via».

    Nzuzi si trova nello stesso reparto di Enukidze ma in un’altra cella. «La sera lui [Vakhtang Enukidze] lamentava dolori, non si sentiva bene – ricorda, ripensando ai momenti dopo che la polizia ha lasciato il Cpr -. È andato a dormire e non si è più risvegliato». Questa versione è stata confermata da alcune testimonianze raccolte dal deputato Riccardo Magi durante due visite ispettive subito dopo il decesso. Non dagli investigatori, però.

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    L’inchiesta in breve

    - Ekene nasce nel 2017 come diretta emanazione di Ecofficina ed Edeco, enti che hanno dominato il mercato dell’accoglienza in Veneto guadagnandosi l’appellativo di “coop pigliatutto”
    - A gestirla è Simone Borile, imprenditore padovano che proviene dal business dei rifiuti. Sebbene non compaia mai nella visura camerale, viene considerato dagli inquirenti di Venezia “amministratore di fatto” delle cooperative
    - Nel 2016, Ecofficina-Edeco si aggiudica due centri di accoglienza, a Cona e Bagnoli. Per la gestione dei due hub, sono nati due processi paralleli a Padova e Venezia, dove sono indagati alcuni funzionari delle due prefetture e i vertici della cooperativa, tra cui Simone Borile. Le accuse, a vario titolo, sono di frode nell’esecuzione del contratto, inadempimento e frode degli obblighi contrattuali, rivelazioni di segreto d’ufficio
    - Con la liquidazione di Edeco nasce Ekene, che segna l’ingresso nel mondo della detenzione amministrativa con l’aggiudicazione dei Cpr di Gradisca d’Isonzo, in Friuli-Venezia Giulia, e Macomer, in Sardegna
    – Dalla sua riapertura nel gennaio 2019, nel Cpr friulano sono morte quattro persone. Borile è indagato per omidicio colposo per il decesso di Vakhtang Enukidze, lasciato secondo l’accusa per nove ore senza soccorsi
    – Nell’ottobre 2022, la cooperativa veneta ha vinto la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Dopo sette mesi la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici

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    A seguito della morte di Enukidze, la procura di Gorizia ha cominciato a indagare. L’autopsia sul deceduto ha stabilito come causa della morte un edema polmonare e cerebrale dovuto non a un pestaggio, ma a un cocktail di farmaci e stupefacenti. Così a essere riviati a giudizio con l’accusa di omicidio colposo sono stati il direttore del centro, Simone Borile, e il centralinista che era di turno quel giorno. La cooperativa che ha in gestione il Cpr si chiama Ekene. È nata dalle ceneri di Ecofficina ed Edeco, conosciute in Veneto come “coop pigliatutto”, per aver dominato per anni la gestione dell’accoglienza in tutta la regione.

    Secondo la ricostruzione degli inquirenti, Enukidze è stato lasciato senza soccorso per diverse ore, nonostante le richieste di aiuto degli altri trattenuti, prima di essere trasferito in ospedale, dove è morto alle 15:37. La sorella, Asmat, ricorda l’ultima telefonata in cui percepiva una voce diversa: «Sembrava che avesse bevuto. Aveva dei dolori e gli avevano dato qualcosa per calmarlo, un antidolorifico. Stava talmente male che non riusciva nemmeno ad andare all’udienza. Mi diceva di contattare l’ambasciata georgiana, per farlo uscire dal Cpr», racconta. Simone Borile, raggiunto al telefono da IrpiMedia, ha una versione diversa dei fatti: «È stato soccorso immediatamente, appena c’è stata la chiamata», il problema «riguarda il mancato funzionamento del sistema di chiamata. Niente a che vedere con il mancato soccorso».
    L’ascesa di Ecofficina tra le coop dell’accoglienza

    Borile ha cominciato a lavorare con i migranti dai tempi di Ecofficina Educational, cooperativa con sede a Battaglia Terme, in provincia di Padova, fondata il 2 agosto 2011. Il direttore del Cpr di Gradisca non appare nella visura camerale in quanto sarebbe stato un semplice consulente esterno. Gli inquirenti di Venezia e Padova che indagheranno sulla società, sosterranno tuttavia che sia lo stesso Borile l’amministratore di fatto delle “coop pigliatutto”.

    I legami tra Borile e i vertici di Ecofficina sono però evidenti: vicepresidente della cooperativa è la moglie Sara Felpati mentre il presidente del consiglio di amministrazione è Gaetano Battocchio, coinvolto con lui nel processo per bancarotta della società di gestione dei rifiuti della Bassa Padovana, Padova Tre srl, ma poi assolto, al contrario di Borile che a marzo 2023 è stato uno dei due condannati in primo grado a quattro anni e otto mesi per peculato perché avrebbe trattenuto illegalmente un importo di oltre tre milioni di euro.

    È nel dicembre 2014 che per la prima volta il nome di Ecofficina viene accostato a un caso di frode nelle pubbliche forniture e maltrattamenti sugli ospiti. Il processo che ne è scaturito si chiuderà otto anni e mezzo dopo, il 12 luglio 2023, con l’assoluzione dei vertici della cooperativa perché il fatto non sussiste.

    Durante gli anni passati a processo, Ecofficina Educational – che nel 2015 ha ceduto parte dell’azienda a un’altra cooperativa, Ecofficina Servizi – si aggiudica diversi appalti per l’accoglienza migranti in particolare nella provincia di Padova, con un monopolio che comprende l’ex Caserma Prandina di Padova, l’Hotel Maxim’s a Montagnana, lo Sprar del comune di Due Carrare e l’accoglienza di più di 700 migranti nelle province di Venezia, Vicenza e Rovigo.

    Nel caso dello Sprar di Due Carrare, uno dei requisiti fondamentali per partecipare era aver svolto in modo continuativo, e per almeno due anni, l’attività di accoglienza. A gennaio 2016, la cooperativa ha depositato una dichiarazione attestante una convenzione con la Prefettura di Padova che provava l’inizio dell’attività il 6 gennaio 2014, nonostante Ecofficina fosse entrata nel settore solo nel maggio dello stesso anno. Grazie alla documentazione falsa, secondo l’ipotesi degli inquirenti di Padova, Ecofficina avrebbe ottenuto l’aggiudicazione provvisoria delle gare per la gestione di centri di accoglienza. Il processo che è scaturito dall’indagine è ancora in corso, riporta il Mattino di Padova. IrpiMedia non ha ricevuto alcuna risposta a domande di chiarimento rivolte via email alla cooperativa su questo e su altri temi.

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    Cpa, Cas, Sai: le sigle dell’accoglienza

    In Italia il sistema di accoglienza dovrebbe svilupparsi su due binari: a un primo livello ci sono i Centri di prima accoglienza (Cpa) e gli hotspot, e a un secondo il Sistema di accoglienza e integrazione (Sai), strutture gestite dagli enti locali su base volontaria, che dovrebbero rappresentare il sistema ordinario. I Centri di accoglienza straordinaria (Cas), invece, dovrebbero essere individuati e istituiti dalle prefetture nel caso in cui i posti negli altri centri fossero esauriti. La maggior parte delle persone che arrivano sul territorio però sono accolte nei Cas, sintomo di una gestione perennemente emergenziale del fenomeno. In base ai dati del rapporto di Actionaid Centri d’Italia del 2022, i posti nei Cas, dove è ospitato oltre il 65% delle persone, e nei Cpa sono infatti quasi 63 mila, a fronte dei 34 mila posti del Sai.

    I centri di prima accoglienza e gli hotspot sono invece strutture nate per identificare, fotosegnalare e assistere dal punto di vista sanitario le persone appena arrivate in Italia. Dovrebbero fornire anche le prime informazioni legali per la richiesta di protezione internazionale.

    Nel Sai – prima conosciuto come Siproimi (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) e prima ancora come Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) – i servizi assicurati sono solitamente superiori rispetto agli altri centri e mirano ad accompagnare le persone accolte nei loro percorsi di vita e di autonomia: oltre al vitto e all’alloggio, sono infatti assicurate assistenza legale, mediazione linguistica, orientamento lavorativo, insegnamento della lingua italiana, assistenza psicosociale.

    A parte alcune categorie di soggetti, come i minori stranieri non accompagnati, il decreto firmato il 10 marzo 2023 dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha escluso i richiedenti asilo dalla possibilità di essere accolti nel sistema ordinario, riservando loro i pochi servizi di base garantiti dal Cas, ulteriormente ridotti: l’assistenza materiale, sanitaria e linguistica, vitto e alloggio, eliminando i servizi di assistenza psicologica, i corsi di italiano e l’orientamento legale.

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    Gli anni di Edeco

    Dopo le vicende di Ecofficina, la cooperativa cambia nome. Spunta dunque un nuovo attore nel mercato dell’accoglienza in Veneto: Edeco. I vertici però rimangono invariati. La cooperativa inizia a partecipare ai bandi per la gestione dell’accoglienza a partire dal 2016, quando il suo organigramma si arricchisce di nuove figure. Tra queste, Annalisa Carraro, che con Battocchio, Felpati e Borile sarà imputata nel processo di Venezia. Quell’anno in Italia il numero dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas) cresce di quasi il doppio rispetto all’anno precedente, con 137 mila strutture dove si concentra il 78% dei richiedenti asilo. In particolare, in Veneto questa tendenza si affianca alla resistenza degli amministratori locali verso il sistema di accoglienza diffusa rappresentato dagli Sprar (oggi Sai).

    È in questo contesto che nascono centri come la tendopoli nell’ex base militare di Cona, in provincia di Venezia, gestita provvisoriamente da Ecofficina fino al luglio del 2016. Quel mese sarà proprio Edeco, in un raggruppamento temporaneo d’imprese con Ecos e Food Service, ad aggiudicarsi il nuovo appalto.

    Le denunce sulle condizioni interne emergono già dal giugno dello stesso anno, quando alcune associazioni effettuano una visita al centro evidenziando il sovraffollamento e la carenza dei servizi essenziali. Le proteste successive dei richiedenti asilo spingono il presidente della Confcooperative del Veneto, Ugo Campagnaro, a prendere la decisione di sospendere Ecofficina-Edeco con queste motivazioni: «Non esiste una legge che impedisca di ospitare e gestire centinaia di profughi in un’unica struttura. Questo però è un sistema che non risponde alle logiche della buona accoglienza […]. Si tratta invece di un modello che guarda soprattutto al business».

    I problemi diventano evidenti quando a gennaio 2017 Sandrine Bakayoko, 25enne ivoriana ospite del centro di Cona, muore per trombosi polmonare. Questo episodio porterà ad alcuni lavori di ristrutturazione e alla riduzione degli ospiti da 1.600 a 1.000, misure comunque non sufficienti a evitare la protesta dei richiedenti asilo, che a novembre si mettono in marcia verso Venezia per ottenere un incontro con il prefetto di Venezia, che alla fine deciderà di spostarli in altre strutture, scrive Internazionale.

    Due anni più tardi la Procura di Venezia chiede il rinvio a giudizio per i vertici di Ecofficina-Edeco. Borile, sempre “amministratore di fatto” a quanto afferma l’accusa, e i suoi colleghi avrebbero impiegato un numero di operatori inferiore agli obblighi contrattuali, un’inadempienza che sarebbe stata coperta dai trasferimenti di personale dall’altro grande centro gestito dalla cooperativa, quello di Bagnoli, in provincia di Padova, e dalla falsificazione dei documenti, che avrebbero fatto apparire un numero di operatori superiore. Inoltre, l’impiego di medici e infermieri con turni e orari inferiori rispetto a quanto previsto dal capitolato d’appalto avrebbe procurato un ingiusto profitto di oltre 200 mila euro. Tutto questo sarebbe stato possibile anche grazie alle informazioni fornite dalla Prefettura. Secondo quanto emerge da alcune intercettazioni contenute nelle carte processuali, ex prefetti e funzionari avrebbero preannunciato e in alcuni casi concordato con i responsabili della cooperativa l’orario e la data delle visite ispettive. Una prassi che avrebbe permesso a Ecofficina-Edeco di organizzarsi in anticipo per coprire eventuali falle.

    Per questo motivo, la giudice per le indagini preliminari ha accolto le richieste di rinvio a giudizio, tra gli altri, anche nei confronti dell’ex prefetto pro tempore di Venezia Domenico Cuttaia e dell’allora vice prefetto vicario Vito Cusumano per rivelazione di segreto d’ufficio.

    Raggiunto al telefono, Simone Borile ha commentato in questo modo: «Non si trattava di ispezioni, ma esclusivamente di una visita di cortesia». Il processo è ancora in primo grado, in fase dibattimentale: nell’ultima udienza, un’ex operatrice ha raccontato che era il personale a firmare il foglio presenze per conto dei richiedenti asilo, in modo da poter ricevere dalla Prefettura la quota diaria per ogni persona accolta, riporta Il Gazzettino.

    Un processo molto simile si sta svolgendo a Padova sulla gestione del Cas di Bagnoli. Tra gli imputati ci sono ancora una volta Sara Felpati, Simone Borile, Gaetano Battocchio, oltre all’ex viceprefetto Pasquale Aversa, il vicario Alessandro Sallusto e una funzionaria della Prefettura. Le accuse a vario titolo sono di turbativa d’asta, frode nelle forniture pubbliche, truffa, concussione per induzione, rivelazione di segreti d’ufficio e falso ideologico. Secondo l’accusa, grazie ai contatti con la Prefettura, Borile, Battocchio e Felpati avrebbero ottenuto informazioni sui concorrenti, partecipando a un bando su misura per Edeco. Anche in questo caso viene contestata la presenza di personale in numero inferiore rispetto al capitolato d’appalto e le chiamate di preavviso della Prefettura prima di alcune ispezioni per permettere alla cooperativa di farsi trovare in regola.
    I danni delle indagini

    Le indagini finiscono per danneggiare la “coop pigliatutto” che alla fine del 2018, anno di chiusura delle strutture di Cona e Bagnoli, avvia una procedura di licenziamento collettivo per 57 lavoratori, a cui se ne aggiungono 71 in scadenza di contratto. Si tratta di addetti alle pulizie e custodia, operai, insegnanti, tecnici, psicologi, educatori che riducono sensibilmente la rosa di Edeco, composta fino ad allora da 228 dipendenti. Nel 2020, Edeco inizia il processo di liquidazione, ma comincia a prendere nuova forma, sempre con lo stesso sistema: la creazione di nuove cooperative.

    Questa volta sono due le cooperative che prendono il testimone di Edeco, segnando l’ingresso nel mondo del trattenimento dei cittadini stranieri: Ekene e Tuendelee. La prima è dedicata quasi esclusivamente alla gestione dei Cpr, la seconda all’attività principale di «pulizia generale (non specializzata) di edifici», oltre a servizi educativi e socio-sanitari come le «attività di prima accoglienza per cittadini stranieri».

    Simone Borile, che di nuovo non compare nelle visure camerali, ha giustificato così a La Nuova Venezia la necessità di creare nuovi soggetti: «Era impossibile continuare a lavorare a causa del danno reputazionale che abbiamo subito». Le stesse persone coinvolte nei processi di Padova e Venezia sono presenti anche nei nuovi organigrammi, come Sara Felpati, prima presidente del Cda di Ekene, ruolo passato poi alla sorella Chiara, e Annalisa Carraro, ex consigliera di Edeco, che oggi ricopre il ruolo di vicepresidente di Ekene e di consigliera in Tuendelee.

    Le controversie del passato non hanno quindi impedito l’aggiudicazione di nuove strutture: nell’agosto del 2019 Edeco ottiene in gestione il Cpr di Gradisca d’Isonzo, poi ceduto due anni dopo a Ekene, e nel dicembre 2021 quello di Macomer. In Friuli, la cooperativa si aggiudica una gara da quasi cinque milioni di euro, grazie al ribasso dell’11,9% rispetto alla base d’asta, dopo l’esclusione delle prime quattro società in graduatoria. Ekene a marzo 2023 vince anche un ricorso al Tar per ottenere la gestione di un centro di accoglienza a Oderzo, nel trevigiano, nell’ex caserma Zanusso.

    Ekene ha poi preso in gestione il Cpr di Macomer dopo l’aggiudicazione della gara del 2021. In una visita, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha riportato criticità simili a quelle emerse nella struttura friulana, come la violazione del diritto alla salute, all’informazione normativa e alla corrispondenza, poiché «neanche i difensori possono contattare i loro assistiti in caso di comunicazioni urgenti se non attraverso il filtro del gestore», si legge nel rapporto. Inoltre, secondo Asgi la visita medica è spesso assente o viene fatta in modo superficiale.

    La cooperativa veneta ha poi vinto, nell’ottobre 2022, la gara per la gestione del Cpr di Caltanissetta. Ma dopo sette mesi, a maggio 2023, la Prefettura ha annullato l’aggiudicazione per i procedimenti a carico dei vertici: nel decreto di esclusione si riconosce esplicitamente Ekene come diretta emanazione di Edeco. Ricordando i gravi reati contestati nei procedimenti penali in corso, la Prefettura afferma di non poter «valutare favorevolmente l’integrità e l’affidabilità dell’operatore economico». Considerazioni diverse rispetto a quelle della Prefettura di Gorizia, che ha permesso a Simone Borile di mantenere il ruolo di direttore del centro di Gradisca d’Isonzo.

    L’imputazione di Borile per omicidio colposo, secondo i verbali della nuova gara indetta dalla Prefettura di Gorizia per la gestione del Cpr, «può avere rilievo solo al fine di considerare l’affidabilità dell’operatore economico sotto la cui gestione è occorso l’evento morte», dato che Borile non ricopre alcun incarico formale in Ekene. Nella stessa gara, la cooperativa Badia Grande è stata esclusa per il rinvio a giudizio del rappresentante legale per diversi reati, tra cui frode nelle pubbliche forniture per la gestione dei Cpr di Trapani e Bari. Dai verbali della prefettura disponibili in rete risulta che la posizione della cooperativa veneta sia ancora in fase di valutazione.
    Morire di Cpr a Gradisca d’Isonzo

    Dalla riapertura del 2019 ad oggi sono morti quattro trattenuti al Cpr di Gradisca d’Isonzo. Dopo Vakhtang Enukidze, Orgest Turia, cittadino albanese di 28 anni, è morto per overdose da metadone quattro giorni dopo essere entrato nel centro, il 10 luglio 2020, in una cella di isolamento, dove si trovava con altre cinque persone per il periodo di quarantena. Andrea Guadagnini, avvocato di Turia, ha scoperto della sua morte proprio in sede di convalida del trattenimento ed esprime perplessità sulla provenienza di quella sostanza. Altre due persone si sono poi tolte la vita nella struttura: Anani Ezzedine era un cittadino tunisino di 44 anni. Anche lui in isolamento per il periodo di quarantena, si è suicidato nella sua cella nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2021. Arshad Jahangir, un ragazzo 28enne di origine pakistana, si è suicidato il 31 agosto 2022 in camera un’ora dopo essere entrato nel Cpr.

    «È chiaro che per noi i Cpr debbano essere chiusi, ma nel frattempo volevamo instaurare delle prassi virtuose per agevolare la tutela dei diritti dei detenuti», afferma Eva Vigato, che insieme ad altre due colleghe, tra dicembre 2019 e novembre 2020 ha svolto il servizio di assistenza legale per l’ente gestore. Sostiene che anche per lei fosse molto difficile intervenire: i diritti dei trattenuti nei Cpr non sono delineati da una legge, ma da un semplice regolamento ministeriale, di cui non possono essere contestate le violazioni.

    https://www.youtube.com/watch?v=xq-OrG9-V7c&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Firpimedia.irpi.eu%2

    «Sono successe delle cose che ci hanno sconvolto», ricorda l’avvocata Vigato. Dopo la morte di Vakhtang Enukidze, Vigato e le sue colleghe hanno assistito a un’altra serie di irregolarità: «Abbiamo deciso di tener duro e ci siamo date come limite la Convenzione di Ginevra – spiega -. Di fronte a una violazione del trattato internazionale avremmo sporto denuncia».

    L’occasione si è presentata a novembre 2020: le legali si sono rese conto che dal Cpr transitavano cittadini tunisini senza che venisse registrato il loro ingresso nel sistema e senza che riuscissero a incontrarli e a informarli dei loro diritti, tra cui la richiesta di asilo, tutelata proprio dalla Convenzione di Ginevra. Le avvocate avevano dunque incaricato formalmente i mediatori di informare i trattenuti della possibilità di chiedere protezione internazionale e di metterlo per iscritto. In risposta, l’ente gestore ha deciso di diminuire le ore di ufficio legale, portando l’avvocata a inviare una segnalazione per denunciare la violazione della Convenzione di Ginevra alla Prefettura e al Garante nazionale. Ha risposto «il prefetto in persona – racconta Vigato – dicendo che non c’era nulla di irregolare ravvisabile nell’operato. Mi domando come abbia fatto, in così pochi giorni e senza un serio controllo, ad affermare una cosa del genere». La sera stessa Edeco ha rimosso Vigato e le sue colleghe dall’incarico.

    Nella segnalazione inviata alle autorità, Vigato ha evidenziato la violazione di molteplici diritti, tra cui quello alla salute e all’assistenza legale. Sostiene ci fosse un abuso di medicine nella struttura: «A un certo punto ci siamo rese conto che non c’era un controllo reale sui farmaci e potevano essere utilizzati anche in modo improprio dai detenuti». Le legali spesso non riuscivano ad accedere alle informazioni sanitarie e, in alcuni casi, non veniva caricato il resoconto delle visite, soprattutto quelle psicologiche. «L’impressione che è uscita sia dal processo Edeco sia dalla mia esperienza nel Cpr – conclude Vigato – è che ci sia una sorta di soluzione di comodo tra l’ente gestore e l’istituzione, per cui va bene così».

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    La storia di Anthony

    Bibudi Anthony Nzuzi è nato in Libano, da genitori congolesi, nel 1983, in piena guerra civile. «Era la fase del bombardamento massiccio», racconta, ma dopo cinque anni «la situazione era diventata veramente insostenibile». Per questa ragione, sua madre ha deciso di mandare i figli fuori dal Paese: due dei tre fratelli più grandi sono emigrati in Congo Brazzaville, ma lui, il più piccolo, è rimasto con lei. Poi sono fuggiti insieme in Siria e, visto che il conflitto si stava avvicinando, in Turchia, ad Ankara e a Istanbul.

    Infine, hanno deciso di venire in Italia per ricongiungersi con il fratello maggiore, che si trovava nel Paese da diversi anni. «Nel 1998 mia madre, dopo anni di duro lavoro, è riuscita a riunire tutta la famiglia qui a Jesi, nelle Marche», dice Anthony, che ha poi studiato come perito elettrotecnico, mentre uno dei fratelli ha partecipato alle Olimpiadi di Pechino del 2008 con l’Italia nella disciplina delle arti marziali.

    Anthony vive quindi in Italia da quasi trent’anni e ha conosciuto il mondo dei Cpr «per un errore», racconta: «Vivevo a Modena e mi sono fidato di una persona, sbagliando. Mi sono trovato a dover scontare una pena di 11 mesi e 29 giorni in carcere». Mentre era recluso gli è scaduto il permesso di soggiorno senza, sostiene, che gli fosse data la possibilità di rinnovarlo. «A luglio mi è arrivato il foglio di via e il 10 ottobre a mezzanotte sono venuti a prendermi in cella, mi hanno fatto preparare tutte le mie cose perché dovevano espatriarmi in Congo». Ma dopo essere stato trasferito a Fiumicino alle quattro di mattina e alcune ore di attesa, il volo non è partito ed è stato riportato in cella.

    Uscito dal carcere, dopo uno sconto di pena per buona condotta, ha potuto passare un giorno con la famiglia per poi essere recluso in un Cpr. «Era l’unico modo per me per rimanere in Italia – racconta con commozione – non è facile, ma sono riuscito ad andare avanti». È stato portato al Cpr di Bari, ma per la sua avvocata, che esercita nelle Marche, era diventato difficile seguirlo.

    Dopo pochi giorni le condizioni nel centro pugliese erano già critiche: cibo ammuffito, carenze igieniche e, secondo Anthony, negli altri moduli la situazione era anche peggiore. Per questo sono iniziate rivolte interne che hanno reso inagibile la struttura, andata a fuoco. «La mattina dell’incendio ci siamo ritrovati caricati su dei pullman e portati a Gorizia – dice – di punto in bianco».

    Anthony considera il carcere molto meglio del Cpr: «Hai una vita dignitosa, per quanto è possibile. Sei detenuto, ma comunque hai la tua dignità. Nel Cpr ti tolgono tutto, o almeno ci provano». E aggiunge: «Se arrivo a dire una cosa del genere significa che stavo meglio in carcere per davvero. I primi giorni a Gradisca abbiamo patito il freddo, il cibo arrivava gelato e crudo. Non è stato per niente facile».

    Grazie all’assistenza legale della sua avvocata è riuscito a uscire, ma se fosse stato rimpatriato nel Paese di origine dei suoi genitori, dove lui non è mai stato, avrebbe dovuto arrangiarsi senza soldi: «Non mi hanno dato un euro quando sono arrivato in aeroporto», spiega. Anthony rischiava di essere rimpatriato in Congo, dove ha alcuni parenti, «ma non so neanche dove siano, come si chiamino o come contattarli». E, oltre ad avere sempre avuto i documenti in regola, già prima di entrare nel Cpr, aveva un figlio di nazionalità italiana.

    «Metà delle persone che trovi nel Cpr – conclude Anthony – hanno semplicemente voglia di trovare un futuro. Magari c’è chi vorrebbe veramente lavorare, ma non ha possibilità perché lo trattano come un cane. Dagli la possibilità di dimostrarti che può rimanere nel tuo Paese. Non ne vuole tante, gliene basta una».

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    https://irpimedia.irpi.eu/cprspa-coop-ekene-gradisca-isonzo-macomer

    ici aussi : https://seenthis.net/messages/1016060

    #accueil #rétention #détention_administrative #asile #migrations #réfugiés #sans-papiers #business #Gradisca_d'Isonzo #Italie #CPR #Vakhtang_Enukidze #Enukidze #Simone_Borile #Ecofficina-Edeco #Ecofficina #Edeco #Cona #Bagnoli #Ekene #Macomer #coopérative #Ecofficina_Educational #Sara_Felpati #Gaetano_Battocchio #Ecofficina_Servizi #Due_Carrare #CPA #CAS #SAI #centri_di_prima_accoglienza #Sistema_di_accoglienza_e_integrazione #Centri_di_accoglienza_straordinaria #Edeco #Annalisa_Carraro #Ecos #Food_Service #Sandrine_Bakayoko #Tuendelee #Oderzo #caserma_Zanusso #Caltanissetta #Badia_Grande

  • la sécu assaisonne les pauvres - relevé aux marges de l’oiseau mort

    ça me rappelle quand la sécu m’est tombé dessus pour une merde dans le traitement ortho [de l’enfant].
    la salope me demandait à moi un trop perçu alors que c’était IMPOSSIBLE que je sois la source de l’erreur. ce sont les SOIGNANTS qui font les déclarations d’actes, pas moi !
    et pareil j’avais du chercher partout comprendre la cotation en TO d’un foutu orthodontiste qui gagne 150k par an et faire bosser sa secrétaire pour arriver à PROUVER une erreur de SA PART qui ne pouvait PAS m’être imputée. je ne passe pas les actes sur ma vitale moi même hein.
    mais la sale conne de la #cpam elle était FASCISTE DONC elle voyait aucun prb à me dire à moi de rendre 300 euros au lieu de demander à la soignante de vérifier sa compta !
    et vous voyez pas le NOMBRE de VIES que vous BOUSILLEZ comme ça INJUSTEMENT en BROYANT DES GENS qui n’ont pour la plupart pas les moyens de défendre parce qu’ils sont PAS même AUTORISES à entrer dans leur propre dossier !!

    pour ma part, je paume près de 200 euros de remboursement de frais de santé (une paille) et je ne suis pas certains après moultes démarches de récupérer un #indu en ma faveur de 200 balles résultant de prélèvements automatiques pour une couverture solidarité santé (#CSS, mais ils aiment pas la langue ordinaire, faut dire #C2S !) à laquelle j’étais de droit éligible gratos et de façon automatique du fait de dépendre du RSA socle durant la période concernée.
    après déplacements, messages, coups de fils, courriers divers, tous suivis de non réponses (on me parle d’autre chose que ce qui motive mes démarches ah ah ah), j’ai l’impression de devoir entamer une procédure... pour que - comme Pôle, CAF et préfectures savent le faire - ils lâchent le morcif la veille d’une audience afin d’éviter une condamnation. grosse fatigue.

    dernier contact en date :
    moi, en guise de politesse un tant soit peu politique, une manie avec les employés qui font du phoning (I did some), quelque soit l’objet, et pour les commerciaux c’est le standard " non je suis pas disponible pour vos employeurs, désolé, et puisque vous ne pouvez sans doute pas faire grève, n’hésitez pas à prendre un arrêt maladie si vous avez une mutuelle qui vous couvre", après avoir pris un énième râteau dans les ratiches, je conclue , "bon courage à vous, ça ne doit pas être facile de claquer la porte au nez des gens comme ça madame"
    l’agente qui m’a dit que c’est #normal que l’on me rembourse 40€ sur 220€ de frais de santé parce que c’est l’État mais pas eux qui fait payer chaque année 50 euros de #franchise sur les frais et que j’ai fait l’erreur d’aller au même labo d’imagerie que de coutume pour un truc éventuellement urgent mais qu’ils ont contrairement à l’habitude fait payer un dépassement : "mais non, rassurez-vous ! je suis très contente de mon métier, on aide les gens"

    l’impression d’avoir affaire à un contrôleur sncf zélé qui fait tout pour te mettre à l’amende et que ça sourd, effectivement, le fascisme, l’obéissance infinie dans la bonne conscience à bloc.

  • Anderlecht : le budget du CPAS s’élève à 161 millions d’euros pour 2023 - BX1
    https://bx1.be/categories/news/anderlecht-le-budget-du-cpas-seleve-a-161-millions-deuros-pour-2023

    À #Anderlecht, le Conseil communal de ce jeudi 19 janvier a approuvé le budget 2023 du CPAS de la commune. Celui-ci s’élève donc à 161 millions d’euros, soit une augmentation de près de 10% par rapport à 2022.

    Grâce à ce budget, le CPAS entend “accompagner les citoyens anderlechtois qui doivent faire face à une succession de #crises telles que le #Covid, la #guerre en Ukraine, et à une augmentation générale des prix“, indique-t-il par voie de communiqué.

    Actuellement, 570 foyers de réfugiés ukrainiens sont accompagnés par le #CPAS, soit plus de 1240 personnes.

    Le budget comprend une dotation communale de 38.390.000€ (soit 13,60% de plus qu’en 2022).

  • Le CPAS d’Anderlecht manifeste devant le 16 rue de la Loi face à la hausse de la pauvreté
    https://www.sudinfo.be/id684384/article/2023-07-05/le-cpas-danderlecht-manifeste-devant-le-16-rue-de-la-loi-face-la-hausse-de-l

    Les crises successives ont considérablement augmenté la #précarité, affirme le #CPAS d’#Anderlecht. « Le nombre de citoyens qui font appel au CPAS augmente de manière significative. » De nombreux profils qui n’avaient jamais eu besoin d’aide auparavant s’ajoutent en prime à la liste des bénéficiaires du #revenu_d_intégration.

    Le CPAS d’Anderlecht indique que certaines communes font face à un niveau de #pauvreté plus important que d’autres, sans pour autant disposer des mêmes moyens de financement. « 8,4 % de la population active d’Anderlecht a droit à un revenu d’intégration, ce qui en fait la troisième commune la plus pauvre du pays », rapporte le centre public d’action sociale.

    #RIS

  • En baissant le remboursement des frais dentaires, la Sécu acte le recul de l’accès aux soins – Libération
    https://www.liberation.fr/societe/sante/en-baissant-le-remboursement-des-frais-dentaires-la-secu-acte-le-recul-de
    https://www.liberation.fr/resizer/sWvh93g-CHdBViVgarRk13bc6BE=/1200x630/filters:format(jpg):quality(70)/cloudfront-eu-central-1.images.arcpublishing.com/liberation/4ZUPRLAHA5HOXPBVDL4CISXXJE.jpg

    Christian Lehmann (...) revient sur la décision de l’Assurance maladie de baisser sa prise en charge des soins dentaires. Une décision unilatérale qui a surpris tous les acteurs du secteur.

    Après la crise du Covid pendant laquelle l’Assurance maladie a semblé pour la première fois sortir d’une logique de rationnement masqué sous un vocabulaire de dépense responsable, les habituels tours de passe-passe consistant à réduire la prise en charge des soins de santé tout en se gargarisant d’investir dans la prévention ont repris.

    A compter du 1er octobre, l’Assurance maladie diminuera sa prise en charge des soins dentaires de 70 % à 60 %. Cette décision unilatérale annoncée le 15 juin a surpris tous les acteurs du secteur : les complémentaires, qui devront assumer ce transfert de charges et annoncent d’ores et déjà vouloir le répercuter sur les cotisations ; les patients, qui en paieront finalement la note ; et les professionnels de santé.

    Jacques Bohbot, chirurgien-dentiste récemment diplômé, explique : « La profession et les syndicats ont appris la nouvelle jeudi [15 juin] par voie de presse, alors même que les négociations conventionnelles avec l’Assurance maladie ont lieu actuellement, après que le round précédent en 2017 a abouti à un refus de signature et à un règlement arbitral, comme pour les médecins cette année. S’il était prévu dans le projet de loi de financement de la Sécurité sociale à l’automne dernier que l’Assurance maladie taxe les complémentaires à hauteur de 150 millions d’euros en compensation de la prise en charge à 100 % des patients en affection longue durée, le montant est brusquement passé à 500 millions d’euros, et exclusivement sur les soin

    #santé #CPAM #sans_dents

  • CNAM - dématérialisation et bunkérisation (déshumanisation) des administrations (reçu par mel)

    Ce mail fait écho avec deux anecdotes de la semaine dernière : une patiente hospitalisée pour laquelle a été sollicitée à la CNAV une demande d’aide au retour à domicile après hospitalisation, dont la réponse est censée être rapide...
    Comme ça fait un mois qu’on a envoyé le cerfa et que rien ne se passe, j’appelle le 3960, j’entre le NIR, appuie sur la touche 5 : « informations sur des aides concernant le maintien à domicile » et après 3 secondes de musique : « l’assurance retraite vous remercie de votre appel. Au revoir et à bientôt » et ça raccroche.
    Pensant que c’était un bug j’ai renouvelé l’opération : en vain, ça raccroche.

    Pour aune autre personne, j’appelle cette fois le la CPAM au 3646 : mais tous les conseillers sont occupés, je suis invitée à aller sur le site améli. Ca tombe bien Madame a un compte et elle connaît même son mot de passe. On voudrait un RDV parce que je ne connais pas le cas de figure que Madame me présente et il me semble qu’elle sera mieux guidée par un conseiller de la sécu. Sur améli, je peux choisir dans quelle antenne je veux être reçue (il y en a une dizaine et Madame a le choix, top !). On choisit Bobigny avec 3 jours de plage pour la semaine suivante « indisponibles », on clique sur la suivante : les 3 autres plages sont aussi indisponibles, on clique et on clique et on clique jusqu’à ne plus pouvoir cliquer. Toutes les plages sont occupées...
    J’essaie de passer par le robot qui vous propose d’écrire votre question et je trouve le chemin pour avoir un RDV téléphonique mais je dois choisir dans un menu déroulant le motif de ma demande et on m’avertit que si ma question est sur un autre sujet, le conseiller ne me répondra pas. Sauf que la situation ne Madame ne rentre dans aucune case...
    Il nous reste le bon vieux courrier postal...

    les vigiles qui interdisent d’entrer à la CPAM sans rendez-vous, l’attente téléphonique qui débouche sur un « merci d’avoir appelé », l’item « prendre rdv » bien caché qui n’admet qu’une liste très fermée de motifs, c’est exactement comme ça.

    #CPAM #CNAM #dématérialisation #accès_aux_soins

    • Lorsque mon époux est décédé, il était en arrêt maladie ALD cancer... J’ai eu besoin de papier de la CPAM ! Mais mais lorsque tu décèdes, abracadabra aussi sec ton compte Ameli devient inaccessible ! Pour prendre un rdv j’ai dû mentir et cocher n’importe quoi ! Devant la personne j’ai expliqué le jour du RDV ! Elle ne pouvait pas accéder au compte bloqué !!! C’est sa direction qui a pu le faire . La dame était hyper gentille. Moi, j’étais au bout de ma vie...C’est pas facile...

    • ces dark patterns prolongent une politique de rapine où le courrier postal comme la démarche au guichet débouchent eux-aussi sur des impasses (souvent illégales, mais difficilement contestables). je me débat avec la Cnam qui a prélevé mon compte des mois pour une CSS à laquelle j’avais droit à titre gratuit (la CAF communique automatiquement l’entrée au RSA socle de ses allocataires, situation qui ouvre droit à la CSS sans frais). mes multiples réclamations en ligne ont donné lieu à des réponses dilatoires ("faites une demande de CSS", alors que je l’avais déjà, ce qui rendait la démarche demandé impossible sur le site !) ; au guichet on m’a dit qu’on y pouvait rien sans me répondre sur le fond, écarté de l’échange malgré mon insistance, qu’il fallait écrire. en réponse à un courrier on m’a à nouveau proposé de faire une demande de CSS que j’avais déjà, là aussi sans dire un mot des prélèvements indus (ne pas fabriquer de nouvelles preuves contre l’administration). j’attends donc des nouvelles du « médiateur » de la CPAM (pour un autre litige, celui de la Sncf, s’était contenté d’annuler la majoration d’une amende indue et non l’amende elle-même : on m’avait vendu au guichet un aller/retour avec deux trajets datés du même jour, impossible à effectuer vu les horaires, ce que j’ai découvert lors du contrôle, au retour...). le médiateur va-t-il conclure au tort partagé en proposant de limiter le remboursement à une moitié de la somme en jeu ? Inutile de préciser que chaque démarche, c’est du taf (décrire les faits, fournir toutes les pièces justifiant l’argument). entamer une procédure, permettrait sans doute d’être remboursé juste avant audience. les administrations (préfecture, caf, Policemploi, cnam) ont le chic pour éviter les condamnations.
      pour ne pas s’assoir sur les 200 balles concernées, il faut vraiment en vouloir et ne pas compter ses heures.

    • Je regrette de ne pas avoir de mot en français pour désigner ce sujet d’actualité. A l’époque où on te dit que l’accessibilité n’est pas superflue, constater combien certaines fonctionnalités sont bâties en dépit du bon sens, au point parfois d’en arriver à vouloir sacrifier des bébés phoques (désolé, j’ai parfois de mauvaises pensées...).

      L’autre fois, c’était pour retrouver un identifiant sur un site de je ne sais plus quel fournisseur. Un assureur je crois. Où la procédure se termine par l’envoi d’un SMS non identifié contenant un lien bit.ly. Un lien court bit.ly à l’époque où tu sais qu’une simple URL malveillante peut provoquer des installations non désirées sur ton smartphone...

      Donc, dark patterns, c’est chouette. A la fois pour désigner la mé-conception, mais surtout pour désigner la mauvaise volonté manifeste de rendre le service attendu accessible facilement. Cette mauvaise volonté peut parfois être involontaire, par absence de compétence. Mais d’autres fois, elle peut aussi être le signe d’une volonté retorse de ne pas rendre le service. Parce qu’il y a parfois, chez les concepteurs la croyance que les utilisateurs sont des veaux qu’il faut dompter.

    • Ts, ts, ts  : les dev font ce que le chef de projet « interaction du public » ou autre leur demande. En fonction de ce qu’il sait et de ce qu’on lui demande. Donc de la merde.

      La Sécu est injoignable, c’est un fait et c’est à mon sens délibéré.
      On est au moins 12% à ne plus avoir accès à un médecin traitant, donc au parcours de soin, mais tu vois, ce n’est un item nulle part.
      Comme ça, tu ne peux manifester ton besoin nulle part, donc tu n’es pas enregistré·e dans la machine et donc ton problème n’existe pas parce qu’il n’est pas mesuré.

      Ma banque en ligne permettait la saisie libre de l’objet de la demande, maintenant, plus du tout.
      C’est bien un choix.

      Celui de ne s’occuper que des cas fluides qui cochent toutes les cases et ne font pas perdre de temps.

  • [La Juriclik] Tout ce que vous avez toujours voulu savoir sur le système de #sécurité_sociale en #belgique
    https://www.radiopanik.org/emissions/la-juriclik/tout-ce-que-vous-avez-toujours-voulu-savoir-sur-le-systeme-de-securite-s

    Au sommaire de cette émission du mois de mars :

    La Belgique possède un des systèmes de sécurité sociale les plus forts en Europe. Et, lorsqu’on grandit au sein de ce système, ce n’est pas toujours facile de réellement prendre la mesure de ce qu’il représente. Il est d’ailleurs de plus en plus souvent remis en question, que ce soit par les politiques ou les citoyens.

    On a donc décidé de prendre un peu de recul et d’expliquer dans les détails à quoi sert notre système de sécu et comment il fonctionne.

    → La sécurité sociale, qu’est-ce que c’est ? La notion de solidarité Les 3 missions de la sécurité sociale Les 4 régimes Les 7 branches qui constituent la sécurité sociale Le principe de #financement

    → Le système des #allocations_familiales

    → Le #chômage

    → Les soins de santé

    → Les (...)

    #citoyenneté #santé #bruxelles #impôts #société #solidarité #cpas #pensions #cotisations_sociales #état_belge #congés_payés #soins_de_santé #vacances_annuelles #aide_sociale #société_belge #aide #rôle_de_l'état #citoyenneté,santé,bruxelles,belgique,chômage,impôts,société,solidarité,cpas,pensions,financement,allocations_familiales,cotisations_sociales,état_belge,congés_payés,soins_de_santé,vacances_annuelles,sécurité_sociale,aide_sociale,société_belge,aide,rôle_de_l’état
    https://www.radiopanik.org/media/sounds/la-juriclik/tout-ce-que-vous-avez-toujours-voulu-savoir-sur-le-systeme-de-securite-s

  • Luigi, le premier, est parti...

    Cette exposition inédite, produite par Le Cpa autour du #film_d’animation #Interdit_aux_chiens_et_aux_Italiens_ , retrace sur près d’un siècle l’histoire sociale des Italiens ayant quitté leur pays pour s’installer en France. Portée par un récit familial, elle met en lumière les difficultés rencontrées pour reconstruire un foyer en #exil et questionne la transmission de cette #mémoire.

    Histoires et mémoires d’Italiens en migration

    En l’espace d’un siècle, quelque 25 millions d’Italiens ont quitté la péninsule pour s’établir en Europe, en Amérique ou en Australie. Essaimant aux quatre coins du monde, ils ont emporté avec eux la culture de leur pays, leurs rêves et leurs espoirs, leur volonté de réussir sur une terre nouvelle. S’appuyant sur l’œuvre de fiction d’#Alain_Ughetto, _Interdit aux chiens et aux Italiens et sur de nombreuses archives régionales, elle constitue un #récit incarné de ces migrations, du massif des Alpes jusqu’à la vallée du Rhône. En creux, elle sonde également l’imaginaire véhiculé par ces Italiens en exil en France.

    Zoom sur : le film d’Alain Ughetto

    Entre le récit biographique et l’œuvre de fiction, ce film d’animation réalisé à Beaumont-lès-Valence en #stop_motion raconte les pérégrinations d’une famille piémontaise à travers les #Alpes. Luigi, le grand-père du réalisateur, et Cesira, la grand-mère, en sont les personnages principaux. Cette famille au destin romanesque traverse plusieurs #frontières, affronte deux guerres, la misère et le fascisme, à cheval entre l’Italie et la France. Leurs descendants posent leurs valises au bord du Rhône et, comme bien d’autres, se passionnent pour le Tour de France en vibrant au son de l’accordéon.

    L’exposition, construite autour de ce film, navigue entre l’histoire de cette famille et la grande histoire, tout en faisant la part belle à l’univers artistique d’Alain Ughetto.

    https://www.youtube.com/watch?v=QdQO3oo0nPg&feature=youtu.be

    https://www.le-cpa.com/expositions-1/expos-du-moment/luigi-le-premier-est-parti
    #immigration #France #migrants_italiens #Italie #frontière #exposition #immigration_italienne

    #Valence #CPA #Centre_du_patrimoine_arménien

  • Le syndrome de l’empilement - Icem7
    https://www.icem7.fr/pedagogie/le-syndrome-de-l-empilement

    avant

    Les graphiques en barres empilées sont notoirement peu lisibles, la presse le sait et les évite. Des alternatives plus efficaces existent. Nous les rencontrons pourtant partout dans la production institutionnelle : pas une étude statistique, pas un rapport d’activité où l’on ne subisse ces guirlandes de bâtons multicolores[1], leurs légendes extensibles et leurs inévitables aides au déchiffrage.

    Prenons deux exemples publiés la semaine dernière : à chaque fois la matière est intéressante, mais le traitement graphique la dessert.

    après…

    • attention, ces considérations sur les choix de #représentation_graphique pourrait faire oublier la #CSS, qui contrairement à la #CMU-C à laquelle elle a succédé, est devenue payante pour nombre de fauchés, une attaque réussie contre l’#accès_aux_soins. le doc de la Dress porte sur des données de 2017. on nous donne encore à voir les mythiques « classes moyennes »...

      https://www.youtube.com/watch?v=q5tZq_8UZUM

      #ACS #santé_publique #soins

    • la Cpam n’aime pas que l’on dise CSS et préfère C2S... pas trop envie de cet acronyme postmoderne bienveillant, faudrait malgré la paresse et le temps qui presse écrire #Complémentaire_solidarité_santé ? je ne sais pas

      j’ai découvert la chose alors que j’étais chômeur indemnisé : 25 euros par mois pour une complémentaire santé. puis les prélèvements ont continué alors que j’étais passé au RSA, alors même que la CSS était coupée ! (j’ai retardé des examens et soins et dû payer une part pour quelques médocs) ce que j’ai découvert... en allant en pharmacie avec une ordonnance pour laquelle je ne me suis pas fait délivrer la prescription. j’ai donc payé 4 mois alors que j’étais au RSA, puis 4 mois (100 balles) pour une CSS que je n’avais pas, puis j’ai réussi à faire rétablir la CSS et je continue à casquer.
      Après moultes démarches, le plus fun étant l’appel à la #CPAM, dont les items du site ne sont pas destinés à traiter de tels cas. Il m’aura fallut renouveler cet appels un grand nombre de fois avant d’obtenir un interlocuteur, en subissant à chaque fois de longues minutes d’attente avant de m’’entendre dire "nos services sont surchargés, merci de rappeler plus tard" , Puis un jour, on me répond sur un ton dégoulinant de bonne conscience que la situation a été "rétablie administrativement" (sic aie !). ainsi ais-je rétroactivement droit à la CCS pour les mois où je ne l’avais pas, youpi ! l’administration a fait son ménage, tout est propre, ok. et la barrière à l’accès aux soins durant 6 mois passe à la trappe. on me dit aussi que les prélèvement vont continuer puisque ils sont calculés sur l’année antérieure à l’ouverture de droits, une année ou figurent 9 mois d’un maigre chômage et 3 d’un plantureux RSA. des 526 euros de RSA, 25 sont donc mensuellement déduit. Byzance. tout ça en rencontrant bien des difficultés avec divers praticiens (dentiste, généraliste, ophtalmos) en raison de ce « statut ». les toubibs sont d’ailleurs directement incités à résister à la demande des pauvres : ils mettent parfois des mois à récupérer le fric de cette complémentaire, spécialement quand les ayant droit ne choisissent pas à ce titre la CPAM mais une mutuelle ou assurance privée, et ça engage du temps de secrétariat (au point que certains s’en abstiennent).

      #accès_aux_soins

    • être pauvre, c’est se faire carotter par les institutions sociales, suite. il fallait bien que je vérifie... on me fait payer 25€/mois de CSS alors que depuis avril je dépend du RSA, qui ouvre droit à la CSS gratuite

      Si vous percevez le revenu de solidarité active (RSA), vous avez droit, ainsi que les membres de votre foyer, à la complémentaire santé solidaire (C2S) gratuite, sans participation financière.

      https://www.service-public.fr/particuliers/actualites/A15651

      sorry @simplicissimus d’avoir embrayé ainsi sur les question de représentation graphique des #statistiques que tu indiquais. comme tu sais, sous les stats, il se passe des choses que celles-ci appréhendent mal ou pas du tout, sauf taff spécifique, dont se gardent bien les donneurs d’ordre dès lors que cela ne les sert pas.

  • Plus de 90.000 euros d’aides à l’installation pour passer d’un désert à l’autre : un couple de médecins créé la polémique | egora.fr
    https://www.egora.fr/actus-pro/demographie-medicale/72962-plus-de-90000-euros-d-aides-a-l-installation-pour-passer-d-un

    Un couple de médecins généralistes qui était installé dans un village de la Sarthe a fermé son cabinet pour en ouvrir un autre dans la Manche, empochant au passage 93 000 euros d’aides à l’installation de la CPAM.

    La maire de Fresnay-sur-Sarthe ne décolère pas. Si Fabienne Labrette-Ménager avait été prévenue du du départ de deux des quatre médecins généralistes de la commune (2.900 habitants), prévu le 15 décembre 2021, par le biais d’une affiche apposée au cabinet, elle s’imaginait que les deux praticiens sexagénaires "partaient en retraite" après 25 années de bons et loyaux services dans le village. "Je savais qu’ils avaient acheté une maison en Normandie", témoigne-t-elle dans les colonnes de Ouest France.

    Mais les deux généralistes sexagénaires avaient un tout autre projet en tête : celui de rouvrir un cabinet à Saint-Vaast-la-Hougue (1.712 habitants), un village de Manche, lui aussi situé dans une zone sous-dense.

    Ce qui fait polémique, c’est le montant des aides à l’installation versées par la CPAM de la Manche au couple : 93 750 euros. "Comment l’Etat peut-il accepter de verser 100.000 euros à des médecins qui ont déserté un territoire sous-doté pour s’installer deux mois après à une centaine de kilomètres", s’insurge sur Facebook la maire de Fresnay-sur-Sarthe, qui se trouve désormais démunie face aux "2.500 patients" qui se retrouvent désormais sans médecin traitant. "Je suis en colère car je me fais engueuler", lance-t-elle dans Ouest France.

    Le malheur des uns fait le bonheur des autres. Dans La Presse de la Manche, Gilbert Doucet, le maire de Saint-Vaast-la-Hougue, exprime quant à lui son soulagement de voir deux généralistes prêter main forte à l’unique médecin de la commune depuis février. "C’était presque inespéré. Quelques mois plus tôt, en août 2021, on risquait de se retrouver sans médecin dans la commune. L’un d’entre eux a pris sa retraite et le second hésitait à le faire. On était au pied du mur", témoigne-t-il. Quant aux aides perçues par le couple de nouveaux venus, il les juge nécessaire pour compenser leurs frais d’installation et le temps que prend la constitution d’une nouvelle patientèle.

    une belle et longue préretraite dorée donc...
    toujours pas réussi à piger comment un « médecins traitant » supposé participer à la coordination des soins peut comptabiliser 1000 à 2000 patients (et plus ?)

    #médecine #médecins #CPAM #déserts_médicaux

    • En médecine spécialisée c’est pire : dans la Sarthe justement, il y a aujourd’hui 1 dermatologue pour 70 000 habitants.
      Le nouveau protocole élaboré entre la CPAM Sarthe et les 6 dermatos prévoit que pour avoir un premier avis sur un naevus (grain de beauté) le patient rencontrera un·e infirmier·e qui réalisera des photos. L’avis du médecin (ou plutôt du logiciel d’I.A.) est rendu à partir des ces clichés. Le tout pour la modique somme de 45€ avec une prise en charge CPAM de... 0€.
      Elle est pas belle la vie rurale ?

  • Vous voulez savoir le jolie cadeau que la #CPAM m’as fait pour mes 2 ans de #Covid_long ? Popo @ThatsPauline_
    https://twitter.com/ThatsPauline_/status/1498414200858812417

    Arrêt de mon temps partiel thérapeutique à 70%, droits coupés. Soit je bosse à 100%, soit je suis en arrêt non indemnisé. Comment je paye mon loyer ? Ma nourriture ? Mon crédit voiture ?

    J’ai également appris que je n’avais jamais eu le Covid et que je n’étais pas Covid long. Puisque je n’ai pas pu avoir de #PCR en mars 2020 (rupture) ni #sérologie (inexistante). Donc 2 ans après voila. Et j’oubliais, rendre l’argent des indemnités. Joyeux Covidversaire.

    Là franchement je suis épuisée de ce combat administratif. De ce combat pour prouver que je suis malade, prouver mes symptômes. J’en peux plus des bâtons dans les roues sans cesse. Je n’ai plus de solution, plus d’idées, plus de force pour affronter tout ça.

    Je suis épuisée de cette vie, épuisée de la souffrance physique et maintenant psychologique. De cette maltraitance médicale. Comment on peut infliger ça à quelqu’un de malade ? C’est vrai que c’est un plaisir d’être malade et d’avoir sa vie à l’arrêt depuis 2 ans à 25 ans.

    Je ne souhaite à personne de vivre ça, c’est un calvaire. Je crois que cette fois je vais baissée les bras, j’en peux plus. J’ai plus la force de constamment me battre face à cette maladie, face aux médecins, face aux démarches administratives. ❤️‍🩹😢

    Synthèse scientifique en réponse à l’étude du JAMA Internal Medicine [qui a fourni la doctrine qui pose les covid long comme des pathologies autodéclarées et non démontrées] #ApresJ20 Covid Long France
    https://www.apresj20.fr/_files/ugd/9a4913_4a6c926e0fac497bb1ebc291dd1a4d63.pdf

    #covid-19

  • Covid-19 : face à la quatrième vague, les effets trop tardifs de l’accélération de la vaccination, selon l’Institut Pasteur

    L’immunisation d’une partie plus importante de la population sous la pression du passe sanitaire réduira le pic d’hospitalisations mais ne devrait pas suffire à éviter « un encombrement important à l’hôpital », d’après les dernières modélisations de l’équipe de Simon Cauchemez.

    L’accélération de la vaccination suffira-t-elle à contrer la quatrième vague ? Sans doute pas, selon les dernières modélisations de l’Institut Pasteur, mises en lignes mardi 27 juillet https://modelisation-covid19.pasteur.fr/realtime-analysis/delta-variant-dynamic. Selon ces calculs, l’immunisation d’une partie plus importante de la population sous la pression du passe sanitaire réduira la taille du pic d’hospitalisations, mais sans autres mesures, il pourrait bien être aussi haut que celui de la deuxième, voire de la première vague. « Si on reste sur une dynamique avec un taux de transmission égal à 2 [ce qui signifie que chaque individu infecté contamine en moyenne deux personnes], cela pourrait conduire à un encombrement important à l’hôpital », souligne le chercheur Simon Cauchemez, par ailleurs membre du #conseil_scientifique.

    Si, fin mai, lorsque le variant Delta n’était encore qu’une menace incertaine, le modélisateur espérait un « été tranquille », ses scénarios sont désormais bien plus pessimistes. Dans l’hypothèse où la vaccination atteindrait, en rythme de croisière, 700 000 injections par jour, et où la part des Français souhaitant se faire vacciner serait de 70 % chez les 12-17 ans, 90 % parmi les 18-59 ans et 95 % chez les plus de 60 ans, jusqu’à 2 500 hospitalisations quotidiennes sont attendues au pic, soit un niveau proche de celui de la deuxième vague, en novembre 2020. C’est moins que ce qui était anticipé le 9 juillet, avant l’annonce de la mise en place du passe sanitaire – jusqu’à 4 800 hospitalisations par jour, soit bien au-delà des 3 600 hospitalisations observées au pic de la première vague, en avril 2020 –, mais bien trop pour éviter que les hôpitaux ne débordent de nouveau.

    INFOGRAPHIE LE MONDE

    Le nombre de lits de soins critiques occupés au pic pourrait atteindre 5 400, voire 7 200, si les durées moyennes de séjour sont plus longues (quinze jours contre dix), c’est-à-dire les niveaux atteints lors des deux premières vagues épidémiques. « Une réduction du taux de transmission grâce à des mesures non pharmaceutiques reste donc importante pour limiter l’impact de la vague sur le système hospitalier », insistent les auteurs de ces projections, en précisant que « même de petites réductions peuvent avoir un impact important ». En abaissant le taux de transmission de 10 %, le nombre d’hospitalisations au pic ne serait plus « que » de 1 800, et de 1 200 avec une réduction de 25 %.

    INFOGRAPHIE LE MONDE

    « A la croisée des chemins »

    Le passe sanitaire y parviendra-t-il ? « Son effet est difficile à anticiper. Tout dépend de sa mise en œuvre », indique Simon Cauchemez, en rappelant que du point de vue du contrôle de l’épidémie, des mesures appliquées à l’ensemble de la population n’ont pas davantage d’intérêt que des mesures ciblant seulement les personnes non vaccinées. « Auparavant, on n’avait pas d’autre choix que de fermer un lieu où le risque de contamination est élevé. Maintenant, on peut le laisser ouvert pour les personnes qui contribuent peu à la transmission », précise le modélisateur, citant une étude sur l’épidémiologie du SARS-CoV-2 dans une population partiellement vaccinée.

    « On est à la croisée des chemins. Le fait qu’on soit passé de 2 000 à 20 000 [cas positifs par jour] en très peu de temps est un signal très inquiétant. Il va falloir suivre la situation de très près dans les jours et les semaines qui viennent pour voir si on réussit à casser cette dynamique », explique le modélisateur. A différentes reprises déjà, l’épidémie a pu suivre une trajectoire imprévue – du fait de la météo ou encore des vacances. « Dans le passé, on a vu des ralentissements ou des accélérations de l’épidémie sans pouvoir les expliquer. Il y a le virus, mais aussi l’ajustement du comportement des gens, indépendamment des mesures prises par les autorités », souligne-t-il. Depuis quelques jours, la courbe s’est ainsi infléchie dans plusieurs pays, comme au Royaume-Uni, sans explication claire – mais les Anglais totalement vaccinés étant bien plus nombreux que les Français, toute comparaison est hasardeuse. [ainsi 100 % des personnes de plus de 80 ans y sont vaccinées, un facteur décisif pour la part des décès, ndc]

    Alors que des départements envisagent de réinstaurer un couvre-feu et que le port du masque est redevenu obligatoire en extérieur dans 22 d’entre eux, une étude mise en ligne mi-juillet par une équipe de modélisateurs de l’université de Bordeaux https://www.medrxiv.org/content/10.1101/2021.07.09.21260259v3 précise l’impact qu’on peut en attendre. Grâce à différentes méthodes statistiques, les scientifiques sont parvenus à démêler les effets des différentes interventions. Selon leurs calculs, le premier confinement a réduit le taux de transmission de près de 80 %, le deuxième confinement, avec les écoles ouvertes et un assouplissement du télétravail, autour de 50 %, et les différents couvre-feux, autour de 30 %, sans grande différence suivant qu’il démarre à 18 heures ou à 20 heures. La fermeture des écoles n’aurait, en revanche, contribué qu’à une diminution de 7 %.

    « Un phénomène d’usure des mesures »

    Ces calculs ne permettent cependant pas de comprendre la « mécanique » à l’œuvre derrière chacune des interventions. « Quelles que soient les raisons pour lesquelles ça marche, mettre en place un couvre-feu, ça marche ! », résume Rodolphe Thiébaut, coauteur de l’étude, en admettant avoir été surpris par ce résultat, qui contredit d’autres estimations basées, par exemple, sur le niveau de mobilité des Français pendant cette période. « Les mesures ont aussi un effet de signal pour la population », souligne le modélisateur, selon qui ces résultats ne sont pas transposables au contexte actuel.

    « Il y a un phénomène d’usure des mesures, donc l’efficacité qui a pu être constatée n’est plus la même au bout d’un certain temps », explique Pascal Crépey, épidémiologiste à l’Ecole des hautes études en santé publique (EHESP), citant les travaux de la modélisatrice Vittoria Colizza sur la « fatigue pandémique ». « Il peut être trompeur de lier une réduction du taux de transmission à une mesure, car ce pourcentage est malheureusement amené à baisser. Plus une mesure s’applique longtemps, moins elle est efficace », précise-t-il.

    L’effet du climat serait par contre très significatif puisque, selon les calculs de l’équipe de Bordeaux, il serait à l’origine d’une baisse de plus de 20 % de la circulation du virus en été et d’une augmentation de 10 % l’hiver. S’il se confirme, cela pourrait contribuer à décaler l’épidémie dans le temps, mais dans ce cas, « il faut s’attendre à une augmentation de la transmission du variant Delta de 30 % à l’arrivée de l’hiver », souligne Pascal Crépey, en rappelant que d’autres facteurs « non identifiés par le passé » peuvent aussi avoir un impact sur la dynamique à venir du variant. « Pour l’instant, ça va, mais on n’est pas sortis d’affaire », résume-t-il, en rappelant que les vaccinations qui ont lieu aujourd’hui n’auront pas d’effet avant le mois de septembre. « Les gens qui seront hospitalisés au 15 août ont été infectés aujourd’hui. Le tracé des courbes est déjà écrit et va se dévoiler dans les jours à venir. »

    https://www.lemonde.fr/planete/article/2021/07/28/covid-19-face-a-la-quatrieme-vague-les-effets-trop-tardifs-de-l-acceleration

    #covid-19 #hospitalisations

  • Hydroxychloroquine : « Si on m’avait prévenu du tarif de l’hospitalisation, je n’y serais même pas allé »
    https://www.liberation.fr/societe/sante/hydroxychloroquine-si-on-mavait-prevenu-du-tarif-de-lhospitalisation-je-n

    Des malades du Covid ont découvert stupéfaits les factures de leurs passages à l’IHU de Marseille. « Libération » a enquêté sur le recours massif aux hospitalisations de jour au sein de l’AP-HM en 2020, représentant un coût important pour la Sécurité sociale. Chiffres qui interrogent sur les liens avec les études menées par Didier Raoult sur l’efficacité de sa molécule fétiche.

    (...) il reçoit, courant novembre, la facture de ses passages, soit une note de quelques dizaines d’euros pour sa première visite, puis une facture de 1 264 euros pour chacune de ses trois autres visites, soit 3 800 euros au total… « J’ai immédiatement appelé la comptabilité. La dame au bout du fil, au service litiges adultes soins externes de la Timone [géré par l’Assistance Publique-Hôpitaux de Marseille, ndlr], avait l’air très gênée. Elle m’a expliqué que je n’avais pas à payer l’intégralité, mais seulement la part mutuelle, soit quand même 758 euros ! « Si vous avez une mutuelle, c’est totalement pris en charge », m’a-t-elle dit, pour tenter de me rassurer. Mais j’étais quand même très étonné. A aucun moment, on ne m’avait dit que ça coûterait des sommes pareilles. La dame au bout du fil a soupiré et m’a dit : « Oui, je comprends, monsieur. Vous n’êtes pas le seul… nous recevons beaucoup d’appels. » » Depuis, la mutuelle de Claude a pris la somme en charge.

    Florian (1) a 33 ans. Mi-octobre 2020, lorsque sa compagne présente un syndrome grippal, il l’accompagne se faire tester à l’IHU avec ses enfants de 7 et 10 ans. « Il y avait une très longue file d’attente de gens debout, patientant masqués dans les couloirs. Le lendemain, nous avons eu les résultats, nous étions trois positifs sur quatre. Retour à l’IHU, consultation, bilan sanguin, électrocardiogramme. Ça a pris trois bonnes heures, et on est ressortis avec une ordonnance d’hydroxychloroquine. » Ils y retournent à trois reprises, pour le même type d’examens. Florian reprend : « Franchement, je n’ai pas d’avis sur l’hydroxychloroquine, je ne suis pas médecin. Quand ma compagne l’a pris, son état a empiré. Mais ce qui m’hallucine, c’est le coût. » Il a reçu la facture en janvier.

    « On nous parle d’hospitalisation de jour, mais en fait la prise en charge dure dix minutes pour faire les prises de sang, trois minutes trente pour l’électrocardiogramme, et cinq minutes la consultation pour la délivrance de l’hydroxychloroquine, et voilà… Le reste, ce n’est que de l’attente dans les couloirs. »

    [...]
    A l’Assistance publique-Hôpitaux de Marseille, on observe un bond de 47 à… 23 095 (hospitalisations de jour) en 2020. Un chiffre qui représente 40,8 % des hospitalisations de très court séjour pour ces pathologies sur la France.

    Edit ça a pris des mois (et Lehman) pour que ce soit publié
    https://seenthis.net/messages/897633

    #IHU #AP-HM #escroquerie #CPAM #Sécu

    • Coronavirus à Marseille : Quand l’IHU de Didier Raoult facture 1.264 euros une visite
      https://www.20minutes.fr/societe/2996211-20210311-coronavirus-marseille-quand-ihu-didier-raoult-facture-126

      Selon le quotidien Libération, qui a enquêté sur le recours massif aux hospitalisations de jour au sein de l’AP-HM en 2020, des malades du Covid 19 ont découvert stupéfaits les factures de leurs passages à l’IHU de Marseille. Plusieurs témoignages font état d’un montant de 1.264 euros facturé pour chacun de leur passage à l’IHU. Or, les patients en question sont venus à trois reprises pour, à chaque fois, une consultation, un bilan sanguin et un électrocardiogramme. Leur facture finale s’élève ainsi à 3 800 euros.

      « On nous parle maintenant d’hospitalisation de jour, mais en fait la prise en charge dure dix minutes pour faire les prises de sang, trois minutes trente pour faire l’électrocardiogramme, et cinq minutes la consultation pour la délivrance de l’hydroxychloroquine, et voilà… Le reste, ce n’est que de l’attente dans les couloirs », raconte par exemple un patient

      En effet, Libération montre que ces passages ont été facturés en hospitalisation de jour (HDJ). « Chaque hôpital a un service d’HDJ, qui permet de regrouper pour un même patient une batterie d’examens dans un temps assez court, rappelle le quotidien. Pour le patient, c’est un gain de temps ; pour la collectivité, c’est l’assurance de ne pas occuper un lit d’hôpital pendant plusieurs jours. Plutôt que de facturer chaque examen séparément, l’hôpital réclame alors son dû au patient au titre d’une hospitalisation de jour. »

      Sauf que, à lire Libération, le patient doit tout de même être hospitalisé, autrement dit bénéficier d’une chambre, d’un lit, d’une collation le midi, ce qui n’a pas été le cas pour les témoignages recueillis.

    • Pour le fun, remarquer qu’ils ont réussi à faire encore plus cher que le Remdesivir, qu’ils ont pourtant utilisé comme figure emblématique des excès de big Pharma…

      Covid-19 : Gilead fixe le prix du remdesivir
      https://www.industriepharma.fr/covid-19-gilead-fixe-le-prix-du-remdesivir,111716

      Alors que le remdisivir est à ce jour le seul traitement approuvé par la FDA contre le Covid-19, le laboratoire américain Gilead qui développe cet antiviral vient de trancher dans le débat sur son prix. Le laboratoire a ainsi fixé le prix du remdesivir à 390 $ par flacon dans les pays développés, portant le prix total d’un traitement avec l’antiviral – traitement de 5 jours avec 6 flacons - à 2 340 $ (2 085 €) par patient.

  • What is a Concentration Camp ?

    ‘Concentration camps’ are difficult to define. Even the survivors of the most notorious and universally recognised camps in history discovered this problem in the aftermath of the Second World War.

    https://www.historytoday.com/miscellanies/what-concentration-camp
    #camps #camps_de_concentration #définition #CPA_camps #histoire #WWII #deuxième_guerre_mondiale #seconde_guerre_mondiale

  • Der Führer schenkt den Juden eine Stadt (Le Führer offre une ville aux Juifs)


    Sources : United States Holocaust Memorial Museum, Ivan Vojtech Fric, https://collections.ushmm.org/search/catalog/pa1144024 et https://collections.ushmm.org/search/catalog/pa1144026
    Ce film nazi de 1944/45 a été tourné à Theresienstadt, le camp de concentration de Terezín en Tchécoslovaquie annexée, après qu’il eut été transformé artificiellement en camp de travail modèle le temps de la visite de la Croix Rouge.
    Une autre forme de l’horreur.
    Quelques fragments ont été conservés, dont, ici, un exemple sonore : https://archive.org/details/TheresienstadtDerFhrerSchenktDenJudenEineStadtFilm

    Des infos : https://fr.wikipedia.org/wiki/Theresienstadt_(film)
    #shoah #Theresienstadt #camp_de_concentration #propagande #film #national-socialisme

  • UNHCR shocked at death of Afghan boy on #Lesvos; urges transfer of unaccompanied children to safe shelters

    UNHCR, the UN Refugee Agency, is deeply saddened by news that a 15-year-old Afghan boy was killed and two other teenage boys injured after a fight broke out last night at the Moria reception centre on the Greek island of Lesvos. Despite the prompt actions by authorities and medical personnel, the boy was pronounced dead at Vostaneio Hospital in Mytilene, the main port town on Lesvos. The two other boys were admitted at the hospital where one required life-saving surgery. A fourth teenager, also from Afghanistan, was arrested by police in connection with the violence.

    The safe area at the Moria Reception and Identification Centre, RIC, hosts nearly 70 unaccompanied children, but more than 500 other boys and girls are staying in various parts of the overcrowded facility without a guardian and exposed to exploitation and abuse. Some of them are accommodated with unknown adults.

    “I was shocked to hear about the boy’s death”, said UNHCR Representative in Greece, Philippe Leclerc. “Moria is not the place for children who are alone and have faced profound trauma from events at home and the hardship of their flight. They need special care in dedicated shelters. The Greek government must take urgent measures to ensure that these children are transferred to a safe place and to end the overcrowding we see on Lesvos and other islands,” he said, adding that UNHCR stands ready to support by all means necessary.

    Frustration and tensions can easily boil over in Moria RIC which now hosts over 8,500 refugees and migrants – four times its capacity. Access to services such as health and psychological support are limited while security is woefully insufficient for the number of people. Unaccompanied children especially can face unsafe conditions for months while waiting for an authorized transfer to appropriate shelter. Their prolonged stay in such difficult conditions further affects their psychology and well-being.

    Nearly 2,000 refugees and migrants arrived by sea to Greece between 12 and 18 August, bringing the number of entries this year to 21,947. Some 22,700 people, including nearly 1,000 unaccompanied and separated children, are now staying on the Greek Aegean islands, the highest number in three years.

    https://www.unhcr.org/gr/en/12705-unhcr-shocked-at-death-of-afghan-boy-on-lesvos-urges-transfer-of-unacco

    #MNA #mineurs #enfants #enfance #Moria #décès #mort #asile #migrations #réfugiés #Grèce #camps_de_réfugiés #Lesbos #bagarre #dispute #surpopulation

    • Cet article du HCR, m’a fait pensé à la #forme_camps telle qu’elle est illustrée dans l’article... j’ai partagé cette réflexion avec mes collègues du comité scientifique du Centre du patrimoine arménien de Valence.

      Je la reproduis ici :

      Je vous avais parlé du film documentaire « #Refugistan » (https://seenthis.net/messages/502311), que beaucoup d’entre vous ont vu.

      Je vous disais, lors de la dernière réunion, qu’une des choses qui m’avait le plus frappé dans ce film, c’est ce rapprochement géographique du « camp de réfugié tel que l’on se l’imagine avec des #tentes blanches avec estampillons HCR »... cet #idéal-type de #camp on le voit dans le film avant tout en Afrique centrale, puis dans les pays d’Afrique du Nord et puis, à la fin... en Macédoine. Chez nous, donc.

      J’ai repensé à cela, ce matin, en voyant cette triste nouvelle annoncée par le HCR du décès d’un jeune dans le camps de Moria à Lesbos suite à une bagarre entre jeunes qui a lieu dans le camp.

      Regardez l’image qui accompagne l’article :

      Des tentes blanches avec l’estampillons « UNHCR »... en Grèce, encore plus proche, en Grèce, pays de l’Union européenne...

      Des pensées... que je voulais partager avec vous.

      #altérité #cpa_camps #altérisation

      ping @reka @isskein @karine4

    • Greek refugee camp unable to house new arrivals

      Authorities on the Greek island of Lesvos say they can’t house more newly arrived migrants at a perpetually overcrowded refugee camp that now is 400 percent overcapacity.

      Two officials told AP the Moria camp has a population of 12,000 and no way to accommodate additional occupants.

      The officials say newcomers are sleeping in the open or in tents outside the camp, which was built to hold 3,000 refugees.

      Some were taken to a small transit camp run by the United Nations’ refugee agency on the north coast of Lesvos.

      The island authorities said at least 410 migrants coming in boats from Turkey reached Lesvos on Friday.

      The officials asked not to be identified pending official announcements about the camp.

      http://www.ekathimerini.com/244771/article/ekathimerini/news/greek-refugee-camp-unable-to-house-new-arrivals

  • Watching the clothes dry: How life in Greece’s refugee camps is changing family roles and expectations

    On the Greek Islands where refugees face long waiting times and a lack of adequate facilities, women are being pushed to the margins of camp society as children are deprived of education and safe places to play. While governments and the EU fail to provide satisfactory support, and NGOs fight to fill the gaps, how can we stop a generation of women and girls with high hopes of independence and careers from being forced back into domestic roles?

    “The days here are as long as a year.

    “In the camp I have to wash my clothes and dishes with cold water in the cold winter, and I have to watch my clothes dry because I lost almost all of my dresses and clothes after hanging them up.

    “As a woman I have to do these jobs – I mean because I am supposed to do them.”

    The boredom and hopelessness that Mariam* describes are, by now, common threads running through the messy, tragic tapestry of stories from the so called “migrant crisis” in Greece.

    Mariam is from Afghanistan, and had been studying business at university in Kabul, before increasing violence and threats from the Taliban meant that she was forced to flee the country with her husband. Soon after I met her, I began to notice that life in camp was throwing two distinct concepts of herself into conflict: one, as a young woman, ambitious to study and start a career, and the other, as a female asylum seeker in a camp with appallingly few facilities, and little freedom.

    While Mariam felt driven to continue her studies and love of reading, she could not escape the daily domestic chores in camp, a burden placed particularly on her because of her gender. I was familiar with Mariam the student: while managing the Alpha Centre, an activity centre run by Samos Volunteers, I would often come across Mariam sitting in a quiet spot, her head bent over a book for hours, or sitting diligently in language classes.

    The other side of her was one I rarely saw, but it was a life which dominated Mariam’s camp existence: hours and hours of her days spent cooking, cleaning, mending clothes, queuing for food, washing dishes, washing clothes, watching them dry.
    Women as caregivers

    Mariam’s experience of boredom and hardship in the camp on Samos is, unfortunately, not uncommon for any person living in the overcrowded and squalid facilities on the Greek islands.

    Many, many reports have been made, by newspapers, by Human Rights organisations such as Amnesty International, and NGOs such as Medécins Sans Frontières (MSF). All of them speak, to varying degrees, of the crushing boredom and despair faced by asylum-seekers in Greece, the dreadful conditions and lack of resources, and the mental health implications of living in such a situation. MSF describes the suffering on the Aegean islands as being on an “overwhelming scale.”

    While these issues apply indiscriminately to anyone enduring life in the island camps – and this undoubtedly includes men – there have been reports highlighting the particular hardships that women such as Mariam have to face while seeking asylum in Greece. In a 2018 report, “Uprooted women in Greece speak out,” Amnesty International comments on the additional pressures many women face in camp:

    The lack of facilities and the poor conditions in camps place a particularly heavy burden on women who often shoulder the majority of care responsibilities for children and other relatives. The psychological impact of prolonged stays in camps is profound. Women spoke of their anxiety, nightmares, lack of sleep and depression.

    The article recognises how much more likely women are than men to take on a caregiving role, an issue that is not unique to asylum-seeking populations. According to a report titled ‘Women’s Work’ released in 2016 by the Overseas Development Institute, women globally do on average over three times more unpaid work than men – work including childcare and domestic chores. This is across both ‘developed’ and ‘developing’ countries, and demonstrates inequality on a scale far beyond refugee and migrant populations.

    However, as Amnesty points out, it is not the perceived roles themselves which are the issue, but rather the glaring lack of facilities in camps – such as lack of food, ‘horrific’ sanitary conditions, and poor or non-existent washing facilities, as well as significant lack of access to education for children, and waiting times of up to two years. All of these factors exacerbate the gender divides which may or may not have been prevalent in the first place.

    The expectation for women to be primary caregivers was something I particularly noticed when running women’s activities on Samos. There was a stark difference between the daily classes – which would fill up with men attending alone, as agents distinct from their families in camp – and the women-only sessions, where accompanying children were almost always expected, and had to be considered in every session plan.

    The particular burden that I noticed so starkly in Mariam and many other women, was a constant battle to not be pushed to the margins of a society, which she desperately wanted to participate in, but had no opportunity to do so.

    Beyond lack of opportunities, many women speak of their great fear for themselves and their children in camp. Not only does a lack of facilities make life harder for people on the move, it also makes it incredibly dangerous in many ways, putting the most vulnerable at a severe disadvantage. This issue is particularly grave on Samos, where the camp only has one official doctor, one toilet per 70 people, and a gross lack of women-only bathrooms. This, alongside a volatile and violent environment – which is particularly dangerous at night – culminates in a widespread, and well-founded fear of violence.

    In an interview with Humans of Samos, Sawsan, a young woman from Syria, tells of the agonising kidney stones she experienced but was unable to treat, for fear of going to the toilet at night. “The doctor told me you need to drink a lot of water, but I can’t drink a lot of water, I am afraid to go outside in the night, is very dangerous,” she explained to my colleague.

    As Amnesty International reported last year, “women’s rights are being violated on a daily basis” in the Greek island hotspots. Their report features a list of ten demands from refugee women in Greece, including “full access to services,” “safe female only spaces,” and “livelihood opportunities.” All of these demands not only demonstrate a clear lack of such services currently, but also a real need and desire for the means to change their lives, as expressed by the women themselves.

    I remember the effect of this environment on Mariam, and the intense frustration she expressed at being forced to live an existence that she had not chosen. I have a vivid memory of sitting with her on a quiet afternoon in the centre: she was showing me photos on her phone of her and her friends at university in in Kabul. The photos were relatively recent but seemed another world away. I remember her looking up from the phone and telling me wearily, “life is so unexpected.”

    I remember her showing me the calluses on her hands, earned by washing her and her husband’s clothes in cold water; her gesturing in exasperation towards the camp beyond the walls of the centre. She never thought she’d be in this position, she told me, performing never ending domestic chores, while waiting out her days for an unknown life.

    Stolen childhoods

    Beyond speaking of their own difficulties, many people I approached told me of their intense concern for the children living in camps across Greece. As Mariam put it, “this situation snatches their childhoods by taking away their actual right to be children” – in many inhumane and degrading ways. And, as highlighted above, when children are affected, women are then far more likely to be impacted as a result, creating a calamitous domino effect among the most vulnerable.

    I also spoke to Abdul* from Iraq who said:

    The camp is a terrible place for children because they are used to going out playing, visiting their friends and relatives in the neighbourhood, and going to school but in the camp there is nothing. They can’t even play, and the environment is horrible.”

    Many asylum-seeking children do not have access to education in Greece. This is despite the government recognising the right of all children to access education, regardless of their status in a country, and even if they lack paperwork.

    UNHCR recently described educational opportunities for the 3,050 5-17 year olds living on Greece’s islands, as “slim.” They estimate that “most have missed between one and four years of school as a result of war and forced displacement” – and they continue to miss out as a result of life on the islands.

    There are several reasons why so many children are out of school, but Greek and EU policies are largely to blame. Based mistakenly on the grounds that people will only reside on the islands for brief periods before either being returned to Turkey or transferred to the mainland, the policies do not prioritise education. The reality of the situation is that many children end up waiting for months in the island camps before being moved, and during this time, have no access to formal education, subsequently losing their rights to play, learn, develop and integrate in a new society.

    In place of formal schooling, many children in camps rely on informal education and psychosocial activities provided by NGOs and grassroots organisations. While generally doing a commendable job in filling the numerous gaps, these provisions can sometimes be sporadic, and can depend on funding as well as groups being given access to camps and shelters.

    And while small organisations try their best to plug gaps in a faulty system, there will always, unfortunately, be children left behind. The ultimate result of Greek and EU policy is that the majority of children are spending months in limbo without education, waiting out their days in an unsafe and unstable environment.

    This not only deprives children of formative months, and sometimes years, of education and development, it can also put them at risk of exploitation and abuse. Reports by the RSA and Save the Children state that refugee children are at much higher risk of exploitation when they are out of school. Save the Children highlight that, particularly for Syrian refugee girls, “a lack of access to education is contributing to sexual exploitation, harassment, domestic violence and a significant rise in forced marriages”.

    There have also been numerous cases of children – often unaccompanied teenage boys – being forced into “survival sex,” selling sex to older, predatory men, for as little as €15 or even less, just in order to get by. The issue has been particularly prevalent in Greece’s major cities, Athens and Thessaloniki.

    While all children suffer in this situation, unaccompanied minors are especially at risk. The state has particular responsibilities to provide for unaccompanied and separated children under international guidelines, yet children in Greece, especially on Samos, are being failed. The failings are across the board, through lack of education, lack of psychological support, lack of appropriate guardians, and lack of adequate housing – many children are often placed in camps rather than in external shelters.

    This is a particular issue on Samos, as the designated area for unaccompanied minors in the reception centre, was not guarded at all until recently, and is regularly subject to chaos and violence from other camp residents, visitors or even police.

    Many refugee children in Greece are also at risk of violence not only as a result of state inactions, but at the hands of the state itself. Children are often subject to violent – and illegal – pushbacks at Greece’s border with Turkey.

    There have been multiple accounts of police beating migrants and confiscating belongings at the Evros river border, with one woman reporting that Greek authorities “took away her two young children’s shoes” in order to deter them from continuing their journey.

    The Council of Europe’s Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment (CPT) spoke out earlier this year, criticising treatment in Greek camps and detention facilities, stating that conditions were “inhuman and degrading.” They have called for an end to the detention of children with adults in police facilities, as well as the housing of unaccompanied minors in reception and identification centres, such as the hotspot on Samos.

    Smaller organisations are also making their voices heard: Still I Rise, a young NGO on Samos providing education for refugee children, has just filed a lawsuit against the camp management at the refugee hotspot, for their ill treatment of unaccompanied minors. The organisation states:

    We are in a unique position to witness the inhumane living conditions and experiences of our students in the refugee hotspot. With the support of Help Refugees, we gathered evidence, wrote affidavits, and build a class action on behalf of all the unaccompanied minors past and present who suffered abuse in the camp.

    After witnessing the many failings of the camp management to protect the unaccompanied minors, the NGO decided to take matters into their own hands, raising up the voices of their students, students whose childhoods have been stolen from them as they flee war and persecution.
    “Without love I would give up”

    Every day on Samos, I worked with people who were battling the ever-consuming crush of hardship and boredom. People came to the activity centre to overcome it, through learning languages, reading, socialising, exercising, teaching and volunteering. They demonstrated amazing commitment and perseverance, and this should not be forgotten in the face of everything discussed so far.

    Nadine*, a young woman from Cameroon whose help at the centre became invaluable, told me that she ‘always’ feels bored, and that “the worst is a closed camp,” but that she has managed to survive by teaching:

    I teach the alphabet and sounds, letters for them to be able to read. I teach adult beginners, it’s not easy because some of them didn’t go to school and they are not able to write in their own language. So it’s hard work, patience and love because without love I would give up.”

    The perseverance demonstrated by Nadine, Mariam, and other women like them, is extraordinary. This is not only considering the challenges they had to confront before even reaching Greece, but in the face of such adversity once reaching the EU.

    Those refugees who are most vulnerable – particularly women and children, but also the silent voices of this article, those who are disabled, LGBTQ+ or otherwise a minority – are being pushed to the margins of society by the despicable policies and practices being inflicted on migrants in Greece. Refugees and migrants are being forced to endure immense suffering simply for asking for a place of safety.

    Yet despite everything, even those at the most disadvantage are continuing to fight for their right to a future. And while I know that, especially in this climate, we need more than love alone, I hang onto Nadine’s words all the same: “without love I would give up.”

    https://lacuna.org.uk/migration/watching-the-clothes-dry-how-life-in-greeces-refugee-camps-is-changing-fa
    #femmes #asile #migrations #réfugiés #rôles #Samos #Grèce #attente #tâches_domestique #lessive #marges #marginalisation #ennui #désespoir #détressse #déqualification #camps #camps_de_réfugiés #liberté #genre #cuisine #soins #caregiver #santé_mentale #fardeau

    #cpa_camps

  • Un camp de la Seconde Guerre mondiale reconverti en centre de détention pour enfants migrants

    Durant la #Seconde_Guerre_mondiale, les Américains d’origine japonaise ont été enfermés dans des #camps_d’internement. L’un de ces #camps, situé en #Oklahoma, est reconverti en #centre_de_détention pour enfants migrants alors que le sort réservé à ceux-ci fait de plus en plus scandale. Reportage du New York Times.

    https://www.courrierinternational.com/article/etats-unis-un-camp-de-la-seconde-guerre-mondiale-reconverti-e
    #USA #Etats-Unis #asile #migrations #réfugiés #cpa_camps #reconversion #hébergement #logement #histoire #rétention #2039-2045 #WWII #japonais

  • #Mauritanie : 60000 #réfugiés_maliens vivent dans le #camp de #Mbera

    Ils sont #peuls, #touaregs ou #arabes et viennent tous du Mali. Certains fuyant les violences des groupes jihadistes, d’autres celles de l’armée malienne. Depuis 2012, ce sont près de 60 000 réfugiés qui ont élu domicile dans le camp de Mbera, en Mauritanie. Et qui ne sont pas prêts à refranchir la frontière.

    « Nous allons relever sept données biométriques, ce qui nous garantit demain que quiconque ne peut plus se présenter sous cette identité. » Ici, nous sommes au #centre_d’enregistrement du #HCR, le Haut-Commissariat aux réfugiés des Nations unies. Passage obligé pour tout demandeur d’asile.

    Ses #empreintes_digitales, Hamady Ba, 40 ans, les a données il y a quatre ans déjà. Il a fui les persécutions contre les peuls au Mali. « J’ai vu des exactions de la part de l’armée, raconte-t-il. Ils rentraient dans notre village, prenaient des gens, les attachaient, et les frappaient. C’est pour ça que j’ai fui. »

    Zeïna, elle, est arrivée il y a quatre mois à peine. À dos de mulet, pour fuir les jihadistes. Et il n’est pas question de repartir. « On a vraiment essayé de supporter cette situation, mais c’était trop. J’ai décidé de prendre mes enfants pour arrêter d’entendre le bruit des armes, confie-t-elle. J’ai été obligé de fuir, mais je ne supportais vraiment plus cette situation. »

    Sous sa tente bien tenue, mais rudimentaire, Sidi Mohamed est un habitué du camp. En 1991 déjà, il avait trouvé refuge ici. À 70 ans, il a encore de l’espoir. « Chaque prière que je fais, je prie Dieu pour que la paix revienne au Mali et dans le monde. En dehors de tout ça, on veut juste vivre avec dignité », dit-il.

    Le mois dernier, environ 300 réfugiés ont décidé de retourner tenter leur chance au Mali. Contre l’avis du HCR, qui estime que la situation n’est pas prête à se stabiliser.

    http://www.rfi.fr/afrique/20190603-reportage-mauritanie-60000-refugies-maliens-vivent-le-camp-mbera
    #réfugiés #asile #migrations #camps_de_réfugiés #retour_au_pays

    Notez que le titre du sujet parle de #camps , alors que le HCR parle de #centre_d’enregistrement ...
    #cpa_camps #terminologie #vocabulaire #mots

  • Call immigrant detention centers what they really are: concentration camps

    If you were paying close attention last week, you might have spotted a pattern in the news. Peeking out from behind the breathless coverage of the Trump family’s tuxedoed trip to London was a spate of deaths of immigrants in U.S. custody: Johana Medina Léon, a 25-year-old transgender asylum seeker; an unnamed 33-year-old Salvadoran man; and a 40-year-old woman from Honduras.

    Photos from a Border Patrol processing center in El Paso showed people herded so tightly into cells that they had to stand on toilets to breathe. Memos surfaced by journalist Ken Klippenstein revealed that Immigration and Customs Enforcement’s failure to provide medical care was responsible for suicides and other deaths of detainees. These followed another report that showed that thousands of detainees are being brutally held in isolation cells just for being transgender or mentally ill.

    Also last week, the Trump administration cut funding for classes, recreation and legal aid at detention centers holding minors — which were likened to “summer camps” by a senior ICE official last year. And there was the revelation that months after being torn from their parents’ arms, 37 children were locked in vans for up to 39 hours in the parking lot of a detention center outside Port Isabel, Texas. In the last year, at least seven migrant children have died in federal custody.

    Preventing mass outrage at a system like this takes work. Certainly it helps that the news media covers these horrors intermittently rather than as snowballing proof of a racist, lawless administration. But most of all, authorities prevail when the places where people are being tortured and left to die stay hidden, misleadingly named and far from prying eyes.

    There’s a name for that kind of system. They’re called concentration camps. You might balk at my use of the term. That’s good — it’s something to be balked at.

    The goal of concentration camps has always been to be ignored. The German-Jewish political theorist Hannah Arendt, who was imprisoned by the Gestapo and interned in a French camp, wrote a few years afterward about the different levels of concentration camps. Extermination camps were the most extreme; others were just about getting “undesirable elements … out of the way.” All had one thing in common: “The human masses sealed off in them are treated as if they no longer existed, as if what happened to them were no longer of interest to anybody, as if they were already dead.”

    Euphemisms play a big role in that forgetting. The term “concentration camp” is itself a euphemism. It was invented by a Spanish official to paper over his relocation of millions of rural families into squalid garrison towns where they would starve during Cuba’s 1895 independence war. When President Franklin D. Roosevelt ordered Japanese Americans into prisons during World War II, he initially called them concentration camps. Americans ended up using more benign names, like “Manzanar Relocation Center.”

    Even the Nazis’ camps started out small, housing criminals, Communists and opponents of the regime. It took five years to begin the mass detention of Jews. It took eight, and the outbreak of a world war, for the first extermination camps to open. Even then, the Nazis had to keep lying to distract attention, claiming Jews were merely being resettled to remote work sites. That’s what the famous signs — Arbeit Macht Frei, or “Work Sets You Free” — were about.

    Subterfuge doesn’t always work. A year ago, Americans accidentally became aware that the Trump administration had adopted (and lied about) a policy of ripping families apart at the border. The flurry of attention was thanks to the viral conflation of two separate but related stories: the family-separation order and bureaucrats’ admission that they’d been unable to locate thousands of migrant children who’d been placed with sponsors after crossing the border alone.

    Trump shoved that easily down the memory hole. He dragged his heels a bit, then agreed to a new policy: throwing whole families into camps together. Political reporters posed irrelevant questions, like whether President Obama had been just as bad, and what it meant for the midterms. Then they moved on.

    It is important to note that Trump’s aides have built this system of racist terror on something that has existed for a long time. Several camps opened under Obama, and as president he deported millions of people.

    But Trump’s game is different. It certainly isn’t about negotiating immigration reform with Congress. Trump has made it clear that he wants to stifle all non-white immigration, period. His mass arrests, iceboxes and dog cages are part of an explicitly nationalist project to put the country under the control of the right kind of white people.

    As a Republican National Committee report noted in 2013: “The nation’s demographic changes add to the urgency of recognizing how precarious our position has become.” The Trump administration’s attempt to put a citizenship question on the 2020 census was also just revealed to have been a plot to disadvantage political opponents and boost “Republicans and Non-Hispanic Whites” all along.

    That’s why this isn’t just a crisis facing immigrants. When a leader puts people in camps to stay in power, history shows that he doesn’t usually stop with the first group he detains.

    There are now at least 48,000 people detained in ICE facilities, which a former official told BuzzFeed News “could swell indefinitely.” Customs and Border Protection officials apprehended more than 144,000 people on the Southwest border last month. (The New York Times dutifully reported this as evidence of a “dramatic surge in border crossings,” rather than what it was: The administration using its own surge of arrests to justify the rest of its policies.)

    If we call them what they are — a growing system of American concentration camps — we will be more likely to give them the attention they deserve. We need to know their names: Port Isabel, Dilley, Adelanto, Hutto and on and on. With constant, unrelenting attention, it is possible we might alleviate the plight of the people inside, and stop the crisis from getting worse. Maybe people won’t be able to disappear so easily into the iceboxes. Maybe it will be harder for authorities to lie about children’s deaths.

    Maybe Trump’s concentration camps will be the first thing we think of when we see him scowling on TV.

    The only other option is to leave it up to those in power to decide what’s next. That’s a calculated risk. As Andrea Pitzer, author of “One Long Night,” one of the most comprehensive books on the history of concentration camps, recently noted: “Every country has said their camps are humane and will be different. Trump is instinctively an authoritarian. He’ll take them as far as he’s allowed to.”

    https://www.latimes.com/opinion/op-ed/la-oe-katz-immigrant-concentration-camps-20190609-story.html
    #terminologie #vocabulaire #mots #camps #camps_de_concentration #centres_de_détention #détention_administrative #rétention #USA #Etats-Unis
    #cpa_camps

    • ‘Some Suburb of Hell’: America’s New Concentration Camp System

      On Monday, New York Congresswoman Alexandria Ocasio-Cortez referred to US border detention facilities as “concentration camps,” spurring a backlash in which critics accused her of demeaning the memory of those who died in the Holocaust. Debates raged over a label for what is happening along the southern border and grew louder as the week rolled on. But even this back-and-forth over naming the camps has been a recurrent feature in the mass detention of civilians ever since its inception, a history that long predates the Holocaust.

      At the heart of such policy is a question: What does a country owe desperate people whom it does not consider to be its citizens? The twentieth century posed this question to the world just as the shadow of global conflict threatened for the second time in less than three decades. The dominant response was silence, and the doctrine of absolute national sovereignty meant that what a state did to people under its control, within its borders, was nobody else’s business. After the harrowing toll of the Holocaust with the murder of millions, the world revisited its answer, deciding that perhaps something was owed to those in mortal danger. From the Fourth Geneva Convention protecting civilians in 1949 to the 1989 Convention on the Rights of the Child, the international community established humanitarian obligations toward the most vulnerable that apply, at least in theory, to all nations.

      The twenty-first century is unraveling that response. Countries are rejecting existing obligations and meeting asylum seekers with walls and fences, from detainees fleeing persecution who were sent by Australia to third-party detention in the brutal offshore camps of Manus and Nauru to razor-wire barriers blocking Syrian refugees from entering Hungary. While some nations, such as Germany, wrestle with how to integrate refugees into their labor force—more and more have become resistant to letting them in at all. The latest location of this unwinding is along the southern border of the United States.

      So far, American citizens have gotten only glimpses of the conditions in the border camps that have been opened in their name. In the month of May, Customs and Border Protection reported a total of 132,887 migrants who were apprehended or turned themselves in between ports of entry along the southwest border, an increase of 34 percent from April alone. Upon apprehension, these migrants are temporarily detained by Border Patrol, and once their claims are processed, they are either released or handed over to ICE for longer-term detention. Yet Border Patrol itself is currently holding about 15,000 people, nearly four times what government officials consider to be this enforcement arm’s detention capacity.

      On June 12, the Department of Health and Human Services announced that Fort Sill, an Army post that hosted a World War II internment camp for detainees of Japanese descent, will now be repurposed to detain migrant children. In total, HHS reports that it is currently holding some 12,000 minors. Current law limits detention of minors to twenty days, though Senator Lindsey Graham has proposed expanding the court-ordered limit to 100 days. Since the post is on federal land, it will be exempt from state child welfare inspections.

      In addition to the total of detainees held by Border Patrol, an even higher number is detained at centers around the country by the Immigration and Customs Enforcement agency: on a typical day at the beginning of this month, ICE was detaining more than 52,500 migrants. The family separation policy outraged the public in the 2018, but despite legal challenges, it never fully ended. Less publicized have been the deaths of twenty-four adults in ICE custody since the beginning of the Trump administration; in addition, six children between the ages of two and sixteen have died in federal custody over the last several months. It’s not clear whether there have been other deaths that have gone unreported.

      Conditions for detainees have not been improving. At the end of May, a Department of Homeland Security inspector general found nearly 900 migrants at a Texas shelter built for a capacity of 125 people. On June 11, a university professor spotted at least 100 men behind chain-link fences near the Paso del Norte Bridge in El Paso, Texas. Those detainees reported sitting outside for weeks in temperatures that soared above 100 degrees. Taylor Levy, an El Paso immigration lawyer, described going into one facility and finding “a suicidal four-year-old whose face was covered in bloody, self-inflicted scratches… Another young child had to be restrained by his mother because he kept running full-speed into metal lockers. He was covered in bruises.”

      If deciding what to do about the growing numbers of adults and children seeking refuge in the US relies on complex humanitarian policies and international laws, in which most Americans don’t take a deep interest, a simpler question also presents itself: What exactly are these camps that the Trump administration has opened, and where is this program of mass detention headed?

      Even with incomplete information about what’s happening along the border today and what the government plans for these camps, history points to some conclusions about their future. Mass detention without trial earned a new name and a specific identity at the end of the nineteenth century. The labels then adopted for the practice were “reconcentración” and “concentration camps”—places of forced relocation of civilians into detention on the basis of group identity.

      Other kinds of group detention had appeared much earlier in North American history. The US government drove Native Americans from their homelands into prescribed exile, with death and detention in transit camps along the way. Some Spanish mission systems in the Americas had accomplished similar ends by seizing land and pressing indigenous people into forced labor. During the 245 years when slavery was legal in the US, detention was one of its essential features.

      Concentration camps, however, don’t typically result from the theft of land, as happened with Native Americans, or owning human beings in a system of forced labor, as in the slave trade. Exile, theft, and forced labor can come later, but in the beginning, detention itself is usually the point of concentration camps. By the end of the nineteenth century, the mass production of barbed wire and machines guns made this kind of detention possible and practical in ways it never had been before.

      Under Spanish rule in 1896, the governor-general of Cuba instituted camps in order to clear rebel-held regions during an uprising, despite his predecessor’s written refusal “as the representative of a civilized nation, to be the first to give the example of cruelty and intransigence” that such detention would represent. After women and children began dying in vast numbers behind barbed wire because there had been little planning for shelter and even less for food, US President William McKinley made his call to war before Congress. He spoke against the policy of reconcentración, calling it warfare by uncivilized means. “It was extermination,” McKinley said. “The only peace it could beget was that of the wilderness and the grave.” Without full records, the Cuban death toll can only be estimated, but a consensus puts it in the neighborhood of 150,000, more than 10 percent of the island’s prewar population.

      Today, we remember the sinking of the USS Maine as the spark that ignited the Spanish-American War. But war correspondent George Kennan (cousin of the more famous diplomat) believed that “it was the suffering of the reconcentrados, more, perhaps, than any other one thing that brought about the intervention of the United States.” On April 25, 1898, Congress declared war. Two weeks later, US Marines landed at Fisherman’s Point on the windward side of the entrance to Guantánamo Bay in Cuba. After a grim, week-long fight, the Marines took the hill. It became a naval base, and the United States has never left that patch of land.

      As part of the larger victory, the US inherited the Philippines. The world’s newest imperial power also inherited a rebellion. Following a massacre of American troops at Balangiga in September 1901, during the third year of the conflict, the US established its own concentration camp system. Detainees, mostly women and children, were forced into squalid conditions that one American soldier described in a letter to a US senator as “some suburb of hell.” In the space of only four months, more than 11,000 Filipinos are believed to have died in these noxious camps.

      Meanwhile, in southern Africa in 1900, the British had opened their own camps during their battle with descendants of Dutch settlers in the second Boer War. British soldiers filled tent cities with Boer women and children, and the military authorities called them refugee camps. Future Prime Minister David Lloyd George took offense at that name, noting in Parliament: “There is no greater delusion in the mind of any man than to apply the term ‘refugee’ to these camps. They are not refugee camps. They are camps of concentration.” Contemporary observers compared them to the Cuban camps, and criticized their deliberate cruelty. The Bishop of Hereford wrote to The Times of London in 1901, asking: “Are we reduced to such a depth of impotence that our Government can do nothing to stop such a holocaust of child-life?”

      Maggoty meat rations and polluted water supplies joined outbreaks of contagious diseases amid crowded and unhealthy conditions in the Boer camps. More than 27,000 detainees are thought to have died there, nearly 80 percent of them children. The British had opened camps for black Africans as well, in which at least 14,000 detainees died—the real number is probably much higher. Aside from protests made by some missionaries, the deaths of indigenous black Africans did not inspire much public outrage. Much of the history of the suffering in these camps has been lost.

      These early experiments with concentration camps took place on the periphery of imperial power, but accounts of them nevertheless made their way into newspapers and reports in many nations. As a result, the very idea of them came to be seen as barbaric. By the end of the first decade of the twentieth century, the first camp systems had all been closed, and concentration camps had nearly vanished as an institution. Within months of the outbreak of World War I, though, they would be resurrected—this time rising not at the margins but in the centers of power. Between 1914 and 1918, camps were constructed on an unprecedented scale across six continents. In their time, these camps were commonly called concentration camps, though today they are often referred to by the more anodyne term “internment.”

      Those World War I detainees were, for the most part, foreigners—or, in legalese, aliens—and recent anti-immigration legislation in several countries had deliberately limited their rights. The Daily Mail denounced aliens left at liberty once they had registered with their local police department, demanding, “Does signing his name take the malice out of a man?” The Scottish Field was more direct, asking, “Do Germans have souls?” That these civilian detainees were no threat to Britain did not keep them from being demonized, shouted at, and spat upon as they were paraded past hostile crowds in cities like London.

      Though a small number of people were shot in riots in these camps, and hunger became a serious issue as the conflict dragged on, World War I internment would present a new, non-lethal face for the camps, normalizing detention. Even after the war, new camps sprang up from Spain to Hungary and Cuba, providing an improvised “solution” for everything from vagrancy to anxieties over the presence of Jewish foreigners.

      Some of these camps were clearly not safe for those interned. Local camps appeared in Tulsa, Oklahoma, in 1921, after a white mob burned down a black neighborhood and detained African-American survivors. In Bolshevik Russia, the first concentration camps preceded the formation of the Soviet Union in 1922 and planted seeds for the brutal Gulag system that became official near the end of the USSR’s first decade. While some kinds of camps were understood to be harsher, after World War I their proliferation did not initially disturb public opinion. They had yet to take on their worst incarnations.

      In 1933, barely more than a month after Hitler was appointed chancellor, the Nazis’ first, impromptu camp opened in the town of Nohra in central Germany to hold political opponents. Detainees at Nohra were allowed to vote at a local precinct in the elections of March 5, 1933, resulting in a surge of Communist ballots in the tiny town. Locking up groups of civilians without trial had become accepted. Only the later realization of the horrors of the Nazi death camps would break the default assumption by governments and the public that concentration camps could and should be a simple way to manage populations seen as a threat.

      However, the staggering death toll of the Nazi extermination camp system—which was created mid-war and stood almost entirely separate from the concentration camps in existence since 1933—led to another result: a strange kind of erasure. In the decades that followed World War II, the term “concentration camp” came to stand only for Auschwitz and other extermination camps. It was no longer applied to the kind of extrajudicial detention it had denoted for generations. The many earlier camps that had made the rise of Auschwitz possible largely vanished from public memory.

      It is not necessary, however, to step back a full century in American history to find camps with links to what is happening on the US border today. Detention at Guantánamo began in the 1990s, when Haitian and Cuban immigrants whom the government wanted to keep out of the United States were housed there in waves over a four-year period—years before the “war on terror” and the US policy of rendition of suspected “enemy combatants” made Camps Delta, X-Ray, and Echo notorious. Tens of thousands of Haitians fleeing instability at home were picked up at sea and diverted to the Cuban base, to limit their legal right to apply for asylum. The court cases and battles over the suffering of those detainees ended up setting the stage for what Guantánamo would become after September 11, 2001.

      In one case, a federal court ruled that it did have jurisdiction over the base, but the government agreed to release the Haitians who were part of the lawsuit in exchange for keeping that ruling off the books. A ruling in a second case would assert that the courts did not have jurisdiction. Absent the prior case, the latter stood on its own as precedent. Leaving Guantánamo in this gray area made it an ideal site for extrajudicial detention and torture after the twin towers fell.

      This process of normalization, when a bad camp becomes much more dangerous, is not unusual. Today’s border camps are a crueler reflection of long-term policies—some challenged in court—that earlier presidents had enacted. Prior administrations own a share of the responsibility for today’s harsh practices, but the policies in place today are also accompanied by a shameless willingness to publicly target a vulnerable population in increasingly dangerous ways.

      I visited Guantánamo twice in 2015, sitting in the courtroom for pretrial hearings and touring the medical facility, the library, and all the old abandoned detention sites, as well as newly built ones, open to the media—from the kennel-style cages of Camp X-Ray rotting to ruin in the damp heat to the modern jailhouse facilities of Camp 6. Seeing all this in person made clear to me how vast the architecture of detention had become, how entrenched it was, and how hard it would be to close.

      Without a significant government effort to reverse direction, conditions in every camp system tend to deteriorate over time. Governments rarely make that kind of effort on behalf of people they are willing to lock up without trial in the first place. And history shows that legislatures do not close camps against the will of an executive.

      Just a few years ago there might have been more potential for change spurred by the judicial branch of our democracy, but this Supreme Court is inclined toward deference to executive power, even, it appears, if that power is abused. It seems unlikely this Court will intervene to end the new border camp system; indeed, the justices are far more likely to institutionalize it by half-measures, as happened with Guantánamo. The Korematsu case, in which the Supreme Court upheld Japanese-American internment (a ruling only rescinded last year), relied on the suppression of evidence by the solicitor general. Americans today can have little confidence that this administration would behave any more scrupulously when defending its detention policy.

      What kind of conditions can we expect to develop in these border camps? The longer a camp system stays open, the more likely it is that vital things will go wrong: detainees will contract contagious diseases and suffer from malnutrition and mental illness. We have already seen that current detention practices have resulted in children and adults succumbing to influenza, staph infections, and sepsis. The US is now poised to inflict harm on tens of thousands more, perhaps hundreds of thousands more.

      Along with such inevitable consequences, every significant camp system has introduced new horrors of its own, crises that were unforeseen when that system was opened. We have yet to discover what those will be for these American border camps. But they will happen. Every country thinks it can do detention better when it starts these projects. But no good way to conduct mass indefinite detention has yet been devised; the system always degrades.

      When, in 1940, Margarete Buber-Neumann was transferred from the Soviet Gulag at Karaganda to the camp for women at Ravensbrück (in an exchange enabled by the Nazi–Soviet Pact), she came from near-starvation conditions in the USSR and was amazed at the cleanliness and order of the Nazi camp. New arrivals were issued clothing, bedding, and silverware, and given fresh porridge, fruit, sausage, and jam to eat. Although the Nazi camps were already punitive, order-obsessed monstrosities, the wartime overcrowding that would soon overtake them had not yet made daily life a thing of constant suffering and squalor. The death camps were still two years away.

      The United States now has a vast and growing camp system. It is starting out with gruesome overcrowding and inadequate healthcare, and because of budget restrictions, has already taken steps to cut services to juvenile detainees. The US Office of Refugee Resettlement says that the mounting number of children arriving unaccompanied is forcing it to use military bases and other sites that it prefers to avoid, and that establishing these camps is a temporary measure. But without oversight from state child welfare inspectors, the possibilities for neglect and abuse are alarming. And without any knowledge of how many asylum-seekers are coming in the future, federal administrators are likely to find themselves boxed in to managing detention on military sites permanently.

      President Trump and senior White House adviser Stephen Miller appear to have purged the Department of Homeland Security of most internal opposition to their anti-immigrant policies. In doing so, that have removed even those sympathetic to the general approach taken by the White House, such as former Chief of Staff John Kelly and former Homeland Security Secretary Kirstjen Nielsen, in order to escalate the militarization of the border and expand irregular detention in more systematic and punitive ways. This kind of power struggle or purge in the early years of a camp system is typical.

      The disbanding of the Cheka, the Soviet secret police, in February 1922 and the transfer of its commander, Felix Dzerzhinsky, to head up an agency with control over only two prisons offered a hint of an alternate future in which extrajudicial detention would not play a central role in the fledgling Soviet republic. But Dzerzhinsky managed to keep control over the “special camps” in his new position, paving the way for the emergence of a camp-centered police state. In pre-war Germany in the mid-1930s, Himmler’s struggle to consolidate power from rivals eventually led him to make camps central to Nazi strategy. When the hardliners win, as they appear to have in the US, conditions tend to worsen significantly.

      Is it possible this growth in the camp system will be temporary and the improvised border camps will soon close? In theory, yes. But the longer they remain open, the less likely they are to vanish. When I visited the camps for Rohingya Muslims a year before the large-scale campaign of ethnic cleansing began, many observers appeared to be confusing the possible and the probable. It was possible that the party of Nobel Peace Prize winner Aung San Suu Kyi would sweep into office in free elections and begin making changes. It was possible that full democracy would come to all the residents of Myanmar, even though the government had stripped the Rohingya of the last vestiges of their citizenship. These hopes proved to be misplaced. Once there are concentration camps, it is always probable that things will get worse.

      The Philippines, Japanese-American internment, Guantánamo… we can consider the fine points of how the current border camps evoke past US systems, and we can see how the arc of camp history reveals the likelihood that the suffering we’re currently inflicting will be multiplied exponentially. But we can also simply look at what we’re doing right now, shoving bodies into “dog pound”-style detention pens, “iceboxes,” and standing room-only spaces. We can look at young children in custody who have become suicidal. How much more historical awareness do we really need?

      https://www.nybooks.com/daily/2019/06/21/some-suburb-of-hell-americas-new-concentration-camp-system

    • #Alexandria_Ocasio-Cortez engage le bras de fer avec la politique migratoire de Donald Trump

      L’élue de New York a qualifié les camps de rétention pour migrants érigés à la frontière sud des Etats-Unis de « camps de concentration ».

      https://www.lemonde.fr/international/article/2019/06/19/alexandria-ocasio-cortez-engage-le-bras-de-fer-avec-la-politique-migratoire-

  • #Calais et ses « #jungles » : toponymies en questions

    Calais est un nom qui évoque certainement beaucoup de choses. Le nord de la France, la frontière britannique, le Tunnel sous la Manche, le passage clandestin vers le Royaume-Uni… C’est un espace, devenu sujet d’études sous de nombreux aspects, notamment dans les travaux de l’anthropologue Michel Agier. Il est pourtant un angle d’analyse qui n’ait pas encore été complètement exploré aujourd’hui : celui de sa toponymie.

    Et pourtant, voilà une approche intéressante en ce qu’elle révèle le rapport des individus avec les lieux. Un rapport tout à la fois culturel et pratique. Calais, ville portuaire aux multiples visages, abrite en effet toute une série de lieux à une échelle relativement petite, humaine. Ces lieux où l’on dort, où l’on se cache, où l’on mange, où l’on se lave près d’un point d’eau où dans un canal pollué, où l’on court, la nuit, derrière des camions de marchandises en partance pour la Grande-Bretagne. Ces lieux sont investis par un large nombre de personnes, de différentes nationalités, et sont également tenus par des réseaux de trafiquants qui se partagent le territoire et le défendent coûte que coûte (Frayer-Laleix, 2015, p. 230). Les groupes d’appartenance nationale ou ethnique nomment et renomment ces espaces selon différentes modalités : la discrétion (utiliser une langue que d’autres ne comprendront pas), la culture (un endroit qui s’appelle de telle manière dans sa langue natale sera appelé de même à Calais), l’existence d’une culture orale relative au lieu (un nom de lieu propre à un endroit en particulier, qui traverse les années sans que l’on se souvienne précisément de la raison d’avoir nommé ce lieu de ainsi).

    Comme le relève le quotidien français La Croix, le terme de jungle, employé depuis plus d’une décennie pour désigner les lieux d’habitat précaire des personnes en situation irrégulière transitant sur le territoire européen, a une histoire étymologique intéressante.

    « Les Afghans, déjà les plus nombreux parmi les réfugiés de l’époque [2003], parlaient de leur « jangal » – « bois » en pachtoune – dans lequel ils s’étaient repliés, à la consonance fort proche de la « jungle » anglaise.

    Rien de très étonnant à cette affinité linguistique puisque l’anglais a adapté le terme hindoustani « jangal » en « jungle » en 1777, précise le Dictionnaire historique de la langue française. Thomas Howel qui fit une expédition en Inde au XVIIIe siècle explique que « jungle est un mot dont on se sert dans l’Inde qui signifie bosquet ou bouquet de bois », dans son Voyage en retour de l’Inde par terre et par une route en partie inconnue jusqu’ici, publié en 1791 et traduit en français en 1796.

    C’est d’ailleurs au cours de cette même année 1796 que le français emprunte à l’anglais le mot « jungle ». Le sens de « territoire inhabité » se meut en « territoire couvert d’une végétation impénétrable », ajoute le Dictionnaire historique, et se confond avec le « lieu sauvage » qu’évoque le terme sanskrit « jangala ». Le Livre de la jungle de Rudyard Kipling (1899) se chargera plus tard d’assurer la postérité du mot.

    C’est donc là, dans le petit bois Dubrulle – dit aussi bois des Garennes –, qu’est née d’un quiproquo linguistique « la jungle de Calais ». »

    Bien que dérivé d’un terme pachtoune, le mot jungle est aujourd’hui très largement utilisé parmi les différentes communautés occupant les camps de fortune dispersés sur le territoire des Hauts-de-France (anciennement Nord-Pas-de-Calais). Aussi bien Érythréens qu’Éthiopiens, Soudanais, Somaliens, Iraniens ou encore Pakistanais, l’utilisent couramment. Le terme désigne tous les camps informels, et non pas un seul. Ainsi, il serait en vérité plus adéquat de parler des jungles, au pluriel. Cependant, quelques spécificités dans la nomination existent, selon la communauté concernée ou pour des questions purement pratiques. Ainsi, la Jungle de Calais, ce bidonville à l’extérieur de Calais qui avait abrité, entre 2015 et 2016, quelques 10’000 personnes dans des constructions précaires ou de simples tentes de camping, est désormais appelée « Old jungle », par les habitants des nouveaux campements de fortune dispersés dans la ville de Calais et aux alentours. On entend parfois aussi « Big jungle », mais c’est plus rare tant cette dénomination risquerait de créer la confusion entre le bidonville démantelé en 2016 par les autorités françaises et le plus grand campement informel existant actuellement dans la zone industrielle calaisienne. Ainsi, « Big jungle » fait aujourd’hui référence à un ensemble de tentes situé dans une petite forêt aux alentours de la ville. Les personnes exilées parlent aussi de « Little jungle », ou de « Eritrean jungle » en référence à un groupe de jeunes Érythréens qui occupe une autre petite forêt plus proche du centre-ville. Pour désigner ce même espace, les Érythréens eux-mêmes emploient plutôt les termes « Little forest ». Ces appellations n’ont pas la même valeur. Certaines sont vernaculaires, d’autres véhiculaires. Les termes « Little jungle » et « Eritrean jungle » sont compris au-delà du groupe d’Érythréens qui l’occupe, tandis que « Little forest » est plutôt réservé à un usage interne.

    Les noms vernaculaires sont aussi plus éphémères car basés sur une situation qui peu changer à tout moment. Par exemple, si la communauté érythréenne, pour une raison ou une autre, finit par ne plus occuper la forêt qu’elle appelle « Little forest », cette appellation disparaîtra d’elle-même, ou sera associée à un autre espace.

    Prenons un autre exemple. À partir de l’été 2017 et jusqu’à l’hiver de la même année, une communauté ethnique éthiopienne, les Oromos, ont investi les abords d’un canal en plein centre-ville de Calais. Ils dormaient et vivaient sous un pont, se lavaient ainsi que leurs vêtements dans l’eau stagnante du canal au bord duquel ils jouaient ensuite au football. Cet endroit était alors appelé « dildila », ce mot signifiant « pont » en oromique. En dehors de leur groupe linguistique, personne n’employait ni ne comprenait ce terme. Après que ce pont n’a finalement plus fait l’objet d’une occupation récurrente, le terme a disparu. Les membres de ce même groupe, pour éviter que l’on ne les comprenne en dehors de celui-ci, utilisaient le terme « ganda harre » pour désigner le commissariat de police de la ville. Cette précaution était surtout prise pour que les forces de l’ordre ne puissent pas les comprendre, plus que pour se protéger d’un autre groupe de personnes exilées. Enfin, tandis que les membres du groupe de personnes amhariques (également originaires d’Éthiopie) appelaient et appellent encore toujours la « Big jungle » citée plus haut « tchaka », qui signifie simplement « forêt » en amharique, les Oromos utilisent bien plus souvent le terme « bosona » : « forêt » en oromique. Ces derniers comprennent et utilisent tout de même aussi, moins souvent, le mot amharique, liant ainsi les différents groupes en une communauté nationale partageant des termes communs pour désigner les mêmes espaces. Le mot « tchaka » est alors moins éphémère que le mot « bosona » puisqu’il est plus largement compris et employé par différents groupes. Mais le jour où plus aucun ressortissant éthiopien ne vivra à cet endroit, l’appellation disparaîtra très certainement.

    Nous pouvons affirmer ici que les appellations sont étroitement liées aux personnes qui les inventent et les emploient. Un membre de tel groupe dira comme ceci, tandis qu’un membre de tel autre dira plutôt comme cela. Mais cela n’est pas une règle absolue. Comme il est déjà possible de le constater avec le terme « jungle », très largement employé depuis des années, certaines dénominations s’imposent à travers le temps et/ou les groupes.

    Un exemple frappant de cette réalité est celui d’une partie de la forêt, relativement éloignée du centre-ville calaisien, dénommée « Khairo Jungle » par la communauté afghane principalement. Selon d’anciens habitants de ces campements de fortune aux alentours de la ville, originaires d’Éthiopie et d’Érythrée, ce terme est assez peu connu. Un seul Éthiopien sur les quatre interviewés avait entendu le terme auparavant. Celui-ci explique par ailleurs que c’est un Afghan qui lui a expliqué la raison de cette appellation, dont il a des souvenirs assez vagues. Selon lui, cette petite forêt s’appelle ainsi en hommage à un chef de mafia afghan qui vivait sur les lieux il y a une dizaine d’années, et qui y aurait été assassiné par la police française. La version en question paraît assez peu crédible, étant donné que le meurtre d’un ressortissant afghan, même en situation irrégulière sur le territoire français, par les forces de l’ordre se serait très certainement su assez rapidement. Or, il n’y a aucune trace d’un meurtre commis par un ou plusieurs officier(s) de police dans les médias français. Une interview avec un jeune Afghan apporte un éclairage différent à l’affaire : celui-ci explique plutôt que le nom Khairo était bien celui d’un Afghan vivant là il y a une décennie, que celui-ci était bien membre d’un réseau mafieux de trafic d’êtres humains de la France vers la Grande-Bretagne, mais qu’il a été tué par d’autres membres de ce même réseau en raison de sa trop grande flexibilité professionnelle. En effet, l’interviewé affirme que Khairo acceptait souvent de faire passer des personnes exilées sans compensation financière, ou à moindre coût. De plus, celui-ci était réputé pour offrir ses services indépendamment de la nationalité de ses clients – or, le marché de ce trafic est normalement réputé extrêmement compartimenté en fonction des appartenances nationales et ethniques des clients/victimes. Pour ces raisons, l’interviewé explique que Khairo, faisant perdre trop d’argent à son réseau, aurait fini par être assassiné dans la forêt qui, depuis lors, porte son nom au sein de la communauté afghane. Il conclut en précisant que son corps aurait par la suite été rapatrié en Afghanistan, détail qui rend sa version bien plus crédible.

    Ce qui est particulièrement intéressant par rapport à cet exemple, c’est que le nom de Khairo n’est aujourd’hui plus lié à une connaissance personnelle des faits ou de la personne. Plus aucun membre de du groupe d’Afghans actuellement à Calais n’a connu cet homme ni la ou les personne(s) responsables de son décès. Les évènements sont peu à peu devenus légende et, suite à l’entretien avec le jeune Afghan, il paraît clair que le personnage de Khairo est devenu une sorte de héros mythifié. Son nom est ainsi resté malgré le fait que plus personne ne sache ce qui s’est réellement passé ni la chronologie exacte des évènements. Par ailleurs, cette appellation semble se cantonner à un usage interne, même si quelques rares membres d’autres groupes nationaux ou linguistiques ont pu entendre parler de cela lors de leur passage à Calais.

    Dans ce sens, un autre fait est certainement intéressant à relever. À Calais, les principaux points de passage clandestin sont des parkings où les poids lourds se garent le temps de la pause ou de la sieste de leur chauffeur. C’est un moment particulièrement propice étant donné l’inattention du conducteur, et également un lieu idéal en raison de sa relative excentration par rapport à la ville et du fait de l’immobilité totale des véhicules convoités par les candidats au départ (il est beaucoup moins dangereux de monter dans un camion à l’arrêt que de chercher à le faire alors qu’il roule sur l’autoroute). Sans surprise, les réseaux de trafic se sont depuis longtemps emparés de ces lieux stratégiques pour en faire leur source de revenus. L’un de ces parkings, nombreux dans la région au vu du nombre de poids lourds y transitant chaque année, est largement connu sous le nom de « Sheitan parking » ou « Sheitan park ». Le terme « Sheitan » est la version arabe de « satan ». Sans exception, les personnes interviewées ont reconnu employer ce terme pour désigner un seul et même endroit aux alentours de la ville de Calais, et ce indépendamment de leur nationalité et de la langue qu’elles parlent. Par ailleurs, celles-ci invoquent toutes la même raison de cette appellation : l’extrême dangerosité des lieux. Selon elles, s’y risquer revient littéralement à mettre sa vie en jeu, en raison des membres du réseau de trafic qui s’en est emparé et qui le défend de façon virulente. Cette virulence est décrite comme pouvant aller jusqu’à menacer de mort les personnes exilées n’étant pas les bienvenues (car n’ayant pas payé ou n’étant pas de la bonne nationalité) avec des armes.

    En conclusion, il semble clair que les divers espaces investis par les personnes exilées le sont notamment d’un point de vue symbolique. Les appellations relèvent de faits divers, difficilement vérifiables, de la culture – notamment linguistique – propre aux personnes les employant, etc. Cette toponymie reste jusqu’à aujourd’hui totalement invisible. Elle reflète pourtant une véritable culture orale de l’occupation précaire de certains lieux.


    https://neotopo.hypotheses.org/1938
    #toponymie #vocabulaire #terminologie #mots #migrations #asile #réfugiés #jungle #cpa_camps #toponymie_migrante