• Témoignage : pourquoi je ne retournerai pas vivre aux États Unis.
    https://www.youtube.com/watch?v=7hP_5MN1Y6k

    Cette jeune mère de quatre enfants nous explique les acquis sociaux pour lesquels il faut se battre.

    En écoutant sa déscription de la manière de vivre des classes moyennes états-uniennes j’ai l’impression que les gouvernements des states sont en train de mener une guerre contre le peuple. Pas étonnant que les gens votent pour n"importe qui leur promet d’être très méchant avec les autres

    #USA #immobilier #insécurité #armes #assurance_maladie #massacres #crocdiles #tornades #zombies ;-)

  • Ecco quello che hanno fatto davvero gli italiani “brava gente”

    In un libro denso di testimonianze e documenti, #Eric_Gobetti con “I carnefici del duce” ripercorre attraverso alcune biografie i crimini dei militari fascisti in Libia, Etiopia e nei Balcani, smascherando una narrazione pubblica che ha distorto i fatti in una mistificazione imperdonabile e vigliacca. E denuncia l’incapacità nazionale di assumersi le proprie responsabilità storiche, perpetuata con il rosario delle “giornate della memoria”. Ci fu però chi disse No.

    “I carnefici del duce” è un testo che attraverso alcune emblematiche biografie è capace di restituire in modo molto preciso e puntigliosamente documentato le caratteristiche di un’epoca e di un sistema di potere. Di esso si indagano le pratiche e le conseguenze nella penisola balcanica ma si dimostra come esso affondi le radici criminali nei territori coloniali di Libia ed Etiopia, attingendo linfa da una temperie culturale precedente, dove gerarchia, autoritarismo, nazionalismo, militarismo, razzismo, patriarcalismo informavano di sé lo Stato liberale e il primo anteguerra mondiale.

    Alla luce di tali paradigmi culturali che il Ventennio ha acuito con il culto e la pratica endemica dell’arbitrio e della violenza, le pagine che raccontano le presunte prodezze italiche demoliscono definitivamente l’immagine stereotipa degli “italiani brava gente”, una mistificazione imperdonabile e vigliacca che legittima la falsa coscienza del nostro Paese e delle sue classi dirigenti, tutte.

    Anche questo lavoro di Gobetti smaschera la scorciatoia autoassolutoria dell’Italia vittima dei propri feroci alleati, denuncia l’incapacità nazionale di assumere le proprie responsabilità storiche nella narrazione pubblica della memoria – anche attraverso il rosario delle “giornate della memoria” – e nell’ufficialità delle relazioni con i popoli violentati e avidamente occupati dall’Italia. Sì, perché l’imperialismo fascista, suggeriscono queste pagine, in modo diretto o indiretto, ha coinvolto tutta la popolazione del Paese, eccetto coloro che, nei modi più diversi, si sono consapevolmente opposti.

    Non si tratta di colpevolizzare le generazioni (soprattutto maschili) che ci hanno preceduto, afferma l’autore,­ ma di produrre verità: innanzitutto attraverso l’analisi storiografica, un’operazione ancora contestata, subissata da polemiche e a volte pure da minacce o punita con la preclusione da meritate carriere accademiche; poi assumendola come storia propria, riconoscendo responsabilità e chiedendo perdono, anche attraverso il ripudio netto di quel sistema di potere e dei suoi presunti valori. Diventando una democrazia matura.

    Invece, non solo persistono ambiguità, omissioni, false narrazioni ma l’ombra lunga di quella storia, attraverso tante biografie, si è proiettata nel secondo dopoguerra, decretandone non solo la radicale impunità ma l’affermarsi di carriere, attività e formazioni che hanno insanguinato le strade della penisola negli anni Settanta, minacciato e condizionato l’evolversi della nostra democrazia.

    Di un sistema di potere così organicamente strutturato – come quello che ha retto e alimentato l’imperialismo fascista – pervasivo nelle sue articolazioni sociali e culturali, il testo di Gobetti ­accanto alle voci dei criminali e a quelle delle loro vittime, fa emergere anche quelle di coloro che hanno detto no, scegliendo di opporsi e dimostra che, nonostante tutto, era comunque possibile fare una scelta, nelle forme e nelle modalità più diverse: dalla volontà di non congedarsi dal senso della pietà, al tentativo di rendere meno disumano il sopravvivere in un campo di concentramento; dalla denuncia degli abusi dei propri pari, alla scelta della Resistenza con gli internati di cui si era carcerieri, all’opzione netta per la lotta di Liberazione a fianco degli oppressi dal regime fascista, a qualunque latitudine si trovassero.

    È dunque possibile scegliere e fare la propria parte anche oggi, perché la comunità a cui apparteniamo si liberi dagli “elefanti nella stanza” – così li chiama Gobetti nell’introduzione al suo lavoro –­ cioè dai traumi irrisolti con cui ci si rifiuta di fare i conti, che impediscono di imparare dai propri sbagli e di diventare un popolo maturo, in grado di presentarsi con dignità di fronte alle altre nazioni, liberando dalla vergogna le generazioni che verranno e facendo in modo che esse non debbano più sperimentare le nefandezze e i crimini del fascismo, magari in abiti nuovi. È questo autentico amor di patria.

    “I carnefici del duce” – 192 pagine intense e scorrevolissime, nonostante il rigore della narrazione,­ è diviso in 6 capitoli, con un’introduzione che ben motiva questa nuova ricerca dell’autore, e un appassionato epilogo, che ne esprime l’alto significato civile.

    Le tappe che vengono scandite scoprono le radici storiche dell’ideologia e delle atrocità perpetrate nelle pratiche coloniali fasciste e pre-fasciste; illustrano la geopolitica italiana del Ventennio nei Balcani, l’occupazione fascista degli stessi fino a prospettarne le onde lunghe nelle guerre civili jugoslave degli anni Novanta del secolo scorso; descrivono la teoria e la pratica della repressione totale attuata durante l’occupazione, circostanziandone norme e regime d’impunità; evidenziano la stretta relazione tra la filosofia del regime e la mentalità delle alte gerarchie militari.


    Raccontano le forme e le ragioni dell’indebita appropriazione delle risorse locali e le terribili conseguenze che ne derivarono per le popolazioni, fino a indagare l’inferno, il fenomeno delle decine e decine di campi d’internamento italiani, di cui è emblematico quello di Arbe. Ciascun capitolo è arricchito da una testimonianza documentaria, significativa di quanto appena esposto. Impreziosiscono il testo, oltre ad un’infinità di note che giustificano quasi ogni passaggio – a riprova che nel lavoro storiografico rigore scientifico e passione civile possono e anzi debbono convivere – una bibliografia e una filmografia ragionata che offrono strumenti per l’approfondimento delle questioni trattate.

    https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/ecco-quello-che-hanno-fatto-davvero-gli-italiani-brava-gente
    #Italiani_brava_gente #livre #Italie #colonialisme #fascisme #colonisation #Libye #Ethiopie #Balkans #contre-récit #mystification #responsabilité_historique #Italie_coloniale #colonialisme_italien #histoire #soldats #armée #nationalisme #racisme #autoritarisme #patriarcat #responsabilité_historique #mémoire #impérialisme #impérialisme_fasciste #vérité #résistance #choix #atrocités #idéologie #occupation #répression #impunité #camps_d'internement #Arbe

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

    • I carnefici del Duce

      Non tutti gli italiani sono stati ‘brava gente’. Anzi a migliaia – in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Jugoslavia – furono artefici di atrocità e crimini di guerra orribili. Chi furono ‘i volenterosi carnefici di Mussolini’? Da dove venivano? E quali erano le loro motivazioni?
      In Italia i crimini di guerra commessi all’estero negli anni del fascismo costituiscono un trauma rimosso, mai affrontato. Non stiamo parlando di eventi isolati, ma di crimini diffusi e reiterati: rappresaglie, fucilazioni di ostaggi, impiccagioni, uso di armi chimiche, campi di concentramento, stragi di civili che hanno devastato intere regioni, in Africa e in Europa, per più di vent’anni. Questo libro ricostruisce la vita e le storie di alcuni degli uomini che hanno ordinato, condotto o partecipato fattivamente a quelle brutali violenze: giovani e meno giovani, generali e soldati, fascisti e non, in tanti hanno contribuito a quell’inferno. L’hanno fatto per convenienza o per scelta ideologica? Erano fascisti convinti o soldati che eseguivano gli ordini? O furono, come nel caso tedesco, uomini comuni, ‘buoni italiani’, che scelsero l’orrore per interesse o perché convinti di operare per il bene della patria?

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858151396
      #patrie #patriotisme #Grèce #Yougoslavie #crimes_de_guerre #camps_de_concentration #armes_chimiques #violence #brutalité

  • Communiqué commun et publication d’une analyse préliminaire sur la mort de Roger ‘#Nzoy’ Wilhelm

    Depuis plusieurs mois, Border Forensics enquête sur la mort de Roger ‘Nzoy’ Wilhelm, un Suisse d’origine sud-africaine, tué par la #police à la gare de #Morges (Suisse) le 30 août 2021. Plus de deux ans après sa mort, alors que le déroulement exact des événements reste flou, le #Ministère_public du Canton de Vaud a récemment annoncé sa volonté de rendre une #ordonnance_de_classement et une #ordonnance_de_non-entrée_en_matière.

    Alors que notre enquête sur la mort de Roger ‘Nzoy’ Wilhelm est toujours en cours, et en contribution à la demande de vérité et de justice de la Commission d’enquête indépendante sur la mort de Roger Nzoy Wilhelm, aujourd’hui une analyse préliminaire produite par Border Forensics concernant une partie des événements a été soumise au Ministère public du Canton de Vaud. Cette analyse sera rendu public prochainement.

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    Communiqué de presse : La Commission indépendante et Border Forensics critiquent le ministère public dans l’affaire de l’homicide de Roger Nzoy Wilhelm et publient des preuves ignorées

    Le Zurichois Roger Wilhelm, âgé de 38 ans, a été abattu par un policier le 30 août 2021 à la gare de Morges. Wilhelm a été laissé sur le ventre pendant six minutes et demie, sans que les autres policiers impliqués ne lui prodiguent les premiers soins. Malgré cela, le 10 octobre 2023, le Ministère public du canton de Vaud a annoncé qu’il ne poursuivrait ni l’#homicide ni l’#omission_de_prêter_secours.

    La Suisse ne dispose pas d’une institution indépendante pour enquêter sur les incidents de violence policière, c’est pourquoi un examen et une enquête indépendants de la société civile sur ce cas de décès s’avèrent urgents. Une commission indépendante composée de scientifiques issus des domaines de la médecine, de la psychologie, du droit et des sciences sociales ainsi que l’organisation de recherche scientifique Border Forensics examinent désormais le cas eux- mêmes. Les résultats provisoires de ces recherches ont été présentés aujourd’hui [vendredi 10.11.23] à Lausanne en présence d’Evelyn Wilhelm et de l’avocat Me Ludovic Tirelli, chargé de l’affaire. Ces travaux montrent que la décision du Ministère public doit être remise en question de toute urgence.

    Elio Panese, membre de l’équipe de recherche Border Forensics, a reconstitué à la seconde près le déroulement de l’#homicide à Morges au moyen d’un film. Ce film montre que Roger Wilhelm est resté au sol menotté pendant six minutes et demie alors qu’il avait une blessure par balle et qu’il n’a pas fait d’autres mouvements que de respirer. Cela prouve que les policières/policiers impliqué·es ont négligé de prendre les mesures de #sauvetage et de #réanimation vitales. Le Dr Martin Herrmann, qui fait partie des experts médicaux de la commission (spécialiste FMH en chirurgie générale et traumatologie), a confirmé dans son analyse que les mesures de #premiers_secours nécessaires n’avaient pas été prises, bien que Roger Wilhelm, allongé sur le ventre, ne représentait aucune menace pour les policières/policiers et qu’il effectuait encore des mouvements respiratoires. La question à clarifier devant le tribunal est la suivante : la vie de Roger Wilhelm aurait-elle pu être sauvée par des mesures de premiers secours immédiates prises par la police ?

    Udo Rauchfleisch, professeur émérite de psychologie clinique et membre de la commission, a rédigé un rapport basé sur des dossiers psychiatriques, des entretiens avec des proches, des déclarations de témoins et des séquences vidéo de l’homicide de Roger Wilhelm. Selon ce rapport, la police vaudoise a été appelée pour venir en aide à un homme Noir qui présentait des symptômes de psychose. Selon l’expertise du Prof. Rauchfleisch, Roger Wilhelm n’était en aucune manière et à aucun moment agressif, mais il était stressé et aurait eu besoin d’une #aide_psychologique. Au lieu d’apporter leur aide, les quatre policières/policiers ont accru le #stress_psychologique de Roger Wilhelm. Celui-ci a été considéré comme une menace et a finalement été abattu. C’est pourquoi une autre question décisive se pose, qui doit être clarifiée devant le tribunal : le comportement des policières/policiers était-il adéquat et l’utilisation d’#armes_à_feu était-elle nécessaire et conforme à la loi ?

    La mort de Roger Wilhelm doit être replacée dans le contexte d’autres homicides de personnes Noires par la police en Suisse. Dans le cas de #Mike_Ben_Peter, décédé le 28 février 2018 à la suite d’une intervention policière, le procureur chargé de l’enquête, qui gère également le cas de Roger Nzoy Wilhelm, a demandé à la surprise générale l’acquittement des policiers impliqués lors du procès. Me Brigitte Lembwadio Kanyama, membre du groupe juridique de la Commission, a sévèrement critiqué le traitement des décès survenus à la suite d’interventions policières dans le canton de Vaud. Dans tous les cas, les personnes tuées étaient des personnes Noires. L’avocat Me Philipp Stolkin, membre du groupe juridique de la Commission, a souligné que le #ministère_public devrait être en mesure de mener son enquête indépendamment de la #couleur_de_peau de la victime et du fait qu’une personne soupçonnée d’avoir commis une infraction soit employée par une entité de droit public.

    Selon un autre membre du groupe de la commission, le juriste David Mühlemann, du point de vue des #droits_humains, le ministère public est tenu d’enquêter de manière indépendante, efficace et complète sur de tels décès exceptionnels : « Ce qui est en jeu, ce n’est rien de moins que la confiance du public dans le monopole de la violence de l’État. » En voulant classer l’affaire, le ministère public empêche la possibilité d’une enquête conforme aux droits humains. C’est pourquoi la Commission demande instamment au Ministère public vaudois d’ouvrir une enquête sur l’affaire Roger Nzoy Wilhelm et de porter l’affaire devant le tribunal.

    Vous trouverez plus d’informations sur : https://nzoycommission.org

    https://www.borderforensics.org/fr/actualites/20231110-pr-roger-nzoy-wilhelm

    #border_forensics #architecture_forensique #violences_policières #Suisse #Roger_Wilhelm #justice #impunité

    • Commission d’enquête indépendante sur la mort de Roger Nzoy Wilhelm

      Roger Nzoy Wilhelm a été abattu le 30 août 2021 par un policier de la police régionale à la gare de Morges. Une commission indépendante s’est constituée le 31 mai 2023 pour faire la lumière sur les circonstances de sa mort.

      En Suisse, des agressions policières sont régulièrement commises contre des personnes de couleur, des migrants et des personnes socialement défavorisées. Certaines de ces agressions ont une issue fatale, comme dans le cas de Roger Nzoy Wilhelm. La commission estime qu’il est urgent de faire toute la lumière sur ces décès et de mettre en place un contrôle de l’action de la police par la société civile. C’est pourquoi nous avons décidé de commencer à travailler sur les points suivants :

      - l’élucidation complète des circonstances qui ont conduit à la mort de Roger Nzoy Wilhelm à la gare de Morges le 30 août 2021.
      – l’examen complet de la procédure juridique et policière, des dossiers d’enquête et de l’administration des preuves par la justice. Il s’agit d’examiner si l’enquête a satisfait aux exigences de la procédure pénale en matière d’enquête sur les décès ou dans quelle mesure l’enquête a été déficiente : Comment la scène de crime a-t-elle été sécurisée ? Les témoins ont-ils été correctement interrogés ou ont-ils subi des pressions ? Comment s’est déroulé l’examen médico-légal ?
      - Il s’agit d’examiner si les enquêtes menées dans le cas de Roger Nzoy répondent aux exigences des droits de l’homme en matière d’enquête efficace et indépendante en cas de décès exceptionnel et quels sont les obstacles structurels à l’élucidation des violences policières.
      - la mise en perspective des circonstances qui ont conduit à la mort de Roger Nzoy Wilhelm dans le contexte historique et social en Suisse.

      https://www.nzoycommission.org/fr

  • The Problem of the Unionized War Machine
    https://jewishcurrents.org/the-problem-of-the-unionized-war-machine

    Contrairement à d’autres secteurs, celui de l’industrie de l’armement emploie beaucoup et fournit des #emplois sûrs et bien payés.

    As one anonymous local union president in the industry put it to researcher Karen Bell earlier this year, “my top priority is trying to make sure that we have work in jobs in the United States . . . I don’t make a lot of judgments on anything other than, what can you do to keep the people I represent in work? That’s my job, and to be anything other than that, it would really be a disservice to the people that are paying my salary.” Rather than questioning their role in the industry, unions have reconfirmed their relationships with weapons companies since the start of Israel’s assault on Gaza. Last month, 1,000 IAM members in Arizona and 1,100 UAW members across the Midwest separately ratified new contracts with Raytheon and General Dynamics respectively, during a period when both companies were actively implicated in the mass killing of Palestinian civilians. When the Raytheon contract deal was announced on October 22nd, one IAM leader said he was “proud to support our Raytheon members and excited for this contract’s positive impact on their lives”—a statement that highlights the seemingly irreconcilable conflict between the economic interests of weapons industry workers and the anti-war, anti-genocide movement.

    #états-unis #armes

  • Au #Darfour, la terreur à huis clos : « Ils veulent nous rayer de la carte »

    Depuis le 15 avril et le début de la #guerre au #Soudan, plus de 420 000 personnes se sont réfugiées dans l’est du #Tchad. Principalement issues des communautés non arabes du Darfour, elles témoignent d’attaques délibérées contre les civils, de multiples #crimes_de_guerre, et dénoncent un #nettoyage_ethnique.

    Un mélange de boue et de sang. Des corps emportés par le courant. Des cris de détresse et le sifflement des balles transperçant l’eau marronasse. C’est la dernière image qui hante Abdelmoneim Adam. Le soleil se levait à l’aube du 15 juin sur l’oued Kaja – la rivière saisonnière gonflée par les pluies qui traverse #El-Geneina, capitale du Darfour occidental – et des milliers de personnes tentaient de fuir la ville.

    Partout, des barrages de soldats leur coupaient la route. « Ils tiraient dans le tas, parfois à bout portant sur des enfants, des vieillards », se souvient Abdelmoneim, qui s’est jeté dans l’eau pour échapper à la mort. Des dizaines d’autres l’ont suivi. Une poignée d’entre eux seulement sont arrivés indemnes sur l’autre rive. Lui ne s’est plus jamais retourné.

    Ses sandales ont été emportées par les flots, l’obligeant à poursuivre sa route pieds nus, à la merci des épines. Attendant le crépuscule, il a coupé à travers champs, sous une pluie battante, évitant une dizaine de check-points tenus par les paramilitaires et slalomant entre les furgan, les campements militaires des miliciens arabes qui encerclaient El-Geneina. Il lui a fallu 13 heures pour parcourir la vingtaine de kilomètres qui le séparait du Tchad.

    Le Darfour s’est embrasé dans le sillage de la guerre amorcée le 15 avril à Khartoum entre l’armée régulière dirigée par le général Abdel Fattah al-Bourhane et les #Forces_paramilitaires_de_soutien_rapide (#FSR) du général Hemetti. Dans cette région à l’ouest du pays, meurtrie par les violences depuis 2003, le #conflit a pris une tournure ethnique, ravivant des cicatrices jamais refermées entre communautés.

    Dans la province du Darfour occidental qui borde le Tchad, l’armée régulière s’est retranchée dans ses quartiers généraux, délaissant le contrôle de la région aux FSR. Ces dernières ont assis leur domination en mobilisant derrière elles de nombreuses #milices issues des #tribus_arabes de la région.

    À El-Geneina, bastion historique des #Massalit, une communauté non arabe du Darfour à cheval entre le Soudan et le Tchad, environ 2 000 volontaires ont pris les armes pour défendre leur communauté. Ces groupes d’autodéfense, qui se battent aux côtés d’un ancien groupe rebelle sous les ordres du gouverneur Khamis Abakar, ont rapidement été dépassés en nombre et sont arrivés à court de munitions.

    Après avoir accusé à la télévision les FSR et leurs milices alliées de perpétrer un « génocide », le gouverneur massalit Khamis Abakar a été arrêté le 14 juin par des soldats du général Hemetti. Quelques heures plus tard, sa dépouille mutilée était exhibée sur les réseaux sociaux. Son assassinat a marqué un point de non-retour, le début d’une hémorragie.
    Démons à cheval

    En trois jours, les 15, 16 et 17 juin, El-Geneina a été le théâtre de massacres sanglants perpétrés à huis clos. La ville s’est vidée de plus de 70 % de ses habitant·es. Des colonnes de civils se pressaient à la frontière tchadienne, à pied, à dos d’âne, certains poussant des charrettes transportant des corps inertes. En 72 heures, plus de 850 blessés de guerre, la plupart par balles, ont déferlé sur le petit hôpital d’Adré. « Du jamais-vu », confie le médecin en chef du district. En six mois, plus de 420 000 personnes, principalement massalit, ont trouvé refuge au Tchad.

    Depuis le début du mois de septembre, les affrontements ont baissé en intensité mais quelques centaines de réfugié·es traversent encore chaque jour le poste-frontière, bringuebalé·es sur des charrettes tirées par des chevaux faméliques. Les familles, assises par grappes sur les carrioles, s’accrochent aux sangles qui retiennent les tas d’affaires qu’elles ont pu emporter : un peu de vaisselle, des sacs de jute remplis de quelques kilos d’oignons ou de patates, des bidons qui s’entrechoquent dans un écho régulier, des chaises en plastique qui s’amoncellent.

    Les regards disent les longues semaines à affronter des violences quotidiennes. « Les milices arabes faisaient paître leurs dromadaires sur nos terres. Nous n’avions plus rien à manger. Ils nous imposaient des taxes chaque semaine », témoigne Mariam Idriss, dont la ferme a été prise d’assaut. Son mari a été fauché par une balle. Dans l’immense campement qui entoure la bourgade tchadienne d’Adré, où que se tourne le regard, il y a peu d’hommes.

    « Les tribus arabes et les forces de Hemetti se déchaînent contre les Massalit et plus largement contre tous ceux qui ont la #peau_noire, ceux qu’ils appellent “#ambay”, les “esclaves” », dénonce Mohammed Idriss, un ancien bibliothécaire dont la librairie a été incendiée durant les attaques. Le vieil homme, collier de barbe blanche encadrant son visage, est allongé sur un lit en fer dans l’obscurité d’une salle de classe désaffectée. « On fait face à de vieux démons. Les événements d’El-Geneina sont la continuation d’une opération de nettoyage ethnique amorcée en 2003. Les #Janjawid veulent nous rayer de la carte », poursuit-il, le corps prostré mais la voix claquant comme un coup de tonnerre.

    Les « Janjawid », « les démons à cheval » en arabe. Ce nom, souvent prononcé avec effroi, désigne les milices essentiellement composées de combattants issus des tribus arabes nomades qui ont été instrumentalisées en 2003 par le régime d’Omar al-Bachir dans sa guerre contre des groupes rebelles du Darfour qui s’estimaient marginalisés par le pouvoir central. En 2013, ces milices sont devenues des unités officielles du régime, baptisées Forces de soutien rapide (FSR) et placées sous le commandement du général Mohammed Hamdan Dagalo, alias Hemetti.

    À la chute du dictateur Omar al-Bachir en avril 2019, Hemetti a connu une ascension fulgurante à la tête de l’État soudanais jusqu’à devenir vice-président du Conseil souverain. Partageant un temps le pouvoir avec le chef de l’armée régulière, le général Bourhane, il est désormais engagé dans une lutte à mort pour le pouvoir.
    Un baril de poudre prêt à exploser

    Assis sur des milliards de dollars amassés grâce à l’exploitation de multiples #mines d’#or, et grâce à la manne financière liée à l’envoi de troupes au Yémen pour y combattre comme mercenaires, Hemetti est parvenu en quelques années à faire des FSR une #milice_paramilitaire, bien équipée et entraînée, forte de plus de 100 000 combattants, capable de concurrencer l’armée régulière soudanaise. Ses troupes gardent la haute main sur le Darfour. Sa région natale, aux confins de la Libye, du Tchad et de la Centrafrique, est un carrefour stratégique pour les #ressources, l’or notamment, mais surtout, en temps de guerre, pour les #armes qui transitent par les frontières poreuses et pour le flux de combattants recrutés dans certaines tribus nomades du Sahel, jusqu’au Niger et au Mali.

    Depuis la chute d’Al-Bachir, les milices arabes du Darfour, galvanisées par l’ascension fulgurante de l’un des leurs à la tête du pouvoir, avaient poursuivi leurs raids meurtriers sur les villages et les camps de déplacé·es non arabes du Darfour, dans le but de pérenniser l’occupation de la terre. Avant même le début de la guerre, les communautés à l’ouest du Darfour étaient à couteaux tirés.

    La ville d’El-Geneina était segmentée entre quartiers arabes et non arabes. Les kalachnikovs se refourguaient pour quelques liasses de billets derrière les étalages du souk. La ville était peuplée d’un demi-million d’habitant·es à la suite des exodes successifs des dizaines de milliers de déplacé·es, principalement des Massalit. El-Geneina était devenue un baril de poudre prêt à exploser. L’étincelle est venue de loin, le 15 avril, à Khartoum, servant de prétexte au déchaînement de violence à plus de mille kilomètres à l’ouest.

    Mediapart a rencontré une trentaine de témoins ayant fui les violences à l’ouest du Darfour. Parmi eux, des médecins, des commerçants, des activistes, des agriculteurs, des avocats, des chefs traditionnels, des fonctionnaires, des travailleurs sociaux. Au moment d’évoquer « al-ahdath », « les événements » en arabe, les rescapés marquent un temps de silence. Souvent, les yeux s’embuent, les mains s’entortillent et les premiers mots sont bredouillés, presque chuchotés.

    « Madares, El-Ghaba, Thaoura, Jamarek, Imtidad, Zuhur, Tadamon » : Taha Abdallah énumère les quartiers d’El-Geneina anciennement peuplés de Massalit qui ont aujourd’hui été vidés de leurs habitant·es. Les maisons historiques, le musée, l’administration du registre civil, les archives, les camps de déplacé·es ont été détruits. « Il n’y a plus de trace, ils ont tout effacé. Tout a été nettoyé et les débris ramassés avec des pelleteuses », déplore le membre de l’association Juzur, une organisation qui enquêtait sur les crimes commis à l’ouest du Darfour.

    Sur son téléphone, l’un de ses camarades, Arbab Ali, regarde des selfies pris avec ses amis. Sur chaque photo, l’un d’entre eux manque à l’appel. « Ils ne sont jamais arrivés ici. » Sur l’écran, son doigt fait défiler des images de mortiers, de débris de missiles antiaériens tirés à l’horizontale vers des quartiers résidentiels. « J’ai retrouvé la dépouille d’un garçon de 20 ans, le corps presque coupé en deux », s’étouffe le jeune homme assis à l’ombre d’un rakuba, un préau de paille.

    Ce petit groupe de militants des droits humains dénonce une opération d’élimination systématique ciblant les élites intellectuelles et politiques de la communauté massalit, médecins, avocats, professeurs, ingénieurs ou activistes. À chaque check-point, les soldats des FSR ou des miliciens sortaient leur téléphone et faisaient défiler le nom et les photos des personnes recherchées. « S’ils trouvent ton nom sur la liste, c’est fini pour toi. »

    L’avocat Jamal Abdallah Khamis, également membre de l’association Juzur, tient quant à lui une autre liste. Sur des feuilles volantes, il a soigneusement recopié les milliers de noms des personnes blessées, mortes ou disparues au cours des événements à El-Geneina. Parmi ces noms, se trouve notamment celui de son mentor, l’avocat Khamis Arbab, qui avait constitué un dossier documentant les attaques répétées des milices arabes sur un camp de déplacé·es bordant la ville. Il a été enlevé à son domicile, torturé, puis son corps a été jeté. Les yeux lui avaient été arrachés.

    « Tous ceux qui tentaient de faire s’élever les consciences, qui prêchaient pour un changement démocratique et une coexistence pacifique entre tribus, étaient dans le viseur », résume Jamal Abdallah Khamis. Les femmes n’ont pas échappé à la règle. Zahra Adam était engagée depuis une quinzaine d’années dans une association de lutte contre les violences faites aux femmes. Son nom apparaissait sur les listes des miliciens. Elle était recherchée pour son travail de documentation des viols commis dans la région. Rien qu’entre le 24 avril et le 20 mai, elle a recensé 60 cas de viols à El-Geneina. « Ensuite, on a dû arrêter de compter. L’avocat chargé du dossier a été éliminé. Au total, il y a des centaines de victimes, ici, dans le camp. Mais la plupart se terrent dans le silence », relate-t-elle.

    De nombreuses militantes ont été ciblées. Rabab*, une étudiante de 23 ans engagée dans un comité de quartier, avait été invitée sur le plateau d’une radio locale quelques jours avant le début de la guerre. Sur les ondes, elle avait alerté sur le risque imminent de confrontations entre communautés. Début juin, elle a été enlevée dans le dortoir de l’université par des soldats enturbannés, puis embarquée de force, les yeux bandés, vers un compound où une soixantaine de filles étaient retenues captives. « Ils disaient : “Vous ne reverrez jamais vos familles.” Ils vendaient des filles à d’autres miliciens, parfois se les échangeaient contre un tuk-tuk », témoigne-t-elle d’une voix éteinte, drapée d’un niqab noir, de larges cernes soulignant ses yeux.

    Depuis 2003, au Darfour, le corps des femmes est devenu un des champs de bataille. « Le viol est un outil du nettoyage ethnique. Ils violent pour humilier, pour marquer dans la chair leur domination. Ils sont fiers de violer une communauté qu’ils considèrent comme inférieure », poursuit Zahra, ajoutant que même des fillettes ont été violées au canon de kalachnikov.

    Selon plusieurs témoins rencontrés par Mediapart, dans les jours qui ont suivi les massacres de la mi-juin, plusieurs chefs de milices arabes, en coordination avec les Forces de soutien rapide, ont entrepris de dissimuler les traces du carnage. Les équipes du Croissant-Rouge soudanais ont été chargées par un « comité sanitaire » de ramasser les corps qui jonchaient les avenues.

    « L’odeur était pestilentielle. Les cadavres pourrissaient au soleil, parfois déchiquetés par les chiens », souffle Mohammed*, le regard vide. « Chaque jour, on remplissait la benne d’un camion à ras bord. Elle pouvait contenir plus d’une cinquantaine de corps et les camions faisaient plusieurs allers-retours », détaille Ahmed*, un autre témoin forcé de jouer les fossoyeurs pendant dix jours, « de 8 à 14 heures ». Les équipes avaient interdiction de prendre des photos et de décompter le nombre de morts. Il leur était impossible de savoir où les camions se rendaient.
    Une enquête de la Cour pénale internationale

    Échappant aux regards des soldats, l’étudiant de 28 ans s’est glissé entre la cabine et la benne de l’un des camions. Le chauffeur a pris la direction d’un site appelé Turab El-Ahmar, à l’ouest de la ville. « Les trous étaient déjà creusés. À plusieurs reprises, un camion arrivait, levait la benne et déversait les corps », se souvient-il. Puis une pelleteuse venait reboucher la fosse.

    Quartier par quartier, maison par maison, ils ont ratissé la ville d’El-Geneina. « En tout, il y a eu au moins 4 000 corps enterrés », estime Mohammed. Début septembre, le Commissariat des Nations unies pour les droits de l’homme a annoncé avoir reçu des informations crédibles sur l’existence de treize fosses communes.

    Les paramilitaires nient toute responsabilité dans ce qu’ils dépeignent comme un conflit ethnique entre communautés de l’ouest du Darfour. Malgré les demandes de Mediapart, la zone reste inaccessible pour les journalistes.

    « Entre le discours des FSR et celui des victimes, la justice tranchera », conteste Arbab Ali avec une once d’optimisme. Le 13 juillet, la Cour pénale internationale (CPI) a annoncé l’ouverture d’une nouvelle enquête pour « crimes de guerre » au Darfour. Elle vient s’ajouter aux investigations démarrées en 2005 à la suite de la guerre qui, sous le régime d’Omar al-Bachir, avait déjà fait plus de 300 000 morts dans la région.

    Pourtant, il règne chez les rescapé·es du Darfour un sentiment de déjà-vu. À ceci près que la guerre actuelle ne soulève pas la même indignation internationale qu’en 2003. Beaucoup de réfugié·es n’attendent plus rien de la justice internationale. Vingt ans après les premières enquêtes de la CPI, aucune condamnation n’a encore été prononcée.

    Alors, dans les travées du camp, le choc du déplacement forcé laisse place à une volonté de revanche. Certains leaders massalit ont pris langue avec l’armée régulière. Une contre-offensive se prépare. Le camp bruisse de rumeurs sur des mouvements de troupes et des livraisons d’armes au Darfour. Côté tchadien, les humanitaires et les autorités s’attendent à ce que la situation dégénère à nouveau.

    Au Soudan, le conflit ne se résume plus seulement en un affrontement entre deux armées. Aujourd’hui, chaque clan et chaque tribu joue sa survie au milieu de la désintégration de l’État. Les voix dissidentes, opposées à une guerre absurde, sont criminalisées par les belligérants et souvent emprisonnées. La guerre est partie pour durer. Et les civils, prisonniers d’un engrenage meurtrier, en payent le prix.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/131123/au-darfour-la-terreur-huis-clos-ils-veulent-nous-rayer-de-la-carte
    #réfugiés_soudanais #génocide

  • Ventes d’#armes : la #France complice de la guerre à #Gaza
    https://www.humanite.fr/monde/crimes-de-guerre/ventes-darmes-la-france-complice-de-la-guerre-a-gaza

    En moyenne, Paris vend pour 20 millions d’euros par an de composants militaires à Israël. Ces exportations pourraient rendre notre pays complice des violations des conventions internationales et du droit humanitaire commises dans la guerre à Gaza.

    Gaza : Emmanuel Macron exhorte Israël à arrêter de tuer des civils « sans raison » ni « légitimité »
    https://www.bfmtv.com/politique/elysee/gaza-emmanuel-macron-exhorte-israel-a-arreter-de-tuer-des-civils-sans-raison-

    #duplicité #sans_vergogne

    • En même temps, on va peut-être commencer à respirer, en France, parce qu’il semble bel et bien avoir dit à la BBC : « So there is no reason for that and no legitimacy. So we do urge Israel to stop. » Ça me semble assez énorme :
      https://www.bbc.com/news/world-europe-67356581

      Speaking the day after a humanitarian aid conference in Paris about the war in Gaza, Mr Macron said the “clear conclusion” of all governments and agencies present at that summit was “that there is no other solution than first a humanitarian pause, going to a ceasefire, which will allow [us] to protect... all civilians having nothing to do with terrorists”.

      “De facto - today, civilians are bombed - de facto. These babies, these ladies, these old people are bombed and killed. So there is no reason for that and no legitimacy. So we do urge Israel to stop.”

      [edit - il y a la vidéo de l’entretien dans l’article, il répond dans un anglais pas transcendant, mais c’est très clair]

    • Non, pas d’ironie de ma part. Je déteste ce gugusse, mais pour le coup sa déclaration n’est pas anodine. Évidemment, trop tard, trop incohérent, trop « je décide seul de tout », mais c’est (beaucoup) mieux que rien.

      Au moins les gens arrêteront de se faire traiter d’antisémites quand ils se contenteront de dire la même chose que ce que vient de dire Macron. Plutôt que de commenter le retournement de veste de Macron, je suis surtout curieux de voir à quelle vitesse et avec quel entrain nos animateurs de plateaux vont adopter cette nouvelle posture officielle, alors que ça leur semblait si extraterrestre hier encore (je pense aux deux andouilles dont tu remarquais à quel point ils surjouaient l’indignation face à Villepin - je suis certain qu’en en moins de 24 heures ils vont apprendre à surjouer l’indignation quand quelqu’un refusera de condamner le massacre de civils palestiniens dans les bombardements israéliens).

      Sinon, je vois des gens qui commentent le titre de BFM (Gaza : Emmanuel Macron exhorte Israël à arrêter de tuer des civils « sans raison » ni « légitimité »), ironisant sur le fait qu’ainsi Macron suggérerait qu’il y a des situations où il y aurait des raisons et de la légitimité à tuer les civils. Or Macron n’a pas du tout dit ça, et la tournure est celle de BFM, pas du tout celle de sa déclaration.

      (Je n’aime pas Macron, mais ça ne rend service à personne de déformer ses propos. Surtout quand, enfin, on a un membre du G7 qui appelle ouvertement au cessez-le-feu et déclare comme illégitime le fait pour Israël de tuer enfants, femmes et vieillards.)

    • Un discours clair et fort de Clare Daly, députée irlandaise au parlement européen !
      Alors qu’une grande partie de la gauche française va aller manifester avec ceux qui soutiennent les crimes contre l’humanité à Gaza, Faure, Tondelier, Roussel, main dans la main avec Ciotti et Habib demain ! Répugnant.
      https://video.twimg.com/ext_tw_video/1723391585323274240/pu/vid/avc1/720x720/KIuM-33dIeLNpxdN.mp4?tag=12


      https://twitter.com/CharliesIngalls/status/1723391829473743281

      Violente charge de la députée irlandaise Clare Daly contre Ursula von der Leyen, la Présidente de la Commission européenne.

      De nombreux hauts fonctionnaires de l’Union européenne lui reprochent son soutien « inconditionnel » à Israël. Une pétition regroupant des centaines de signataires lui a même été adressée.

      Le 13 octobre, elle s’était rendu en Israël sans prévenir les capitales européennes de sa démarche, une initiative très peu appréciée à Bruxelles puisque la politique étrangères de l’UE n’est pas du tout dans ses prérogatives.

    • « Sous les injures, sous les menaces devenues permanentes, sous une terreur exercée contre nous aussi bien en France qu’à Bruxelles pour nous faire taire, ce que nous n’avons cessé de dire est aujourd’hui dit par le Président #Macron !

      #CessezLeFeu Maintenant ! #CeasefireInGazaNOW » Younous Omarjee

      https://video.twimg.com/amplify_video/1723236875719053312/vid/avc1/720x732/zdr-dEfl1dRKzIBI.mp4?tag=14

      https://twitter.com/younousomarjee/status/1723236967867920711
      Encore une fois, il faut dire merci à LFI d’avoir tenu la ligne qui était la bonne, malgré les attaques des médias, des adversaires et des alliés.

      Et il faut espérer que Macron soutienne la demande de cessez-le-feu pour de vrai. Pas seulement les mots, mais des actes.

      https://blogs.mediapart.fr/jadran-svrdlin/blog/091123/defile-de-faux-semblants-et-de-vrais-antisemites

    • Macron « exhorte Israël à cesser » les bombardements sur Gaza, Netanyahu lui répond sèchement - Nice-Matin
      https://www.nicematin.com/conflits/macron-exhorte-israel-a-cesser-les-bombardements-sur-gaza-netanyahu-lui-r

      Le Premier ministre israélien, Benjamin Netanyahu, a réagi aux propos de M. Macron, en soulignant que « la responsabilité de tout tort fait aux civils incombe au Hamas », qui a déclenché la guerre avec les massacres du 7 octobre et qui utilise des civils comme « boucliers humains ».

    • Macron en plusieurs actes :

      Lundi, soutien « inconditionnel » à Israël.

      Mardi, il propose que la France participe à une coalition internationale pour détruire le Hamas.

      Mercredi, il ne fait pas voter une proposition à l’ONU de cessez-le-feu humanitaire.

      Jeudi, il fait voter une proposition à l’ONU de cessez-le-feu humanitaire… et exporte des armes vers Israël.

      Vendredi, il envoie un porte-hélicoptères pour prendre en charge les blessés de Gaza… capacité 4 personnes.

      Samedi, il explique qu’Israël doit tout arrêter et s’émeut des morts civils, lui qui voulait le mardi participer à une coalition internationale et apportait un soutien « inconditionnel ».

      Dimanche, il ne participera pas à la marche contre l’antisémitisme.

      Toute cette séquence résume Emmanuel Macron. Aucune cohérence. Aucune colonne vertébrale. Et par conséquent, et depuis longtemps, plus aucune crédibilité à l’internationale.

  • Los estibadores de Barcelona deciden “no permitir la actividad” de barcos que envíen armas a Palestina e Israel

    Los estibadores del puerto de Barcelona han decidido “no permitir la actividad de barcos que contengan material bélico”. Así lo han explicado en un comunicado que se ha hecho público tras una asamblea del comité de empresa.

    La Organización de #Estibadores_Portuarios_de_Barcelona (#OEPB), el sindicato mayoritario entre los 1.200 estibadores barceloneses, apunta que han tomado esta decisión para “proteger a la población civil, sea del territorio que sea”.

    Con todo, los trabajadores aseguran un “rechazo absoluto a cualquier forma de violencia” y ven como una “obligación y un compromiso” defender “con vehemencia” la Declaración Universal de los Derechos Humanos. Unos derechos, dicen, que están siendo “violados” en Ucrania, Israel o en el territorio palestino.

    De esta manera, los trabajadores se comprometen a no cargar, descargar ni facilitar las tareas de cualquier buque que contenga armas. Ahora bien, los estibadores no tienen “capacidad para saber de facto que hay en los contenedores”, han afirmado a este diario.

    Los trabajadores se ponen en manos de ONG y entidades de ayuda humanitaria que sí puedan tener conocimiento sobre envíos de armas desde el puerto barcelonés. En esta línea, recuerdan el boicot que ya llevaron a cabo en 2011 en el marco de la guerra de Libia, durante la cual colaboraron con diversas entidades para entorpecer el envío de material bélico y, a su vez, se facilitó el envió de agua y alimentos.

    A pesar de que el Gobierno ha asegurado que no prevé exportar a Israel armas letales que se puedan usar en Gaza, los estibadores son conscientes de que, sólo en 2023, España ha comprado material militar a Israel por valor de 300 millones de euros, unido a otros 700 millones comprometidos en adquisición de armamento para los próximos años.

    Los trabajadores insisten en que con este comunicado no se están posicionado políticamente en el conflicto, simplemente abogan por el alto al fuego y la distribución de ayuda humanitaria. “No es un comunicado político, sólo queremos que se agoten todas las vías de diálogo antes de usar la violencia”.

    Este argumento fue el mismo que estos trabajadores portuarios usaron para negarse a dar servicio a los cruceros en los que la Policía Nacional se alojó durante los días previos al 1 de Octubre. En aquella ocasión también aseguraron que tomaban la decisión “en defensa de los derechos civiles”.

    Con este gesto, los estibadores se suman a otros colectivos de trabajadores portuarios, como los belgas, que también han anunciado que no permitirán el envío de material militar a Israel o Palestina. La del boicot es una estrategia que no es nueva: estibadores de diversos lugares del mundo ya la han llevado a cabo en momentos crudos del conflicto durante los últimos años. Por ejemplo durante el conflicto en la Franja de Gaza de 2008 y 2009, estibadores de Italia, Sudáfrica y Estados Unidos ya se negaron a a manipular cargamentos provenientes de Israel.

    https://www.eldiario.es/catalunya/estibadores-barcelona-deciden-no-permitir-actividad-barcos-envien-armas-pal
    #Barcelone #résistance #armes #armement #Israël #Palestine

    • Espagne : les #dockers du #port de Barcelone refusent de charger les #navires transportant des armes à destination d’Israël

      - « Aucune cause ne justifie la mort de civils », déclare le syndicat des dockers OEPB dans un #communiqué

      Les dockers du port espagnol de Barcelone ont annoncé qu’ils refuseraient de charger ou de décharger des navires transportant des armes à destination d’Israël, à la lumière des attaques de ce pays contre Gaza.

      « En tant que collectif de travailleurs, nous avons l’obligation et l’engagement de respecter et de défendre avec véhémence la Déclaration universelle des droits de l’homme », a déclaré l’OEPB, le seul syndicat représentant quelque 1 200 dockers du port, dans un communiqué.

      « C’est pourquoi nous avons décidé en assemblée de ne pas autoriser les navires contenant du matériel de guerre à opérer dans notre port, dans le seul but de protéger toute population civile », a ajouté le communiqué, notant qu’"aucune cause ne justifie la mort de civils".

      L’OEPB appelle à un cessez-le-feu immédiat et à un règlement pacifique des conflits en cours dans le monde, et notamment du conflit israélo-palestinien.

      Les Nations unies devraient abandonner leur position de complicité, due à l’inaction ou à leur renoncement dans l’exercice de leurs fonctions, a ajouté le communiqué.

      Israël mène, depuis un mois, une offensive aérienne et terrestre contre la Bande de Gaza, à la suite de l’attaque transfrontalière menée par le mouvement de résistance palestinien Hamas le 7 octobre dernier.

      Le ministère palestinien de la Santé a déclaré, mardi, que le bilan des victimes de l’intensification des attaques israéliennes sur la Bande de Gaza depuis le 7 octobre s’élevait à 10 328 morts.

      Quelque 4 237 enfants et 2 719 femmes figurent parmi les victimes de l’agression israélienne, a précisé le porte-parole du ministère, Ashraf al-Qudra, lors d’une conférence de presse.

      Plus de 25 956 autres personnes ont été blessées à la suite des attaques des forces israéliennes sur Gaza, a-t-il ajouté.

      Le nombre de morts israéliens s’élève quant à lui à près de 1 600, selon les chiffres officiels.

      Outre le grand nombre de victimes et les déplacements massifs, les approvisionnements en produits essentiels viennent à manquer pour les 2,3 millions d’habitants de la Bande de Gaza, en raison du siège israélien, qui s’ajoute au blocus imposé par Israël à l’enclave côtière palestinienne.

      https://www.aa.com.tr/fr/monde/espagne-les-dockers-du-port-de-barcelone-refusent-de-charger-les-navires-transportant-des-armes-%C3%A0-destination-disra%C3%ABl/3046909

    • #Genova, Barcellona, #Sidney. I lavoratori portuali si rifiutano di caricare le navi con le armi per Israele

      Diverse organizzazioni di lavoratori portuali hanno indetto mobilitazioni e iniziative per protestare contro i bombardamenti della striscia di #Gaza. Venerdì prossimo a Genova si svolgerà il presidio indetto dai portuali del capoluogo ligure. La mobilitazione raccoglie l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. I lavoratori dello scalo genovese si rifiutano di gestire l’imbarco di carichi di armi diretti in Israele (e non solo). Un’iniziativa simile è in atto nel porto di Sidney, in Australia, dove si protesta contro l’attracco di una nave della compagnia israeliana #Zim. All’appello dei colleghi palestinesi hanno aderito ieri anche i lavoratori dello scalo di Barcellona, annunciando che impediranno “le attività delle navi che portano materiale bellico”. Come lavoratori, si legge nel comunicato degli spagnoli, “difendiamo con veemenza la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo“, aggiungendo che “nessuna causa giustifica il sacrificio dei civili”. In Belgio a rifiutarsi di caricare armi sono da alcune settimane gli addetti aeroportuali che nel comunicato spiegano “caricare e scaricare ordigni bellici contribuisce all’uccisione di innocenti“. Solidarietà con i lavoratori palestinesi è arrivata inoltre dal sindacato francese Cgt, così come è molto attivo il coordinamento dei sindacati greci #Pame.

      Negli Stati Uniti, nei pressi di Seattle, sono invece stati un centinaio di attivisti a bloccare il porto di #Tacoma, mossi dal sospetto che la #Cape_Orlando, nave statunitense alla fonda, trasportasse munizioni ed armamenti per Israele. La nave era già stata fermata alcuni giorni prima nello scalo di #Oakland, nella baia di San Francisco. Iniziative di questo genere si stanno moltiplicando. Nei giorni scorsi gli attivisti avevano bloccato tutte le entrate di un impianto della statunitense #Boeing destinato alla fabbricazione di armamenti nei pressi di St Louis. Manifestazioni si sono svolte alla sede londinese di #Leonardo, gruppo italiano che ad Israele fornisce gli elicotteri Apache. Il 26 ottobre scorso un centinaio di persone avevano invece bloccato l’accesso alla filiale britannica dell’azienda di armi israeliana #Elbit_Systems.

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/11/07/genova-barcellona-sidney-i-lavoratori-portuali-si-rifiutano-di-caricare-le-navi-con-le-armi-per-israele/7345757
      #Gênes

    • La logistica di guerra

      Venerdì 10 novembre i lavoratori del porto di Genova hanno lanciato un blocco della logistica di guerra. I porti sono uno snodo fondamentale della circolazione delle armi impiegate in ogni dove.
      A Genova è stato osservato un carico di pannelli per pagode militari che verrà destinato ad una delle navi della compagnia saudita Bahri.
      Dal terminal dei traghetti nelle scorse settimane sono stati caricati camion militari dell’Iveco destinati alla Tunisia, con ogni probabilità destinati alla repressione dei migranti.
      Le organizzazioni operaie palestinesi hanno fatto appello alla solidarietà internazionalista, alla lotta degli sfruttati contro tutti i padroni a partire da quelli direttamente coinvolti nel conflitto.
      Nel porto di Genova opera una compagnia merci, l’israeliana ZIM, che il 10 novembre gli antimilitaristi puntano a bloccare.
      Inceppare il meccanismo è un obiettivo concreto che salda l’opposizione alla guerra con la lotta alla produzione e circolazione delle armi.
      L’appuntamento per il presidio/picchetto è alle 6 del mattino al varco San Benigno.
      Ne abbiamo parlato con Christian, un lavoratore del porto dell’assemblea contro la guerra e la repressione.

      https://www.rivoluzioneanarchica.it/genova-fermare-la-logistica-di-guerra
      #logistique

    • Porti bloccati contro l’invio di armi a Israele

      Genova, Barcellona, #Oackland, #Tacoma, Sidney. I lavoratori portuali si rifiutano di caricare le navi con le armi per Israele

      L’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele” è stato raccolto dai sindacati in diversi paesi.

      Diverse organizzazioni di lavoratori portuali hanno indetto mobilitazioni e iniziative per protestare contro i bombardamenti della striscia di Gaza. Venerdì prossimo a Genova si svolgerà il presidio indetto dai portuali del capoluogo ligure. La mobilitazione raccoglie l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. I lavoratori dello scalo genovese si rifiutano di gestire l’imbarco di carichi di armi diretti in Israele (e non solo).

      “Mentre da quasi due anni in Ucraina si combatte una guerra fra blocchi di paesi capitalisti, mentre lo stato d’Israele massacra i palestinesi, mentre la guerra nucleare è dietro l’angolo, il Porto di Genova continua a caratterizzarsi come snodo della logistica di guerra: imbarchi di camion militari diretti alla Tunisia per il contrasto dei flussi migratori, passaggio di navi della ZIM, principale compagnia navale israeliana, nuovi materiali militari per l’aeronautica Saudita pronti per la prossima Bahri. Questo è quello che sta dietro ai varchi del porto di Genova. Basta traffici di armi in porto. Solidarietà internazionalista agli oppressi/e palestinesi. Il nemico è in casa nostra. Guerra alla Guerra” si legge nel comunicato che invita alla partecipazione.

      Anche i lavoratori del porto australiano di Sidney, stanno protestando contro l’attracco di una nave della compagnia israeliana Zim. All’appello dei sindacati palestinesi. E’ di ieri la dichiarazione della Organización de Estibadores Portuarios di Barcellona (OEPB) i cui aderenti si rifiuteranno di caricare armi destinate al conflitto israelo-palestinese dal porto catalano. E’ la risposta all’appello lanciato dai sindacati palestinesi per fermare «i crimini di guerra di Israele» sin dall’inizio dell’invasione di Gaza

      In Belgio già da alcune settimane a rifiutarsi di caricare armi sono i lavoratori aeroportuali che nel comunicato spiegano “caricare e scaricare ordigni bellici contribuisce all’uccisione di innocenti“. Solidarietà con i lavoratori palestinesi è arrivata inoltre dal sindacato francese Cgt, così dal sindacato greco Pame che il 2 novembre ha bloccato l’aeroporto di Atene per protesta contro i bombardamenti israeliani.

      Negli Stati Uniti, nei pressi di Seattle, sono invece stati un centinaio di attivisti a bloccare il porto di Tacoma, mossi dal sospetto che la Cape Orlando, nave statunitense alla fonda, trasportasse munizioni ed armamenti per Israele. La nave era già stata fermata alcuni giorni prima nello scalo di Oakland, nella baia di San Francisco. Iniziative di questo genere si stanno moltiplicando. Nei giorni scorsi gli attivisti avevano bloccato tutte le entrate di un impianto della statunitense Boeing destinato alla fabbricazione di armamenti nei pressi di St Louis.

      Manifestazioni si sono svolte alla sede londinese di Leonardo, gruppo italiano che ad Israele fornisce gli elicotteri Apache. Il 26 ottobre scorso un centinaio di persone avevano invece bloccato l’accesso alla filiale britannica dell’azienda di armi israeliana Elbit Systems.

      Di fronte al genocidio dei palestinesi in corso a Gaza, in tutto il mondo sta montando un’ondata di indignazione che chiede il boicottaggio degli apparati militari ed economici di Israele, con un movimento che somiglia molto a quello che portò alla fine del regime di apartheid in Sudafrica.

      A livello internazionale da anni è attiva in tal senso la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) verso Israele che le autorità di Tel Aviv temono moltissimo e contro cui hanno creato un apposito dipartimento, lanciando una contro campagna di criminalizzazione del Bds in vari paesi europei e negli USA. Un tentativo evidentemente destinato a fallire.

      https://www.osservatoriorepressione.info/porti-bloccati-linvio-armi-israele

    • Genova: In centinaia bloccano il porto contro l’invio di armi a Israele

      E’ iniziato all’alba, presso il porto di Genova, il presidio per impedire il passaggio della nave della #ZIM, carica di armamenti e diretta a Israele.

      Dal varco San Benigno già centinaia le persone solidali con il popolo palestinese, tra lavoratori del porto, studenti, cittadini e realtà che vanno dal sindacalismo di base alle associazioni pacifiste e che si sono ritrovati questa mattina uniti sotto gli slogan “la guerra comincia da qui” “fermiamo le navi della morte”. Oltre al varco della ZIM bloccato anche il varco dei traghetti.

      Oltre al varco della ZIM, la principale compagnia logistica di Israele, è stato bloccato anche il varco dei traghetti.

      Il cielo di Genova si è anche illuminato di rosso (clicca qui per il video: https://www.facebook.com/watch/?v=348645561154990) con una serie di torce, a simulare quello che, tutti i giorni, accade a Gaza con l’occupazione militare israeliana: “i popoli in rivolta – dicono camalli e solidali – scrivono la storia”.

      «Sono cinque anni che facciano una serie di blocchi, scioperi, presidi, azioni anche con la comunità europea per contrastare i traffici. Principalmente contro la compagnia Bahri. Nel 2019 siamo riusciti a evitare che una nave dell’azienda saudita caricasse dal porto di Genova armi che sarebbero state utilizzate in Yemen», spiega Josè Nivoi, sindacalista dell’Usb dopo essere stato per 16 anni un lavoratore del porto: «Nella nostra chat abbiamo condiviso anche un piccolo manuale, scritto insieme all’osservatorio Weapon Watch, su come identificare i container che contengono armi. Perché ci sono degli obblighi internazionali, ad esempio, che costringono le compagnie ad applicare una serie di adesivi utili per quando i vigili del fuoco devono intervenire in caso di incendio. Che rendono riconoscibili i carichi. Mentre in altre navi le armi sono facilmente individuabili, visibili ad occhio nudo».

      Nel 2021 il Collettivo autonomo dei lavoratori portuali di Genova, insieme quelli di Napoli e Livorno ha anche cercato di bloccare una nave israeliana che stava trasportando missili italiani a Tel Aviv: «Non siamo riusciti a fermarla perché abbiamo saputo troppo tardi, dalle carte d’imbarco, che cosa trasportava. Ma da quel momento sono iniziate le nostre operazioni in solidarietà con il popolo palestinese. E abbiamo deciso di accogliere l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. Rifiutando di gestire l’imbarco di carichi di armi. Non vogliamo essere complici della guerra».
      A convocare l’iniziativa l’Assemblea contro la guerra e la repressione. “Mentre da quasi due anni in Ucraina si combatte una guerra fra blocchi di paesi capitalisti, mentre lo stato d’Israele massacra i palestinesi, mentre la guerra nucleare è dietro l’angolo, il Porto di Genova continua a caratterizzarsi come snodo della logistica di guerra: imbarchi di camion militari diretti alla Tunisia per il contrasto dei flussi migratori, passaggio di navi della ZIM, principale compagnia navale israeliana, nuovi materiali militari per l’aeronautica Saudita pronti per la prossima Bahri. Questo è quello che sta dietro ai varchi del porto di Genova. Basta traffici di armi in porto. Solidarietà internazionalista agli oppressi/e palestinesi. Il nemico è in casa nostra. Guerra alla Guerra” si legge nel comunicato che invitava alla partecipazione.
      L’iniziativa di oggi raccoglie l’invito dei sindacati palestinesi, che nei giorni scorsi avevano diffuso un appello nel quale chiedono ai lavoratori delle industrie coinvolte di rifiutarsi di costruire armi destinate ad Israele, di rifiutarsi di trasportare armi ad Israele, di passare mozioni e risoluzioni al proprio interno volte a questi obiettivi, di agire contro le aziende complicitamente coinvolte nell’implementare il brutale ed illegale assedio messo in atto da Israele, in particolare se hanno contratti con la vostra istituzione, di mettere pressione sui governi per fermare tutti i commerci militari ed in armi con Israele, e nel caso degli Stati Uniti, per interrompere il proprio sostegno economico diretto.a lottare e a opporci con tutta la nostra forza a questa guerra, boicottandola praticamente con i mezzi che abbiamo a disposizione e quindi chiediamo a tutte e tutti di partecipare al presidio.

      Il collegamento dal porto di Genova con Rosangela della redazione di Radio Onda d’Urto e le interviste ai manifestanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Rosangela-da-Genova.mp3

      Le interviste ai partecipanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/interviste-Rosangela-due.mp3



      Il blocco del molo è poi diventato corteo fino alla sede della compagnia israeliana ZIM dove si è verificato un fitto lancio di uova piene di vernice rossa. La cronaca di Rosangela della Redazione di Radio Onda d’Urto: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Rosi-da-sede-Zim-Genova.mp3

      Ancora interviste ai partecipanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/interviste-Rosangela-tre.mp3

      Corrispondenza conclusiva con un bilancio dell’iniziativa di Riccardo del Collettivo autonomo lavoratori portuali: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Corrispondenza-conclusiva-di-Riccardo-Calp-Genova.mp3

      https://www.osservatoriorepressione.info/genova-centinaia-bloccano-porto-linvio-armi-israele
      #camalli

    • Shutting Down the Port of Tacoma

      Since October 7, the Israeli military has killed over 10,000 people in Palestine, almost half of whom were children. In response, people around the world have mobilized in solidarity. Many are seeking ways to proceed from demanding a ceasefire to using direct action to hinder the United States government from channeling arms to Israel. Despite the cold weather on Monday, November 6, several hundred people showed up at the Port of Tacoma in Washington State to block access to a shipping vessel that was scheduled to deliver equipment to the Israeli military.

      In the following text, participants review the history of port blockades in the Puget Sound, share their experience at the protest, and seek to offer inspiration for continued transoceanic solidarity.
      Escalating Resistance

      On Thursday, November 2, demonstrators protesting the bombing and invasion of Gaza blocked a freeway in Durham, North Carolina and shut down 30th Street Station in Philadelphia. Early on Friday, November 3, at the Port of Oakland in California, demonstrators managed to board the United States Ready Reserve Fleet’s MV Cape Orlando, which was scheduled to depart for Tacoma to pick up military equipment bound for Israel. The Cape Orlando is owned by the Department of Transportation, directed by the Department of Defense, and managed and crewed by commercial mariners. After an hours-long standoff, the Coast Guard finally managed to get the protesters off the boat.

      Afterwards, word spread that there would be another protest when the boat arrived in Tacoma. The event was announced by a coalition of national organizations and their local chapters: Falastiniyat (a Palestinian diaspora feminist collective), Samidoun (a national Palestinian prisoner support network), and the Arab Resource & Organizing Center, which had also participated in organizing the protest in Oakland.

      The mobilization in Tacoma was originally scheduled for 2:30 pm on Sunday, November 5, but the organizers changed the time due to updated information about the ship’s arrival, calling for people to show up at 5 am on Monday. Despite fears that the last-minute change would undercut momentum, several hundred demonstrators turned out that morning. The blockade itself consisted of a continual picket at multiple points, bolstered by quite a few drivers who were willing to risk the authorities impounding their cars.

      All of the workers that the ILWU deployed for the day shift were blocked from loading the ship. Stopping the port workers from loading it was widely understood as the goal of the blockade; unfortunately, however, this did not prevent the military cargo from reaching the ship. Acting as scabs, the United States military stepped in to load it, apparently having been snuck into the port on Coast Guard vessels.

      Now that the fog of war is lifting, we can review the events of the day in detail.

      Drawing on Decades of Port Blockades

      The Pacific Northwest has a long history of port shutdowns.

      In 1984, port workers in the International Longshore and Warehouse Union (ILWU) coordinated with anti-Apartheid activists and refused to unload cargo ships from South Africa. Between 2006 and 2009, the Port Militarization Resistance movement repeatedly blockaded the ports of Olympia and Tacoma to protest against the occupation of Iraq and Afghanistan. In 2011 and 2012, participants in Occupy/Decolonize Seattle organized in solidarity with port workers in the ILWU in Longview and shut down the Port of Seattle, among other ports.

      In 2014, demonstrators blockaded the Port of Tacoma using the slogan Block the Boat, singing “Our ports will be blocked to Israel’s ships until Gaza’s ports are free.” One of the participants was the mother of Rachel Corrie, a student who was murdered in Gaza by the Israeli military in 2002 while attempting to prevent them from demolishing the homes of Palestinian families. In 2015, an activist chained herself to a support ship for Royal Dutch Shell’s exploratory oil drilling plans, using the slogan Shell No. In 2021, Block the Boat protesters delayed the unloading of the Israeli-operated ZIM San Diego ship for weeks. The Arab Resource & Organizing Center played a part in organizing the Block the Boat protests.

      Today, the Port of Tacoma appears to be the preferred loading point for military equipment in the region—perhaps because the Port Militarization Resistance successfully shut down logistics at the Port of Olympia, while Tacoma police were able to use enough violent force to keep the Port of Tacoma open for military shipments to Iraq and Afghanistan. The various port blockades fostered years of organizing between ILWU workers, marginalized migrant truck workers, environmentalists, and anti-war activists. New tactics of kayaktivism emerged out of anti-extractivism struggles in Seattle, where seafaring affinity groups were able to outmaneuver both the Coast Guard and the environmental nonprofit organizations that wanted to keep things symbolic. On one occasion, a kayaking group managed to run a Shell vessel aground without being apprehended. Some participants brought reinforced banners to the demonstration on Monday, November 6, 2023, because they remembered how police used force to clear away less-equipped demonstrators during the “Block the Boat” picket at the Port of Seattle in 2021.

      Over the years, these port blockades have inspired other innovations in the genre. In November 2017, demonstrators blockaded the railroad tracks that pass through Olympia.1 At a time when Indigenous water protector and land defense struggles were escalating and locals wanted to act in solidarity, blockading the port seemed prohibitively challenging, so they chose a section of railroad tracks via which fracking proppants were sent to the port. This occupation was arguably more defensible and effective than a port blockade would have been, lasting well over a week. It may indicate a future field for experimentation.
      Gathering at the Port

      The Port of Tacoma and the nearby ICE detention center are located in an industrial area that also houses a police academy. They are only accessible through narrow choke points; in the past, police have taken advantage of these to target and harass protesters. The preceding action at the Port of Oakland took place in a more urban terrain; as protesters prepared for the ship to dock in Tacoma, concerns grew about the various possibilities for repression. Veterans of the Port Militarization Resistance and other logistically-minded individuals compiled lists of considerations to take into account when carrying out an action at this particular port.

      On Monday morning, people showed up with positive energy and reinforced banners. Hundreds of people coordinated to bring in supplies and additional waves of picketers. The plan was to establish a picket line at every of the three entrances into Pier 7. As it turned out, the police preemptively blocked the entrances, sitting in their vehicles behind the Port fence. Demonstrators marched in circles, chanting, while others gathered material with which to create impromptu barricades.

      Other anarchists remained at a distance, standing by to do jail support and advising the participants on security precautions. Others set up at the nearby casino, investigating and squashing rumors in the growing signal groups and helping to link people to the information or communication loops they needed. Whether autonomously or in conversation with the organizers, all of them did their best to contribute to the unfolding action.

      The demonstration successfully accomplished what some had thought might be impossible, preventing the ILWU workers from loading the military shipment. Unexpectedly, this was not enough. Even seasoned longshoremen were surprised that the military could be brought in to act as scabs by loading the ship.

      Could we have focused instead on blocking the equipment from reaching the port in the first place? According to publicly available shift screens, the cargo that was eventually loaded onto the ship had already arrived at the port before the action’s originally planned 2:30 pm start time on November 5. Considering that Sunday afternoon was arguably the earliest that anyone could mobilize a mass action on such short notice, it is not surprising that the idea of blocking the cargo was abandoned in favor of blocking the ILWU workers. Of course, if the information that military supplies were entering the port had circulated earlier, something else might have been possible.

      The organizers chose the approach of blocking the workers in spite of the tension it was bound to cause with the ILWU Local 23. Our contacts in the ILWU describe the Local 23 president as a Zionist; most workers in Local 23 were supposedly against the action, despite respecting the picket.2 The president allegedly went so far as to suggest bringing in ILWU workers on boats, a plan that the military apparently rejected.

      There were rumors that a flotilla of kayaks was organizing to impede the Orlando’s departure the following morning. In the end, a canoe piloted by members of the Puyallup, Nisqually, and other Coast Salish peoples and accompanied by a few kayakers blocked the ship’s path for a short time on November 6, but nothing materialized for November 7.

      This intervention is an important reminder of the ethical and strategic necessity of working with Indigenous groups who know the land and water and preserve a living memory of struggle against colonial violence that includes repeatedly outmaneuvering the United States military.

      The ship departed, but one Stryker Armored Personnel Carrier that was scheduled for work according the ILWU shift screens was not loaded, presumably due to the picket. Given the military work-crew’s inexperience in loading shipping containers, it’s unclear how much of the shipment was completely loaded in the time allotted for the ship, as ports hold to a strict schedule in order not to disrupt capital’s global supply chains.
      Evaluation

      The main organizers received feedback in the course of the protest and adapted their strategy as the situation changed, shifting their communication to articulate what they were trying to do and explaining their choices rather than simply appealing to their authority as an organization or as Palestinians. Nonetheless, some participants have expressed displeasure about how things unfolded. It was difficult to get comprehensive information about what was going on, and this hindered people from making their own decisions and acting autonomously. Some anarchists who were on the ground report that the vessel was still being loaded when the organizers called off the event; others question the choice not to reveal the fact that the military was loading the equipment while the demonstration still had numbers and momentum.

      It is hard to determine to what extent organizers intentionally withheld information. We believe that it is important to offer constructive feedback and principled criticism while resisting the temptation to make assumptions about others’ intentions (or, at worst, to engage in snitch-jacketing, which can undermine efforts to respond to actual infiltration and security breaches in the movement and often contributes to misdiagnosing the problems in play).

      Cooperating with the authorities—especially at the expense of other radicals—is always unacceptable. This is a staple of events dominated by authoritarian organizations. Fortunately, nothing of this kind appears to have occurred during the blockade on November 6. Those on either side of this debate should be careful to resist knee-jerk reactions and to avoid projecting bad intentions onto imagined all-white “adventurists” or repressive “peace police.”

      In that spirit, we will spell out our concern. The organizers simultaneously announced that the weapons had been loaded onto the ship, and at the same time, declared victory. This fosters room for suspicion that the original intention had been to “block the boat” symbolically without actually hampering the weapons shipment, in order to create the impression of achieving a “movement win” without any substantive impact. Such empty victories can deflate movements and momentum, sowing distrust in the hundreds of people who showed up on short notice with the intention of stopping weapons from reaching Israel. It might be better to acknowledge failure, admitting that despite our best efforts, the authorities succeeded in their goal, and affirming that we have to step up our efforts if we want to save lives in Gaza. We need organizers to be honest with us so we know what we are up against.

      It’s important to highlight that ultimately it was the military that loaded the ship, not the ILWU. This move was unprecedented, just like the military spying on demonstrators during the Port Militarization Resistance. But it should not have been unexpected. From now on, we should bear in mind that the military is prepared to intervene directly in the logistics of capitalism.

      This also highlights a weakness in the strategy of blocking a ship by means of a picket line and blockading the streets around the terminal. To have actually stopped the ship, a much more disruptive action would have been called for, potentially including storming the terminal itself and risking police violence and arrests. This isn’t to say that storming the port would have been practical, nor to argue that there is never any reason to blockade the terminal in the way that we did. Rather, the point is that the mechanics of war-capitalism are more pervasive and adaptable than the strategies that people employed to block it in Oakland and Tacoma. Any form of escalation will require more militancy and risk tolerance.

      At the same time, we should be honest about our capabilities, our limits, and the challenges we face. Although many people were prepared to engage in a picket, storming a secured facility involves different considerations and material preparation, and demands a cool-headed assessment of benefits versus consequences. We should not simply blame the organizers for the fact that it did not happen. A powerful enough movement cannot be held back, not even by its leaders.

      Considering that the United States military outmaneuvered the picket strategy—and in view of the grave stakes of what is occurring Palestine—”Why not storm the port?” might be a good starting point for future strategizing. Yet from this point forward, the port is only going to become more and more secure. Another approach would be to pan back from the port, looking for points of intervention outside it. In this regard, the rail blockade in Olympia in 2017 might offer a promising example.

      Likewise, while we should explore ways to resolve differences when we have to work together, we can also look for ways to share information and coordinate while organizing autonomously. We might not be able to reach consensus about what strategy to use, but we can explore where we agree and diverge, acquire and circulate intelligence, and try many different strategies at once.

      The logic and logistics of the ruling order are intertwined all the world over. Israeli weapons helped Azerbaijan invade the Armenian enclave of Nagorno-Karabakh in September. The technologies of surveillance, occupation, and repression, refined from besieging Gaza and fragmenting the West Bank, are deployed along the deadly southern border of the United States. The FBI calls Israeli tech firms when they need to hack into someone’s phone. Everything is connected, from the ports on the Salish Sea to the eastern coast of the Mediterranean.

      Here’s to mutiny in the belly of the empire. If not us, then who? If not now, then when?

      https://pugetsoundanarchists.org/shutting-down-the-port-of-tacoma

    • Des #syndicats du monde entier tentent d’empêcher les livraisons d’armes vers Israël

      #Liège, Gênes, Barcelone, #Melbourne, #Oakland, #Toronto et peut-être bientôt différents ports français… Depuis le début du bombardement de Gaza, des syndicats ont tenté de bloquer des livraisons d’armes vers Israël, rappelant la tradition de lutte internationaliste du syndicalisme. Des initiatives insuffisantes pour entraver l’armement du pays, mais qui ont le mérite de mettre les États exportateurs d’armes face à leurs responsabilités.

      Peut-on compter sur la solidarité internationaliste des syndicats pour mettre fin à l’attaque de Gaza ? C’est en tout cas ce que veut croire la coordination syndicale Workers in Palestine. Composée de dizaines de syndicats palestiniens rassemblant travailleurs agricoles, pharmaciens ou encore enseignants, elle a lancé un appel aux travailleurs du monde entier afin d’entraver l’acheminement de matériel militaire vers Israël.

      « Nous lançons cet appel alors que nous constatons des tentatives visant à interdire et à réduire au silence toute forme de solidarité avec le peuple palestinien. Nous vous demandons de vous exprimer et d’agir face à l’injustice, comme les syndicats l’ont fait historiquement », écrivait-elle le 16 octobre. Dans la foulée, elle appelait à deux journées d’actions internationales les 9 et 10 novembre pour empêcher les livraisons d’armes.

      Tradition de lutte anti-impérialiste du syndicalisme

      En rappelant la tradition internationaliste du syndicalisme, Workers in Palestine inscrit son appel dans l’histoire des luttes syndicales contre les guerres impérialistes et coloniales. Une tradition qui n’est pas étrangère aux syndicats Français. Ainsi, en 1949, une grève organisée par les dockers de la CGT sur le port de Marseille permettait de bloquer plusieurs bateaux destinés à acheminer des armes vers l’Indochine, alors en pleine guerre de décolonisation. Et ce mode d’action n’a pas été oublié depuis. En 2019, les dockers du port de Gênes se sont mis en grève afin de ne pas avoir à charger un navire soupçonné de transporter des armes (françaises) vers l’Arabie Saoudite. « On a aussi fait des actions pendant la guerre en Irak », se remémore Didier Lebbe, secrétaire permanent de la CNE, un des syndicats belge qui a récemment refusé de transporter des armes vers Israël.

      Qu’ils répondent consciemment à l’appel de Workers in Palestine ou non, des syndicats et des collectifs citoyens ont organisé des actions sur des lieux stratégiques du commerce d’armes depuis le début des bombardements sur Gaza. Des blocages et des manifestations ont eu lieu sur les ports de Tacoma aux Etat-unis, ou encore à Melbourne, en Australie ou à Toronto au Canada. A Barcelone, des dockers ont déclaré vouloir refuser de charger ou de décharger tout matériel militaire en lien avec les bombardements à Gaza. Nous avons choisi de nous attarder sur quatre de ces initiatives.

      A Gênes, les dockers visent une entreprise de matériel militaire

      « De 2019 à aujourd’hui, nous avons bloqué presque deux fois par an les navires transportant des armes vers des zones de guerre comme le Yémen, le Kurdistan, l’Afrique et Gaza », explique Josè Nivoi, docker génois et syndicaliste à l’Unions Sindicale di Base (USB). C’est dans la continuité de ces actions qu’il s’est mobilisé avec ses collègues et son syndicat, à l’appel de Workers in Palestine. Vendredi 10 novembre, près de 400 personnes ont manifesté devant le port de Gênes pour protester contre l’envoi d’armes en Israël. Les dockers ont ensuite marché vers les locaux de Zim integrated Shipping Service, une entreprise israélienne de transport de marchandises et de matériel militaire.

      Après l’attaque du Hamas le 7 octobre, cette dernière a proposé son aide à Israël afin d’y acheminer du matériel. « Nous avons des camarades qui surveillent les navires et peuvent voir s’il y a des armes à bord », glisse le docker. Il ajoute que cette action s’inscrit dans la tradition, encore très forte à Gênes, des mobilisation anti-fasciste et anti-impérialsites : « Nous avons toujours été solidaires des peuples qui luttent pour l’autodétermination, et la question palestinienne fait partie de ces luttes. Nous sommes des travailleurs internationalistes et c’est pourquoi nous voulons nous battre pour essayer de changer les choses », explique le docker.

      En Angleterre, une usine d’armes bloquée temporairement

      Le même jour, près de 400 syndicalistes ont bloqué l’usine d’armes de l’entreprise BAE, à Rochester en Angleterre. L’usine d’arme fabrique notamment des « systèmes d’interception actif » pour les jet F35, « utilisés actuellement par Israël pour bombarder Gaza », écrivent les syndicats organisateurs de cette mobilisation. Art, culture, éducation, santé, sept organisations syndicales se sont retrouvées sous le mot d’ordre « Travailleurs pour une Palestine libre », répondant également à l’appel des syndicats palestiniens du 16 octobre.

      « L’industrie d’armement britannique, subventionnée par de l’argent public, est impliquée dans les massacres de Palestiniens. Nous sommes ici aujourd’hui pour perturber la machine de guerre israélienne et prendre position contre la complicité de notre gouvernement et nous exhortons les travailleurs de tout le Royaume-Uni à prendre des mesures similaires sur leurs lieux de travail et dans leurs communautés », explique une professeur qui manifestait vendredi à Dorchester.

      En Belgique les syndicats de l’aviation refusent de charger des armes vers Israël

      Si les avions de passagers ne relient plus Israël et la Belgique depuis l’attaque du Hamas, des avions cargos continuent de transporter des armes vers l’État hébreu, selon des syndicats. « On constate même une augmentation des vols cargo depuis Liège vers Tel Aviv », confie Christian Delcourt, porte-parole de l’aéroport de Liège, à la presse belge. Un phénomène qui n’a pas échappé aux travailleurs de ces sites. « Dans le courant du mois d’octobre, des manutentionnaires nous ont informés qu’ils chargeaient des armes dans des avions civils commerciaux. D’habitude, ces cargaisons doivent être transportées par des avions militaires. Mais quoi qu’il en soit, il n’était pas question pour eux de participer à une guerre, particulièrement quand on sait que des civils sont massacrés », explique Didier Lebbe, secrétaire permanent de la CNE. Le syndicat chrétien, majoritaire dans ces aéroports, prend alors contact avec trois autres syndicats du secteur pour rédiger un communiqué commun. « Alors qu’un génocide est en cours en Palestine, les travailleurs des différents aéroports de Belgique voient des armes partir vers des zones de guerre », écrivent-ils fin octobre. L’initiative fait en partie mouche : « parmi les deux compagnies aériennes qui effectuent ces livraisons, l’une d’elle les a arrêtées. L’autre, c’est une compagnie israélienne », soutient Didier Lebbe.

      En France, les dockers s’organisent

      En France, si aucun syndicat n’a pour l’instant appelé à des actions sur les lieux de travail, la fédération CGT Ports et docks pourrait bientôt rejoindre le mouvement international. La semaine prochaine, au port du Pirée à Athènes,12 organisations syndicales de dockers et portuaires européennes, membres de l’EDC (European Dockworkers Council )doivent se réunir pour une assemblée générale. « Au niveau français, on va pousser pour obtenir une journée d’arrêt de travail dans tous les ports européens pour manifester notre volonté d’un processus de paix, et dénoncer tous les conflits armés », affirme Tony Hautbois, secrétaire général de la fédération CGT Ports et docks. La possibilité d’un boycott des syndicats sur le transport d’armes vers Israël sera aussi en débat, il pourrait déboucher sur une position commune entre ces syndicats, qui regroupent 20 000 dockers à travers l’Europe.

      D’autres syndicats français ont également mis en avant la nécessité d’une action sur l’outil de travail pour empêcher les livraisons d’armes vers Israël. La fédération Sud-Rail a ainsi appelé à s’exprimer dans la rue « mais aussi avec les méthodes de la lutte des classes, comme la grève ». Sur le réseau social X (ex-Twitter), l’union locale CGT de Guingamp a relayé l’appel de Workers in Palestine.

      Des actions symboliques qui ne pèsent pas réellement sur le conflit…

      Pourtant, même si les initiatives syndicales essaiment, elles ne suffisent pas à entraver la capacité d’armement d’Israël. « Même si la vente de matériel militaire était bloquée en France, cela ne pèserait pas beaucoup. On estime que notre pays vend environ 20 millions d’euros de composants militaires par an à Israël. C’est incomparable avec ce que l’on vend aux Emirats arabes unis, par exemple », explique Patrice Bouveret, cofondateur de l’Observatoire des armements, centre d’étude antimilitariste basé à Lyon. A cela s’ajoutent les ventes de biens dits « à double usage », des composants qui peuvent servir pour produire du matériel militaire, ou non. « Mais il s’agit de matériel d’une telle précision qu’il est bien souvent utilisé uniquement pour les armes », commente Patrice Bouveret. Ces biens représentent une somme évaluée à 34 millions par le ministère de l’économie dans un rapport (voir tableau p. 38) remis aux parlementaires en juin 2023.

      « Le principal fournisseur d’armes à Israël, ce sont les États-Unis : près de 4 milliards d’euros de vente d’armes. Les américains entreposent également des stocks d’armes en Israël dans laquelle cette dernière peut puiser. Enfin, comme Israël a des capacités de production, elle peut importer des composants moins chers, qu’elle pourra elle-même transformer », continue Patrice Bouveret.

      …mais qui mettent les États face à leurs responsabilités

      Ces actions ont toutefois le mérite de poser la question de la responsabilité des États producteurs ou exportateurs d’armes dans les bombardements israéliens sur la bande de Gaza et sa population. Alors que 10 000 personnes sont mortes sous les bombes israéliennes, dont 4000 enfants, les termes « nettoyage ethnique », « génocide », ou « crimes de guerre » commencent à se faire entendre dans les plus hautes instances internationales. « La punition collective infligée par Israël aux civils palestiniens est également un crime de guerre, tout comme l’évacuation forcée illégale de civils », a déclaré Volker Türk, Haut Commissaire des Nations unies pour les réfugiés, le 8 novembre.

      Les accords et traités internationaux sont très clairs sur l’implication de pays tiers dans la commission de crimes de guerre, notamment par le biais de la vente d’armes. Le traité sur le commerce des armes (TCA), interdit tout transfert d’armes qui pourrait être employé dans le cadre de crimes de guerre. Amnesty international a déjà alerté sur l’implication de la France dans la vente d’armes à l’Arabie Saoudite, accusée de bombarder sans distinction la population civile au Yémen, où elle mène une guerre contre les rebelles Houthis, depuis huit ans.

      Quant à savoir si les bombardement israéliens constituent un crime de guerre ou un génocide, c’est à la cour pénale Internationale d’en décider. Une plainte pour « génocide » a déjà été déposée par une centaines de palestiniens, tandis que la France enquête déjà sur de possibles « crimes de guerre » du Hamas. Reporter sans Frontière a aussi déposé une plainte pour « crimes de guerres » après la mort de journalistes palestiniens et israéliens. Enfin, l’ONU enquête actuellement en Israël et en Palestine sur de possibles crimes de guerres, en lien avec l’attaque du Hamas le 7 octobre, ou les bombardements israéliens sur la bande de Gaza depuis un mois.

      https://rapportsdeforce.fr/linternationale/des-syndicats-du-monde-entier-tentent-dempecher-les-livraisons-darme

  • Recours aux armes « non létales » : 2022 excellent millésime | Paul Rocher (sous X @PaulRocher10) via @colporteur | 05.11.23

    https://twitter.com/PaulRocher10/status/1721262476933706174

    Près de 12 000 tirs policiers sur la population civile en 2022, soit 33 tirs par jour. Voilà ce que montrent les derniers chiffres sur le recours aux armes « non létales ». Hormis les années des #giletsjaunes (2018/19), c’est un nouveau record.

    Au-delà du nombre élevé de tirs sur 1 année, la tendance est frappante. En 2022, les policiers ont tiré 80 fois plus qu’en 2009. Pourtant, ni les manifestants ni la population générale ne sont devenus plus violents. La hausse des violences est celle des #violencespolicières

    Ces données du min. de l’intérieur n’affichent pas les tirs de grenades (assourdissantes, lacrymogène) et ignorent les coups de matraque. Même pour les armes comptabilisées, on assiste à une sous-déclaration. Le niveau réel des #violencespolicières est donc encore plus élevé

    Souvent on entend que les armes non létales seraient une alternative douce aux armes à feu. Pourtant, les derniers chiffres confirment la tendance à la hausse des tirs à l’arme à feu. Pas d’effet de substitution, mais un effet d’amplification de la violence

    Ces derniers temps, on entend beaucoup parler de « décivilisation ». Si elle existe, ces chiffres montrent encore une fois qu’elle ne vient pas de la population . Les données disponibles (⬇️) attestent qu’elle se tient sage, contrairement à la police

    https://www.acatfrance.fr/rapport/lordre-a-quel-prix

  • Ni Mediapart, ni le Monde, ni Libération, ni le Le Nouvel Obs, n’ont rendu compte, ni publié, la lettre du Directeur du bureau de New York du Haut-Commissaire des Nations Unies aux droits de l’homme, qui a démissioné en protestant contre la si faible action de l’ONU pour faire respecter les Droits de l’Homme à Gaza.

    Dans une lettre à son supérieur, rendue publique, il dit, entre autres :

    "Il s’agit d’un cas d’école de génocide. Le projet colonial européen, ethno-nationaliste, de colonisation en Palestine est entré dans sa phase finale, vers la destruction accélérée des derniers vestiges de la vie palestinienne indigène. en Palestine ."
    ...

    "Les USA, le Royaume-Uni et la majorité de l’Europe sont complices de l’agression horrible.

    Non seulement ces gouvernements refusent de remplir leurs obligations de faire respecter les Conventions de Genève, mais ils arment activement Israël, lui procurent un soutien économique et de renseignement, et donnent une couverture politique et diplomatique aux atrocités commises par Israël."

    https://twitter.com/Raminho/status/1719385390086271164?s=20

    https://www.nydailynews.com/2023/10/31/un-official-resigns-genocide-palestine-israel

    La TV française est israélienne-CRIF-Netanyahu mais les journaux, même de gauche, en France me posent question.

    #Israel #USA #UE #France #Grande-Bretagne #Allemagne #Genocide #Gaza #Palestiniens #Armes #VentesArmes #Corruption #Lobby #Racisme #Suprémacisme #Colonialisme #Massacres #AssassinatsEnfants #AssassinatsCivils #Medias #Mediapart #LeMonde #Deshumanisation #Arabes

  • Ventes d’armes : la France complice des crimes de guerre israéliens
    https://contre-attaque.net/2023/10/25/ventes-darmes-la-france-complice-des-crimes-de-guerre-israeliens

    ... depuis 10 ans la France a vendu pour 200 millions d’euros d’armes à Israël. Rien que depuis l’élection de Macron en 2017, 111 millions d’euros d’#armes ont été exportées vers le pays qui bombarde aujourd’hui #Gaza. Ce sont les chiffres officiels du dernier rapport du ministère des Armées sur les exportations d’armement de la #France.
    https://www.defense.gouv.fr/sites/default/files/ministere-armees/Rapport%20au%20Parlement%202022%20sur%20les%20exportations%20d’armement

    Selon les chiffres de ce document, la France est le premier fournisseur européen d’armements à l’État d’#Israël. La France lui vend des armes depuis les années 1950. En 1960, De Gaulle a décidé d’arrêter de fournir des armes à Israël, une pause de courte durée puisque les échanges ont repris dès les années 1970.

    Combien de missiles, de blindés, de drones et d’équipements de pointe fabriqués en France servent à massacrer le peuple palestinien ? Ces équipements servent-ils directement à l’offensive en cours ? La France va-t-elle suspendre la vente de ces armes qui servent à commettre des crimes de guerre ?

    Les échanges entre la France et Israël ne concernent pas que les armes de guerre. En juillet dernier, alors que l’armée israélienne menait un assaut meurtrier à Jénine, en Cisjordanie, le chef de la police israélienne révélait avoir reçu un fax du ministère de l’Intérieur français pour un « partage d’expérience sur la gestion des manifestations ». Darmanin demandait de l’aide pour mater la révolte des banlieues françaises [car les tirs de LBD à bout portant ne suffisent pas]. Après les émeutes de 2005, Nicolas Sarkozy avait déjà demandé des conseils aux autorités israéliennes.

    Plus globalement, le #commerce entre ces deux pays est florissant. Tous produits confondus, les exportations françaises à destination d’Israël sont passées de 1.386 millions d’euros en 2020 à 2.131 millions en 2022 – soit une augmentation de 53%

    • Ils sont devenus fou même la gendarmerie s’inquiète de cette nouvelle autorisation de tirer au LBD à bout portant. Ce lanceur de balles de défense crache des balles de caoutchouc à 250 km/h. Le ministère de l’Intérieur donne l’autorisation de tuer à ses supplétifs. C’était déjà le cas mais cette décision doit venir des multiples recours des précédentes victimes survivantes aux violences policières. La gueule ravagée de Hedi à Marseille ne leur a pas suffit. Ils auraient sans doute préféré qu’il soit mort. Voici la réponse de ce gouvernement de fou furieux à la condamnation des violences policières. Il change la loi. Si ça continu, la france va finir comme les states avec plus de flingues que d’habitants.

      https://www.mediapart.fr/journal/france/271023/le-ministere-de-l-interieur-reduit-la-distance-de-tir-des-lbd-malgre-leur-

    • [Liberté de la police] Le ministère de l’intérieur réduit la distance de tir des LBD malgré leur dangerosité
      https://www.mediapart.fr/journal/france/271023/le-ministere-de-l-interieur-reduit-la-distance-de-tir-des-lbd-malgre-leur-

      Ces cinq dernières années, plus de 35 personnes ont été blessées et une tuée par des tirs de lanceur de balles de défense. Pourtant, dans ses instructions, le ministère de l’intérieur a abaissé la distance réglementaire. Une décision que la gendarmerie conseille de ne pas suivre.

      La liste des blessés ne cesse de s’allonger. Hedi à Marseille, Virgil à Nanterre, Nathaniel à Montreuil, Mehdi à Saint-Denis, Abdel à Angers : tous ont été grièvement touchés par un tir de lanceur de balles de défense après les révoltes suscitées par la mort de Nahel en juin dernier. Mediapart a cherché à savoir quelle était la distance minimum de sécurité que les policiers doivent respecter lorsqu’ils tirent au LBD.

      Le ministère de l’intérieur et la Direction générale de la police nationale ont mis un mois à nous répondre. Et pour cause, cette distance réglementaire a tout simplement été supprimée des récentes instructions, remplacée par une distance dite « opérationnelle » correspondant à celle du fabricant de munitions. Auparavant, pour tirer, un policier devait respecter une distance minimum de 10 mètres. Selon les informations collectées par Mediapart, elle est désormais passée à 3 mètres.

      Une décision dangereuse que la gendarmerie nationale déconseille de suivre.

      Gravement touché au cerveau par un tir de LBD dans la nuit du 1er au 2 juillet, à Marseille, Hedi, 22 ans, subit depuis de multiples interventions chirurgicales. C’est le cas encore en octobre, alors que la prochaine est prévue en novembre. À ce jour, déjà confronté à une potentielle paralysie, Hedi ne sait toujours pas s’il pourra conserver l’usage de son œil gauche.
      Il fait partie des nombreuses victimes du LBD, une arme utilisée par la police et les gendarmes depuis le début des années 2000 (en remplacement du #flashball, apparu à la fin des années 1990). Muni d’un canon de 40 millimètres, ce fusil tire des balles de caoutchouc à plus de 250 km/heure (plus de 73 m/seconde). Le ministère de l’intérieur qualifie le LBD_« d’arme de force intermédiaire », alors même qu’elle est classée « catégorie A2 », c’est-à-dire #matériel_de_guerre, aux côtés notamment des lance-roquettes. Une classification qui laisse peu de doute sur sa létalité.

      Des instructions ministérielles d’août 2017 précisent que « le tireur vise de façon privilégiée le torse ainsi que les membres inférieurs », cibler la tête étant interdit. Lorsqu’une personne est touchée, le policier doit s’assurer de son état de santé et la garder sous surveillance permanente.
      Comme le rappelle une note du ministère de l’intérieur adressée à l’ensemble des forces de l’ordre, en février 2019, les fonctionnaires habilités doivent faire usage du LBD, selon le cadre prévu par le Code pénal et celui de la sécurité intérieure,
      « dans le strict respect des principes de nécessité et de proportionnalité »_.

      Hormis en cas de légitime défense, c’est-à-dire lorsque l’agent, un de ses collègues ou une tierce personne est physiquement menacée, des sommations doivent précéder le tir, qui doit se faire à une distance réglementaire, en deçà de laquelle les risques de lésions sont irréversibles. Mais quelle est cette distance ?

      Une nouvelle munition pas moins dangereuse

      Notre enquête nous a conduits à compulser les instructions ministérielles que nous avons pu nous procurer. Il faut remonter à 2013 pour voir figurer que le LBD « ne doit pas être utilisé envers une personne se trouvant à moins de 10 mètres ».
      Depuis, dans les notes de 2017, 2018 ou 2019, nulle trace de recommandations concernant la distance minimum de sécurité. Seul le règlement de l’armement de dotation de la gendarmerie nationale, mis à jour le 1er septembre 2023, rappelle que « le tir en deçà de 10 mètres, uniquement possible en cas de légitime défense, peut générer des risques lésionnels importants ».
      Interrogée, la Direction générale de la police nationale (#DGPN) n’a pas su nous répondre sur la distance réglementaire, arguant que la doctrine d’emploi du LBD 40 faisait « actuellement l’objet d’une réécriture ». Seule précision, les unités de police utilisent une nouvelle munition, appelée la munition de défense unique (MDU), « moins impactante » que l’ancienne, nommée la Combined tactical systems (CTS).
      Certes, depuis 2019, la MDU, moins rigide et légèrement moins puissante, est majoritairement utilisée par les policiers. Pour autant, elle n’en reste pas moins dangereuse, comme l’attestent les graves blessures qu’elle a pu occasionner, notamment sur Hedi ou sur plusieurs jeunes qui ont perdu un œil lors des révoltes à la suite du décès de Nahel.

      Ce qui est dangereux, c’est que le ministère et la DGPN ont banalisé l’usage du LBD.
      Un commissaire de police

      C’est d’ailleurs la raison pour laquelle le Centre national d’entraînement des forces de gendarmerie (CNEFG) conseille de conserver, avec cette nouvelle munition, une distance minimum de 10 mètres. En effet, dans une note interne, datée du 12 septembre 2022, adressée à la Direction générale de la gendarmerie nationale (#DGGN), et que Mediapart a pu consulter, il est stipulé que « par principe de sécurité et de déontologie », il doit être rendu obligatoire pour les gendarmes de ne pas tirer au LBD à moins de 10 mètres.
      Selon un officier, « au sein de la gendarmerie, nous privilégions l’usage du LBD pour une distance de 30 mètres pour faire cesser une infraction s’il n’y a pas d’autres moyens de le faire. Lorsque le danger est plus près de nous, à quelques mètres, nous tentons de neutraliser l’individu autrement qu’en ayant recours au LBD ».
      Quand bien même la nouvelle munition représente une certaine avancée, étant « moins dure et donc susceptible de faire moins de blessures », « elle reste néanmoins puissante et dangereuse. Évidemment, d’autant plus si elle est tirée de près ».

      Un haut gradé de la gendarmerie spécialisé dans le #maintien_de_l’ordre insiste : « Cette nouvelle munition ne doit pas conduire à modifier la doctrine d’emploi du LBD, ni à un débridage dans les comportements. » Il rappelle que le LBD est « l’ultime recours avant l’usage du 9 mm. Son usage ne doit pas être la règle. Ce n’est pas une arme de dispersion dans les manifestations ».

      Information inexacte

      Nous avons donc recontacté la police nationale pour qu’elle nous transmette les dernières directives mentionnant la distance minimum qu’un policier doit respecter. Le cabinet du ministre a, lui, répondu qu’une « distance minimum de sécurité serait communiquée. Il n’y a pas de raison que ce soit différent des gendarmes ». Et pourtant...
      Après moult relances, la Direction générale de la police a déclaré qu’il fallait prendre en compte « la distance opérationnelle des munitions » et « qu’en deçà de 3 mètres, le risque lésionnel est important », assurant que « les doctrines en ce domaine sont communes pour les forces de sécurité intérieures, police nationale et gendarmerie nationale ».
      Une information inexacte puisque la gendarmerie interdit de tirer au-dessous de 10 mètres.

      « Ce qui est dangereux, explique auprès de Mediapart un commissaire de police, c’est que le ministère et la DGPN ont banalisé l’usage du LBD, qui devait initialement être utilisé en cas d’extrême danger, comme ultime recours avant l’usage de l’arme. »

      Un pas a été franchi pour légitimer des tirs de très près.
      Un commandant, spécialisé dans le maintien de l’ordre

      Depuis, après avoir été « expérimenté dans les banlieues, il a été utilisé, depuis 2016 [en fait, depuis le début des années 2000, ndc], dans les manifestations et les mobilisations contre la loi Travail [où la pratique s’est généralisée, ndc]. En enlevant toute notion de distance minimum de sécurité, le ministère gomme la dangerosité de cette arme et des blessures qu’elle cause ».
      Pour ce commissaire, « c’est un nouveau verrou qui saute. On peut toujours contester cette distance, qui était déjà peu respectée, mais elle introduisait néanmoins un garde-fou, aussi ténu soit-il ».
      Avec l’apparition des nouvelles munitions « présentées comme moins impactantes, un pas a été franchi pour légitimer des tirs de très près », nous explique un commandant spécialisé dans le maintien de l’ordre. Ainsi, dans les nouvelles instructions du ministère, « la distance minimum n’existe plus ». « Pire, poursuit ce commandant, on a vu apparaître les termes employés par le fabricant de la munition qui parle de “distance opérationnelle”. »
      En effet, dans une instruction relative à l’usage des armes de force intermédiaire, datée du 2 août 2017 et adressée à l’ensemble des fonctionnaires, sont précisées les « distances opérationnelles », allant de 10 à 50 mètres pour l’ancienne munition, et de 3 à 35 mètres pour la nouvelle. C’est sur cette instruction que s’appuie aujourd’hui la DGPN.
      Selon ce gradé, « même d’un point de vue purement opérationnel, c’est absurde. Car le point touché par le tireur est égal au point qu’il a visé à environ 25 mètres et pas en deçà. Donc il faudrait donner cette distance et non une fourchette ».
      « Avec une distance aussi courte que 3 mètres, c’est presque tirer à bout portant. Et c’est inviter, davantage qu’ils ne le faisaient déjà, les policiers à tirer de près avec des risques gravissimes de blessures. Non seulement les agents manquent de formation, mais avec ces directives, ils vont avoir tendance à sortir leur LBD comme une simple matraque et dans le plus grand flou », conclut-il, rappelant « le tir absolument injustifié de la BAC sur le jeune qui a eu le cerveau fracassé à Marseille [en référence à Hedi – ndlr] ».

      Les déclarations faites à la juge d’instruction du policier Christophe I., auteur du tir de LBD, qui a grièvement blessé Hedi à la tête, en juillet, révèlent l’ampleur des conséquences de la banalisation d’une telle arme.
      Le policier explique que le soir des faits, « il n’y avait pas de consignes particulières sur l’utilisation des armes ». Que Hedi ait pu être atteint à la tête ne le surprend pas. Une erreur aux conséquences dramatiques qui ne semble pas lui poser problème : « J’ai tiré sur un individu en mouvement, dit-il. Le fait de viser le tronc, le temps que la munition arrive, c’est ce qui a pu expliquer qu’il soit touché à la tête. » En revanche, il nie que les blessures d’Hedi aient pu être occasionnées par le LBD, allant même jusqu’à avancer qu’elles peuvent « être liées à sa chute » au sol [moment ou des bouts du projectile se sont incrustés dans sa tête avant d’être découvert par le personnel soignant, obvisously, ndc]

      Dans d’autres enquêtes mettant en cause des tirs de LBD, les déclarations des policiers auteurs des tirs affichent à la fois la dangerosité de cette arme et la banalisation de son usage. L’augmentation du nombre de #manifestants blessés, en particulier lors des mobilisations des gilets jaunes, avait d’ailleurs conduit le Défenseur des droits, Jacques Toubon, à demander, en janvier 2019, la « suspension » du recours au LBD dans les manifestations.
      La France, un des rares pays européens à autoriser le LBD
      Depuis, plusieurs organisations non gouvernementales, parmi lesquelles le Syndicat des avocats de France, la Confédération générale du travail ou le Syndicat de la magistrature, ont saisi la justice pour en demander l’interdiction. En vain. Après avoir essuyé un refus du Conseil d’État de suspendre cette arme, les organisations syndicales ont vu leur requête jugée irrecevable par la Cour européenne des droits de l’homme en avril 2020, estimant que les « faits dénoncés ne relèvent aucune apparence de violation des droits et libertés garanties par la Convention et […] que les critères de recevabilité n’ont pas été satisfaits ».

      À l’annonce du refus du Conseil d’État d’interdire le LBD, le syndicat de police majoritaire, Alliance, avait salué « une sage décision ». Son secrétaire général adjoint, qui était alors Frédéric Lagache, avait précisé auprès de l’AFP que « si le Conseil d’État avait prononcé l’interdiction, il aurait fallu à nouveau changer de doctrine et revenir à un maintien de l’ordre avec une mise à distance ».
      Un discours bien différent de celui de ses homologues allemands, qui ont refusé d’avoir recours au LBD (utilisé dans deux Länder sur seize). En effet, comme le rappelle le politiste Sebastian Roché dans son livre La police contre la Rue, en 2012, le premier syndicat de police d’Allemagne, par la voix d’un de ses représentants, Frank Richter, s’était opposé à ce que les forces de l’ordre puissent avoir recours à cette arme : « Celui qui veut tirer des balles de caoutchouc [comme celles du LBD – ndlr] accepte consciemment que cela conduise à des morts et des blessés graves. Cela n’est pas tolérable dans une démocratie. »
      En Europe, la France est, avec la Grèce et la Pologne, l’un des rares pays à y avoir recours.

      #LBD #LBD_de_proximité #armes_de_la_police #Darmanin #à_bout_portant #terroriser #mutiler #police #impunité_policière #militarisation #permis de_mutiler #permis_de_tuer

    • Ni oubli, ni pardon
      https://piaille.fr/@LDH_Fr/111308175763689939

      Le 27 octobre 2005, Zyed & Bouna 17&15 ans meurent à l’issue d’une course poursuite avec des policiers qui seront relaxés. Ils font partie d’une liste trop longue des victimes d’une violence ordinaire dont les auteurs ne sont jamais poursuivis. Cette impunité doit cesser.

    • en 2012, le premier syndicat de police d’Allemagne, par la voix d’un de ses représentants, Frank Richter, s’était opposé à ce que les forces de l’ordre puissent avoir recours à cette arme : « Celui qui veut tirer des balles de caoutchouc [comme celles du LBD – ndlr] accepte consciemment que cela conduise à des morts et des blessés graves. Cela n’est pas tolérable dans une démocratie. »

      En Europe, la France est, avec la Grèce et la Pologne, l’un des rares pays à y avoir recours.

      La fin de l’article de Mediapart, dont est extrait le passage ci dessus, a part, dans son seen à elle : https://seenthis.net/messages/1023468

    • Quelques nuances de LBD
      https://lundi.am/Quelques-nuances-de-LBD

      Dans une enquête parue ce vendredi, Médiapart révèle que les policiers devaient jusqu’à présent respecter une distance de 10 à 15 mètres pour tirer sur un individu. Cette distance minimale aurait été supprimée des récentes instructions du ministère de l’Intérieur. Elle est désormais passée à seulement trois mètres. Laurent Thines, neurochirugien et poète engagé contre les armes (sub)létales, nous a transmis ces impressions.

    • @sombre je dirais bien #oupas moi aussi : la pratique récente du LBD en fRance semble indiquer que les policiers, préfets et le ministre ont bien lu la notice en détail et estimé que la couleur rouge était un indicateur de zones à viser en priorité, pour faire respecter l’ordre.

    • @PaulRocher10
      https://twitter.com/PaulRocher10/status/1721262476933706174

      Près de 12 000 tirs policiers sur la population civile en 2022, soit 33 tirs par jour. Voilà ce que montrent les derniers chiffres sur le recours aux armes « non létales ». Hormis les années des #giletsjaunes (2018/19), c’est un nouveau record.

      Au-delà du nombre élevé de tirs sur 1 année, la tendance est frappante. En 2022, les policiers ont tiré 80 fois plus qu’en 2009. Pourtant, ni les manifestants ni la population générale ne sont devenus plus violents. La hausse des violences est celle des #violencespolicières

      Ces données du min. de l’intérieur n’affichent pas les tirs de grenades (assourdissantes, lacrymogène) et ignorent les coups de matraque. Même pour les armes comptabilisées, on assiste à une sous-déclaration. Le niveau réel des #violencespolicières est donc encore plus élevé

      Souvent on entend que les armes non létales seraient une alternative douce aux armes à feu. Pourtant, les derniers chiffres confirment la tendance à la hausse des tirs à l’arme à feu. Pas d’effet de substitution, mais un effet d’amplification de la violence

      Ces derniers temps, on entend beaucoup parler de « décivilisation ». Si elle existe, ces chiffres montrent encore une fois qu’elle ne vient pas de la population . Les données disponibles (⬇️) attestent qu’elle se tient sage, contrairement à la police
      https://www.acatfrance.fr/rapport/lordre-a-quel-prix

  • L’anthropologue #Didier_Fassin sur #Gaza : « La non-reconnaissance de la qualité d’êtres humains à ceux qu’on veut éliminer est le prélude aux pires violences »

    Le sociologue s’alarme, dans une tribune au « Monde », que l’Union européenne n’invoque pas, dans le cadre du conflit israélo-palestinien, la « responsabilité de protéger » votée par l’Assemblée des Nations unies, et qu’elle pratique le deux poids deux mesures dans ses relations internationales.

    L’incursion sanglante du #Hamas en #Israël a produit dans le pays un #choc sans précédent et a suscité des réactions d’horreur dans les sociétés occidentales. Les #représailles en cours à Gaza, d’autant plus violentes que le gouvernement israélien est tenu responsable par la population pour avoir favorisé l’essor du Hamas afin d’affaiblir le #Fatah [le parti politique du président palestinien, Mahmoud Abbas] et pour avoir négligé les enjeux de sécurité au profit d’une impopulaire réforme visant à faire reculer la démocratie, ne génèrent pas de semblables sentiments de la part des chancelleries occidentales, comme si le droit de se défendre impliquait un droit illimité à se venger. Certaines #victimes méritent-elles plus que d’autres la #compassion ? Faut-il considérer comme une nouvelle norme le ratio des tués côté palestinien et côté israélien de la guerre de 2014 à Gaza : 32 fois plus de morts, 228 fois plus parmi les civils et 548 fois plus parmi les enfants ?

    Lorsque le président français, #Emmanuel_Macron, a prononcé son allocution télévisée, le 12 octobre, on comptait 1 400 victimes parmi les Gazaouis, dont 447 enfants. Il a justement déploré la mort « de nourrissons, d’enfants, de femmes, d’hommes » israéliens, et dit « partager le chagrin d’Israël », mais n’a pas eu un mot pour les nourrissons, les enfants, les femmes et les hommes palestiniens tués et pour le deuil de leurs proches. Il a déclaré apporter son « soutien à la réponse légitime » d’Israël, tout en ajoutant que ce devait être en « préservant les populations civiles », formule purement rhétorique alors que #Tsahal avait déversé en six jours 6 000 bombes, presque autant que ne l’avaient fait les Etats-Unis en une année au plus fort de l’intervention en Afghanistan.

    La directrice exécutive de Jewish Voice for Peace a lancé un vibrant « #plaidoyer_juif », appelant à « se dresser contre l’acte de #génocide d’Israël ». Couper l’#eau, l’#électricité et le #gaz, interrompre l’approvisionnement en #nourriture et envoyer des missiles sur les marchés où les habitants tentent de se ravitailler, bombarder des ambulances et des hôpitaux déjà privés de tout ce qui leur permet de fonctionner, tuer des médecins et leur famille : la conjonction du siège total, des frappes aériennes et bientôt des troupes au sol condamne à mort un très grand nombre de #civils – par les #armes, la #faim et la #soif, le défaut de #soins aux malades et aux blessés.

    Des #crimes commis, on ne saura rien

    L’ordre donné au million d’habitants de la ville de Gaza de partir vers le sud va, selon le porte-parole des Nations unies, « provoquer des conséquences humanitaires dévastatrices ». Ailleurs dans le monde, lorsque éclatent des conflits meurtriers, les populations menacées fuient vers un pays voisin. Pour les Gazaouis, il n’y a pas d’issue, et l’armée israélienne bombarde les écoles des Nations unies où certains trouvent refuge. Ailleurs dans le monde, dans de telles situations, les organisations non gouvernementales apportent une assistance aux victimes. A Gaza, elles ne le peuvent plus. Mais des crimes commis, on ne saura rien. En coupant Internet, Israël prévient la diffusion d’images et de témoignages.

    Le ministre israélien de la défense, #Yoav_Gallant, a déclaré, le 9 octobre, que son pays combattait « des #animaux_humains » et qu’il « allait tout éliminer à Gaza ». En mars, son collègue des finances a, lui, affirmé qu’« il n’y a pas de Palestiniens, car il n’y a pas de peuple palestinien ».
    Du premier génocide du XXe siècle, celui des Herero, en 1904, mené par l’armée allemande en Afrique australe, qui, selon les estimations, a provoqué 100 000 morts de déshydratation et de dénutrition, au génocide des juifs d’Europe et à celui des Tutsi, la non-reconnaissance de la qualité d’êtres humains à ceux qu’on veut éliminer et leur assimilation à des #animaux a été le prélude aux pires #violences.

    Rhétorique guerrière

    Comme le dit en Israël la présidente de l’organisation de défense des droits de l’homme, B’Tselem, « Gaza risque d’être rayée de la carte, si la communauté internationale, en particulier les Etats-Unis et l’Europe, ne fait pas stopper – au lieu de laisser faire, voire d’encourager – les crimes de guerre qu’induit l’intensité de la riposte israélienne ». Ce n’est pas la première fois qu’Israël mène une #guerre à Gaza, mais c’est la première fois qu’il le fait avec un gouvernement aussi fortement orienté à l’#extrême-droite qui nie aux Palestiniens leur humanité et leur existence.
    Il existe une « responsabilité de protéger », votée en 2005 par l’Assemblée des Nations unies, obligeant les Etats à agir pour protéger une population « contre les génocides, les crimes de guerre, les nettoyages ethniques et les crimes contre l’humanité ». Cet engagement a été utilisé dans une dizaine de situations, presque toujours en Afrique. Que l’Union européenne ne l’invoque pas aujourd’hui, mais qu’au contraire la présidente de la Commission, Ursula von der Leyen, se rende, sans mandat, en Israël, pour y reprendre la #rhétorique_guerrière du gouvernement, montre combien le deux poids deux mesures régit les relations internationales.
    Quant à la #France, alors que se fait pressante l’urgence à agir, non seulement le gouvernement apporte son appui sans failles à l’#opération_punitive en cours, mais il interdit les #manifestations en faveur du peuple palestinien et pour une #paix juste et durable en Palestine. « Rien ne peut justifier le #terrorisme », affirmait avec raison le chef de l’Etat. Mais faut-il justifier les crimes de guerre et les #massacres_de_masse commis en #rétorsion contre les populations civiles ? S’agit-il une fois de plus de rappeler au monde que toutes les vies n’ont pas la même valeur et que certaines peuvent être éliminées sans conséquence ?

    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/10/18/l-anthropologue-didier-fassin-sur-gaza-la-non-reconnaissance-de-la-qualite-d

    #à_lire #7_octobre_2023

    • Le spectre d’un génocide à Gaza

      L’annihilation du Hamas, que la plupart des experts jugent irréaliste, se traduit de fait par un massacre des civils gazaouis, ce que la Première ministre française appelle une « catastrophe humanitaire », mais dans lequel un nombre croissant d’organisations et d’analystes voient le spectre d’un génocide.

      Au début de l’année 1904, dans ce qui était alors le protectorat allemand du Sud-Ouest africain, les Hereros se rebellent contre les colons, tuant plus d’une centaine d’entre eux dans une attaque surprise.

      Au cours des deux décennies précédentes, ce peuple d’éleveurs a vu son territoire se réduire à mesure que de nouvelles colonies s’installent, s’emparant des meilleures terres et entravant la transhumance des troupeaux. Les colons traitent les Hereros comme des animaux, les réduisent à une forme d’esclavage et se saisissent de leurs biens. Le projet des autorités est de créer dans ce qui est aujourd’hui la Namibie une « Allemagne africaine » où les peuples autochtones seraient parqués dans des réserves.

      La révolte des Hereros est vécue comme un déshonneur à Berlin et l’empereur envoie un corps expéditionnaire avec pour objectif de les éradiquer. Son commandant annonce en effet qu’il va « annihiler » la nation herero, récompensant la capture des « chefs », mais n’épargnant « ni les femmes ni les enfants ». Si l’extermination n’est techniquement pas possible, ajoute-t-il, il faudra forcer les Hereros à quitter le pays, et « ce n’est qu’une fois ce nettoyage accompli que quelque chose de nouveau pourra émerger ».

      Dans les mois qui suivent, nombre de Hereros sans armes sont capturés et exécutés par les militaires, mais la plupart sont repoussés dans le désert où ils meurent de déshydratation et d’inanition, les puits ayant été empoisonnés. Selon l’état-major militaire, « le blocus impitoyable des zones désertiques paracheva l’œuvre d’élimination ». On estime que seuls 15 000 des 80 000 Hereros ont survécu. Ils sont mis au travail forcé dans des « camps de concentration » où beaucoup perdent la vie.

      Le massacre des Hereros, qualifié par les Allemands de « guerre raciale » est le premier génocide du XXe siècle, considéré par certains historiens comme la matrice de la Shoah quatre décennies plus tard. Dans Les Origines du totalitarisme, la philosophe Hannah Arendt elle-même a établi un lien entre l’entreprise coloniale et les pratiques génocidaires.

      Comparaison n’est pas raison, mais il y a de préoccupantes similitudes entre ce qui s’est joué dans le Sud-Ouest africain et ce qui se joue aujourd’hui à Gaza. Des décennies d’une colonisation qui réduit les territoires palestiniens à une multiplicité d’enclaves toujours plus petites où les habitants sont agressés, les champs d’olivier détruits, les déplacements restreints, les humiliations quotidiennes.

      Une déshumanisation qui conduisait il y a dix ans le futur ministre adjoint à la Défense à dire que les Palestiniens sont « comme des animaux ». Une négation de leur existence même par le ministre des Finances pour qui « il n’y a pas de Palestiniens car il n’y a pas de peuple palestinien », comme il l’affirmait au début de l’année. Un droit de tuer les Palestiniens qui, pour l’actuel ministre de la Sécurité nationale, fait du colon qui a assassiné vingt-neuf d’entre eux priant au tombeau des Patriarches à Hébron un héros. Le projet, pour certains, d’un « grand Israël », dont l’ancien président est lui-même partisan.

      Pendant les six premiers jours de l’intervention israélienne, 6 000 bombes ont été lâchées sur Gaza, presque autant que les États-Unis et ses alliés en ont utilisé en Afghanistan en une année entière

      Dans ce contexte, les attaques palestiniennes contre des Israéliens se sont produites au fil des ans, culminant dans l’incursion meurtrière du Hamas en territoire israélien le 7 octobre faisant 1 400 victimes civiles et militaires et aboutissant à la capture de plus de 200 otages, ce que le représentant permanent d’Israël aux Nations unies a qualifié de « crime de guerre ». La réponse du gouvernement, accusé de n’avoir pas su prévenir l’agression, s’est voulue à la mesure du traumatisme provoqué dans le pays. L’objectif est « l’annihilation du Hamas ».

      Pendant les trois premières semaines de la guerre à Gaza, les représailles ont pris deux formes. D’une part, infrastructures civiles et populations civiles ont fait l’objet d’un bombardement massif, causant 7 703 morts, dont 3 595 enfants, 1 863 femmes et 397 personnes âgées, et endommageant 183 000 unités résidentielles et 221 écoles, à la date du 28 octobre. Pendant les six premiers jours de l’intervention israélienne, 6 000 bombes ont été lâchées sur Gaza, presque autant que les États-Unis et ses alliés en ont utilisé en Afghanistan en une année entière, au plus fort de l’invasion du pays.

      Pour les plus de 20 000 blessés, dont un tiers d’enfants, ce sont des mutilations, des brûlures, des handicaps avec lesquels il leur faudra vivre. Et pour tous les survivants, ce sont les traumatismes d’avoir vécu sous les bombes, assisté aux destructions des maisons, vu des corps déchiquetés, perdu des proches, une étude britannique montrant que plus de la moitié des adolescents souffrent de stress post-traumatique.

      D’autre part, un siège total a été imposé, avec blocus de l’électricité, du carburant, de la nourriture et des médicaments, tandis que la plupart des stations de pompage ne fonctionnent plus, ne permettant plus l’accès à l’eau potable, politique que le ministre de la Défense justifie en déclarant : « Nous combattons des animaux et nous agissons comme tel ». Dans ces conditions, le tiers des hôpitaux ont dû interrompre leur activité, les chirurgiens opèrent parfois sans anesthésie, les habitants boivent une eau saumâtre, les pénuries alimentaires se font sentir, avec un risque important de décès des personnes les plus vulnérables, à commencer par les enfants.

      Dans le même temps, en Cisjordanie, plus d’une centaine de Palestiniens ont été tués par des colons et des militaires, tandis que plus de 500 éleveurs bédouins ont été chassés de leurs terres et de leur maison, « nettoyage ethnique » que dénoncent des associations de droits humains israéliennes. Croire que cette répression féroce permettra de garantir la sécurité à laquelle les Israéliens ont droit est une illusion dont les 75 dernières années ont fait la preuve.

      L’annihilation du Hamas, que la plupart des experts jugent irréaliste, se traduit de fait par un massacre des civils gazaouis, ce que la Première ministre française appelle une « catastrophe humanitaire », mais dans lequel un nombre croissant d’organisations et d’analystes voient le spectre d’un génocide.

      L’organisation états-unienne Jewish Voice for Peace implore « toutes les personnes de conscience d’arrêter le génocide imminent des Palestiniens ». Une déclaration signée par 880 universitaires du monde entier « alerte sur un potentiel génocide à Gaza ». Neuf Rapporteurs spéciaux des Nations unies en charge des droits humains, des personnes déplacées, de la lutte contre le racisme et les discriminations, l’accès à l’eau et à la nourriture parlent d’un « risque de génocide du peuple palestinien ». Pour la Directrice régionale de l’Unicef pour le Moyen Orient et l’Afrique du nord, « la situation dans la bande de Gaza entache de plus en plus notre conscience collective ». Quant au Secrétaire général des Nations unies, il affirme : « Nous sommes à un moment de vérité. L’histoire nous jugera ».

      Alors que la plupart des gouvernements occidentaux continuent de dire « le droit d’Israël à se défendre » sans y mettre de réserves autres que rhétoriques et sans même imaginer un droit semblable pour les Palestiniens, il y a en effet une responsabilité historique à prévenir ce qui pourrait devenir le premier génocide du XXIe siècle. Si celui des Hereros s’était produit dans le silence du désert du Kalahari, la tragédie de Gaza se déroule sous les yeux du monde entier.

      https://aoc.media/opinion/2023/10/31/le-spectre-dun-genocide-a-gaza

    • Cette réponse sur AOC est d’une mauvaise foi affligeante. Ils se piquent de faire du droit international, et ne se rendent pas compte que leurs conclusions vont à l’encontre de ce qui est déclamé par les instances multilatérales internationales depuis des dizaines d’années.

      Personnellement, les fachos qui s’ignorent et qui prennent leur plume pour te faire comprendre que tu n’es pas assez adulte pour comprendre la complexité du monde, ils commencent à me chauffer les oreilles. La tolérance c’est bien, mais le déni c’est pire. Et là, cette forme de déni, elle est factuelle. Elle n’est pas capillotractée comme lorsqu’on étudie les différentes formes d’un mot pour en déduire un supposé racisme pervers et masqué.

    • La réponse dans AOC mais fait vraiment penser à la sailli de Macron sur les violences policières : « dans un État de droit il est inadmissible de parler de violences policières » : autrement dit ce ne sont pas les violences elles-mêmes, concrète, prouvées, qui sont à condamner, mais c’est le fait d’en parler, de mettre des mots pour les décrire.

      Là c’est pareil, l’État israélien fait littéralement ces actions là : tuerie de masse par bombes sur civils, destruction des moyens de subsistance en brulant les champs (d’oliviers et autres), et en coupant tout accès à l’eau (base de la vie quand on est pas mort sous les bombes) ; ce qui correspond bien factuellement au même genre de stratégie militaire d’annihilation des Héréros par les allemands. Mais ce qui est à condamner c’est le fait de le décrire parce que ça serait antisémite, et non pas les actions elles-mêmes.

      Parce que l’accusation d’empoisonnement est un classique de l’antisémitisme depuis le moyen âge, alors si concrètement une armée et des colons de culture juive bloquent l’accès à la subsistance terre et eau, ça n’existe pas et il ne faut pas en parler.

      (Et c’est le même principe que de s’interdire de dire que le Hamas est un mouvement d’extrême droite, avec une politique autoritaire et ultra réactionnaire, et qu’ils promeuvent des crimes de guerre, parce qu’ils se battent contre l’État qui les colonise. Il fut un temps où beaucoup de mouvements de libération, de lutte contre le colonialisme et ou les impérialismes, faisaient attention aux vies civiles, comme le rappelait Joseph Andras il me semble.)

      #campisme clairement ("mon camp", « notre camp », ne peut pas faire ça, puisque c’est les méchants qui nous accusaient faussement de faire ça…)

  • Stop aux #massacres en cours à #Gaza

    L’horreur succède à l’horreur. Aux crimes antisémites commis par le #Hamas le week-end dernier et à la découverte des atrocités succède désormais la #vengeance aveugle du gouvernement israélien. Après avoir bestialisé les Palestinien·nes de Gaza par des déclarations racistes aux accents exterminateurs, le gouvernement Netanyahu déploie toute la disproportion de sa puissance militaire et diplomatique et prive les habitant·es de Gaza d’eau, d’électricité et de carburant tant que les otages ne sont pas libéré·es, et organise le déplacement forcé de plus de 1,1 million de personnes.

    Ces mesures criminelles et inhumaines, qui engagent le pronostic vital de 2,3 millions de personnes, s’accompagnent de #bombardements massifs occasionnant des victimes en grande majorité civiles, parmi lesquelles des enfants et des personnes vulnérables. Le bilan est actuellement de plus de 1500 mort·es et plus de 6600 blessé·es et s’alourdit d’heure en heure. Le massacre, les déplacements forcés de population et les restrictions infligées aux Gazaoui·es ne sont en aucune façon une réponse tolérable aux tueries du 7 octobre. Comme sont proscrits les prises d’otages et les massacres du Hamas, le #droit_international, notamment la convention de Genève interdit ce que pratique le gouvernement israélien : la prise pour cible de #civils ou d’objectifs civils, les #punitions_collectives, et le fait de priver des populations des biens nécessaires à leur survie. On ne peut répondre à des #crimes par d’autres crimes.

    Le massacre du 7 octobre oblige Israël à repenser la forme que peut prendre l’avenir pour les deux peuples sur cette terre. Deux options existent : la recherche difficile d’une solution politique acceptable pour les deux peuples, ou l’écrasement dans un #bain_de_sang de toute revendication palestinienne auquel continueront à répondre des meurtres et des attentats. La seule possibilité acceptable est celle d’une #paix fondée sur la #justice, pour toutes et tous. C’est ce que résume le slogan « Pas de justice, pas de paix », que beaucoup comprennent comme un appel à se battre mais qui n’est en réalité qu’un constat. Aujourd’hui, la pire solution semble privilégiée, mais nous n’avons pas d’autre choix que celui de croire en des jours meilleurs et de tout faire pour les voir arriver. Tikoun Olam.

    Nous pleurons toutes les victimes, assassinées par les tueurs du Hamas ou massacrées par le gouvernement d’Israël qui n’a comme seule ligne de conduite la #domination par la puissance des #armes. De part et d’autre de la frontière, plus de 2700 personnes ont déjà perdu la vie, plus de 10000 sont blessées et plus d’une centaine sont retenues en otage.

    Il est urgent que l’ensemble des pouvoirs étatiques, ONG, et observateurices exterieur·es, civil·es ou professionnel·les, mettent tout en œuvre pour obtenir la reprise des flux vitaux vers Gaza et la libération immédiate des #otages. Ils doivent imposer un #cessez-le-feu et forcer la reprise d’un réel processus vers une #paix_juste et durable dans le respect des résolutions de l’ONU, du droit international et des légitimes aspirations de paix et de justice pour les Palestinien·nes et les Israélien·nes.

    Notre cœur est déchiré mais nous ne pouvons pas participer en l’état à un certain nombre de rassemblements « en faveur des Palestinien·nes » organisés entre autres par des groupes ayant explicitement soutenu l’attaque du Hamas. Nous appelons ces organisations à une sérieuse #auto-critique. Nous rappelons encore une fois que le Hamas inscrit l’#antisémitisme jusque dans sa charte, que pour lui, tous·tes les Juif·ves sont des cibles, et qu’il n’a jamais hésité à mettre cette idée en pratique. Les déclarations de ces partis et groupes politiques ne nous permettent donc pas d’envisager ces rassemblements comme autre chose que des espaces d’indifférence ou même de réjouissance face aux massacres antisémites perpétrés. Elles nous indiquent, au contraire, que ce sont des lieux où notre sécurité physique et psychologique n’est pas assurée.

    Il en est ainsi lorsque le NPA dans un texte consacré au massacre dit apporter « son soutien aux moyens de lutte choisis par les Palestiniens pour résister » et parle, pour désigner les villages et kibboutzim où, au même moment, les tueurs du Hamas sont à l’œuvre, de « colonies acquises aux résistantEs »(communiqué du 7 octobre) ; lorsque #Palestine_Vaincra lit le massacre comme « une démonstration de force des capacités de la résistance qui met à nu la faillibilité du projet sioniste » (le 7 octobre) ; lorsque l’#UJFP compare les tueurs du Hamas aux héros de l’affiche rouge (le 9 octobre) ; lorsque Unité Communiste voit dans ces attaques « une preuve d’espoir pour les colonisés du monde entier » (le 10 octobre) ; ou lorsque le groupe Inverti·es mentionne le Hamas comme « un groupe de résistance derrière lequel se mobilise le peuple palestinien, […] fruit du #colonialisme » (11 octobre).

    Dans le même temps nous assistons à un durcissement de la droite, caractérisé notamment par la volonté du ministère de l’Intérieur de criminaliser et d’interdire toute manifestation de solidarité avec les Palestinien·nes. Parallèlement, certains utilisent le massacre du 7 octobre pour stigmatiser les minorités arabe et musulmane, considérées comme collectivement complices. Nous condamnons avec la plus grande force tout ces discours de #haine et de #stigmatisation envers les personnes arabes et/ou musulmanes et leur apportons tout notre soutien. Les Musulman·es de France ne sont pas plus responsables des crimes du Hamas que les Juif·ves de France ne le sont de ceux du gouvernement israélien.

    Nous ne souscrivons pas à la criminalisation du mouvement de #solidarité avec les Palestinien·es, qui n’est rien d’autre qu’une façon de laisser les mains libres au gouvernement israélien pour écraser Gaza sous les bombes et priver les Gazaoui·es des moyens élémentaires de survie. Au contraire, nous souhaitons participer à l’établissement d’un front réellement unitaire se donnant l’objectif et les moyens de réaliser une pression populaire internationale sur l’ensemble des acteurs du conflit.

    L’établissement d’un tel front ne peut se faire que sur la base d’une #condamnation sans équivoque des crimes du Hamas et du gouvernement israélien et avec une revendication de #paix_dans_la_justice. Nous appelons donc toutes les personnes partageant ces objectifs à réfléchir avec nous à l’organisation d’initiatives pour la paix et la justice qui ne sombreraient pas dans des logiques mortifères.

    https://juivesetjuifsrevolutionnaires.wordpress.com/2023/10/13/stop-aux-massacres-en-cours-a-gaza
    #7_octobre_2023 #Palestine #Israël #à_lire

  • Aux #origines de l’#histoire complexe du #Hamas

    Le Hamas replace violemment la question palestinienne sur le devant de la scène géopolitique. Retour aux origines du mouvement islamiste palestinien, fondé lors de la première Intifada et classé organisation terroriste par les États-Unis et l’Union européenne.

    L’arméeL’armée israélienne a indiqué, samedi 14 octobre, avoir tué deux figures du Hamas qui auraient joué un rôle majeur dans l’attaque terroriste qui a plongé il y a une semaine le peuple israélien dans « les jours les plus traumatiques jamais connus depuis la Shoah », pour reprendre l’expression de la sociologue franco-israélienne Eva Illouz (plus de 1 300 morts, 3 200 blessés ainsi qu’au moins 120 otages, parmi lesquels de nombreux civils).

    Le responsable des Nukhba, les unités d’élite du Hamas, Ali Qadi, aurait été tué, de même que Merad Abou Merad, chef des opérations aériennes dans la ville de Gaza. Dimanche, c’est la mort d’un commandant des Nukhba, Bilal el-Kadra, présenté par l’armée israélienne comme le responsable des massacres du 7 octobre dans les kibboutz de Nirim et de Nir Oz, qui a été annoncée.

    Depuis l’offensive surprise du Hamas, Israël assiège et pilonne en représailles la bande de Gaza. Ses bombardements ont fait en l’espace de quelques jours 2 750 morts, dont plus de 700 enfants, et 9 700 blessés, selon un bilan du ministère palestinien de la santé du Hamas établi lundi matin. « Ce n’est que le début », a prévenu le premier ministre israélien Benyamin Nétanyahou, qui a déclaré : « Le Hamas, c’est Daech et nous allons les écraser et les détruire comme le monde a détruit Daech. »

    S’il est difficile de ne pas convoquer la barbarie de Daech en Syrie, en Irak ou sur le sol européen devant les massacres commis le 7 octobre par le mouvement islamiste palestinien dans la rue, des maisons ou en pleine rave party, la comparaison entre les deux organisations a ses limites.

    « Oui, le Hamas a commis des crimes odieux, des crimes de guerre, des crimes contre l’humanité, mais c’est un mouvement nationaliste qui n’a rien à voir avec Daech ou Al-Qaïda, nuance Jean-Paul Chagnollaud, professeur des universités, directeur de l’Institut de recherche et d’études Méditerranée/Moyen-Orient (iReMMO). Il représente ou représentait largement un bon tiers du peuple palestinien. Si Mahmoud Abbas [chef de l’Autorité palestinienne – ndlr] a annulé les élections il y a deux ans, c’est parce que le Hamas avait des chances d’emporter les législatives. »

    « La comparaison avec Daech a une visée politique qui consiste à enfermer le Hamas dans un rôle de groupe djihadiste, abonde le chercheur Xavier Guignard, spécialiste de la Palestine au sein du centre de recherche indépendant Noria. Je comprends le besoin de caractériser ce qu’il s’est produit, mais cette comparaison nous prive de voir tout ce qu’est aussi le Hamas », un mouvement islamiste de libération nationale, protéiforme, politique et militaire, qui est l’acronyme de « Harakat al-muqawama al-islamiya », qui signifie « Mouvement de la résistance islamique ».

    Considéré comme terroriste par l’Union européenne, les États-Unis ainsi que de nombreux pays occidentaux, le Hamas, dont la branche politique dans la bande de Gaza est dirigée par Yahya Sinouar (qui fut libéré en 2011 après vingt-deux ans dans les geôles israéliennes lors de l’échange de 1 027 prisonniers palestiniens contre le soldat franco-israélien Gilad Shalit), est arrivé au pouvoir lors d’une élection démocratique. Il a remporté les législatives de 2006. L’année suivante, il prend par la force le contrôle de la bande de Gaza au terme d’affrontements sanglants et aux dépens de l’Autorité palestinienne (AP), reconnue par la communauté internationale et dominée par le Fatah (Mouvement national palestinien de libération, non religieux) de Mahmoud Abbas, qui contrôle la Cisjordanie.
    Guerre fratricide

    Cette prise de pouvoir constitue un moment charnière. Elle provoque une guerre fratricide entre les formations palestiniennes et offre à l’État hébreu une occasion de durcir encore, en riposte, le blocus dans la bande de Gaza, en limitant la circulation des personnes et des biens, avec le soutien de l’Égypte. Un blocus dévastateur par terre, air et mer qui asphyxie l’économie et la population depuis plus d’une décennie et a été aggravé par les guerres successives et les destructions sous l’effet des bombardements israéliens.

    Officiellement, pour Israël, qui a décolonisé le territoire en 2005, le blocus vise à empêcher que le Hamas, qui se caractérise par une lutte armée contre l’État hébreu, se fournisse en armes. Créé en décembre 1987 par les Frères musulmans palestiniens (dont la branche a été fondée à Jérusalem en 1946, deux ans avant la proclamation de l’État d’Israël), lors de la première intifada (soit le soulèvement palestinien contre l’occupation israélienne de la Cisjordanie et de la bande de Gaza), alors massive et populaire, le mouvement a épousé la lutte armée contre Israël à cette époque.

    « Un profond débat interne » avait alors agité ses fondateurs, comme le raconte sur la plateforme Cairn l’universitaire palestinien Khaled Hroub : « Deux points de vue s’opposent. Les uns poussent à un tournant politique dans le sens d’une résistance à l’occupation, contournant par là les idées anciennes et traditionnelles en fonction desquelles il convient de penser avant tout à l’islamisation de la société. Les autres relèvent de l’école classique des Frères musulmans : “préparer les générations” à une bataille dont la date précise n’est toutefois pas fixée. Avec l’éruption de l’intifada, les tenants de la ligne dure gagnent du terrain, arguant des répercussions très négatives sur le mouvement si les islamistes ne participent pas clairement au soulèvement, sur un même plan que les autres organisations palestiniennes qui y prennent part. »

    Acculé par son « rival plus petit et plus actif », le Jihad islamique, « une organisation de même type – et non pas nationaliste ou de gauche », poursuit Khaled Hroub, le Hamas a fini par accélérer sa transformation interne.

    La transformation de la branche palestinienne des Frères musulmans en Mouvement de la résistance islamique n’est pas allée de soi, et les discussions ont été vives avant que le sheikh Yassin, tout frêle qu’il soit dans son fauteuil roulant de paralytique, ne l’emporte. Une partie des membres tenaient en effet à rester sur la ligne frériste : transformer la société par le prêche, l’éducation et le social. Le nationalisme n’a pas droit de cité dans cette conception, c’est la communauté des croyants qui compte. Le Hamas, lui, rajoute à l’islam politique une dimension nationaliste.

    Sa charte, 36 articles en cinq chapitres, rédigée en 1988, violemment antisémite, est sans équivoque : le Hamas appelle au djihad (guerre sainte) contre les juifs, à la destruction d’Israël et à l’instauration d’un État islamique palestinien. Vingt-neuf ans plus tard, en 2017, une nouvelle charte est publiée sans annuler celle de 1988. Le Hamas accepte l’idée d’un État palestinien limité aux frontières de 1967, avec Jérusalem pour capitale et le droit au retour des réfugié·es, et dit mener un combat contre « les agresseurs sionistes occupants » et non contre les juifs.

    En 1991, la branche du Hamas consacrée au renseignement devient une branche armée, celle des Brigades Izz al-Din al-Qassam. À partir d’avril 1993, l’année des accords d’Oslo signés entre l’OLP (Organisation de libération de la Palestine) de Yasser Arafat et l’État hébreu, que le Hamas a rejetés estimant qu’il s’agissait d’une capitulation, les Brigades Izz al-Din al-Qassam mènent régulièrement des attaques terroristes contre les soldats et les civils israéliens pour faire échouer le processus de paix. Pendant des années, elles privilégient les attentats-suicides, avant d’opter à partir de 2006 pour les tirs de roquettes et de mortiers depuis Gaza.

    Ces dernières années, le Hamas, critiqué pour sa gestion autoritaire de la bande de Gaza, sa corruption, ses multiples violations des droits humains (il a réprimé en 2019 la colère de la population exténuée par le blocus israélien), était réputé en perte de vitesse, mis face à l’usure du pouvoir.
    Prise de pouvoir de la branche militaire

    Son offensive meurtrière par la terre, les airs et la mer du samedi 7 octobre – cinquante ans, quasiment jour pour jour, après le déclenchement de la guerre de Kippour et à l’heure des accords d’Abraham visant à normaliser les relations entre Israël et plusieurs pays arabes sur le dos des Palestiniens et sous pression des États-Unis – le replace en première ligne. Elle révèle sa nouvelle puissance ainsi qu’un savoir-faire jusque-là inédit dans sa capacité de terrasser l’une des armées les plus puissantes de la région et d’humilier le Mossad et le Shin Bet, les tout-puissants organes du renseignement extérieur et intérieur israélien.

    Elle révèle aussi le pouvoir pris par la branche militaire sur la branche politique d’un mouvement sunnite qui serait fort d’une mini-armée, dotée d’environ 40 000 combattants et de multiples spécialistes, notamment en cybersécurité, selon Reuters. Un mouvement qui peut compter sur ses alliés du « Front de la résistance » pour l’équiper : l’Iran, la Syrie et le groupe islamiste chiite Hezbollah au Liban, avec lesquels il partage le rejet d’Israël.

    Sur les plans militaire, diplomatique et financier, l’Iran chiite est l’un de ses principaux soutiens. Selon un rapport du Département d’État américain de 2020, cité par Reuters, l’Iran fournit environ 100 millions de dollars par an à des groupes palestiniens, notamment au Hamas. Cette aide aurait considérablement augmenté au cours de l’année écoulée, passant à environ 350 millions de dollars, selon Reuters.

    Le Hamas n’est pas seulement un mouvement politique et une organisation combattante, c’est aussi une administration. À ce titre, il lève des impôts et met en place des taxes sur tout ce qui rentre dans la bande de Gaza, soit légalement, par les points de passage avec Israël et avec l’Égypte, soit illégalement. Les revenus qu’il perçoit ainsi sont estimés à près de 12 millions d’euros par mois. Ce qui est peu, finalement, car cette administration doit payer ses fonctionnaires et assurer un minimum de protection sociale, sous forme d’écoles, d’institutions de santé, d’aides aux plus défavorisés. Il est en cela aidé par le Qatar sunnite, avec l’aval du gouvernement israélien. L’émirat a ainsi versé 228 millions d’euros en 2021 et cette somme devait être portée à 342 millions en 2021.

    Le Hamas figurant sur les listes américaine et européenne des mouvements soutenant le terrorisme, le système bancaire international lui est fermé. Aussi, quand cette aide est mise en place, en 2018, ce sont des valises de billets qui arrivent, en provenance du Qatar, à l’aéroport de Tel Aviv et prennent ensuite la route de Gaza où elles pénètrent le plus officiellement du monde. Par la suite, les opérations seront plus discrètes.

    Plus discrets, aussi, d’autres transferts à des fins moins avouables que le paiement du fuel pour la centrale électrique ou des médicaments pour les hôpitaux. Ceux-là arrivent jusqu’au Hamas par des cryptomonnaies. Même si les relations avec l’Iran sont moins bonnes depuis que le Hamas a soutenu la révolution syrienne de 2011, la république islamique reste encore le principal financier de son arsenal, de l’aveu même d’Ismail Hanniyeh. Le chef du bureau politique du Hamas, basé à Doha, a affirmé en mars 2023 que Téhéran avait versé 66 millions d’euros pour l’aider à développer son armement.

    Le Qatar accueille également plusieurs des dirigeants du Hamas. Quand ils ne s’abritent pas au Liban ou dans « le métro » de Gaza, ce dédale de tunnels creusés sous terre depuis l’aube des années 2000, qui servent tout à la fois de planques et d’usines où l’on fabrique ou importe des armes, bombes, mortiers, roquettes, missiles antichar et antiaériens, etc.

    Pour les uns, le Hamas a enterré la cause palestinienne à jamais le 7 octobre 2023 et est le meilleur ennemi des Palestinien·nes. Pour les autres, il a réalisé un acte de résistance, de libération nationale face à la permanence de l’occupation, la mise en danger des lieux saints à Jérusalem, l’occupation en Cisjordanie. « Quand il s’agit de la cause palestinienne, tout mouvement se dressant contre Israël est considéré comme un héraut, quelle que soit son idéologie », constate Mohamed al-Masri, chercheur au Centre arabe de recherches et d’études politiques de Doha, au Qatar, dans un entretien à Mediapart.

    Samedi 7 octobre, c’est Mohammed Deif qui a annoncé le lancement de l’opération « Déluge d’al-Aqsa » contre Israël pour « mettre fin à tous les crimes de l’occupation ». Le nom n’est pas choisi au hasard. Il fait référence à l’emblématique mosquée dans la vieille ville de Jérusalem, symbole de la résistance palestinienne et troisième lieu saint de l’islam après La Mecque et Médine, d’où le prophète Mahomet s’est élevé dans le ciel pour rencontrer les anciens prophètes, dont Moïse, et se rapprocher de Dieu.

    Mohammed Deif est l’ennemi numéro un de l’État hébreu, le cerveau de ce qui est devenu « le 11-Septembre israélien » : il est le commandant de la branche armée du Hamas. Surnommé le « chat à neuf vies » pour avoir survécu à de multiples tentatives d’assassinat, Mohammed Diab Ibrahim al-Masri, de son vrai nom, serait né en 1965 dans le camp de réfugié·es de Khan Younès, dans le sud de la bande de Gaza. Il doit son surnom de « Deif » – « invité » en arabe – au fait qu’il ne dort jamais au même endroit.

    Il a rejoint le Hamas dans les années 1990, connu la prison israélienne pour cela, avant d’aider ensuite à fonder la branche armée du Hamas dans les pas de son mentor qui lui a appris les rudiments des explosifs, Yahya Ayyash. Après l’assassinat de ce dernier, il a pris les rênes des Brigades Al-Qassam. Israël peut détruire l’appareil du Hamas, avec des assassinats ciblés. D’autres se tiennent prêts à prendre la relève dans l’ombre des maîtres. Deif en est un exemple emblématique.

    « Le Hamas a été promu en sous-main par Nétanyahou, rappelle dans un entretien à Mediapart l’écrivain palestinien et ancien ambassadeur de la Palestine auprès de l’Unesco, Elias Sanbar. J’ai le souvenir, tandis qu’Israël organisait un blocus financier à l’encontre du Fatah et de l’Autorité palestinienne, que les transferts d’argent au Hamas passaient alors par des banques israéliennes ! La créature d’Israël s’est retournée contre lui. Entre-temps, elle s’est nourrie des échecs de l’Autorité palestinienne, dont les représentants sont accusés d’être des naïfs, sinon des traîtres, partant depuis 1993 dans des négociations avec Israël pour en revenir toujours bredouilles. »

    –—

    Sur la charte de 1988 et le document de 2017

    La charte du Hamas, publiée en 1988 (il existe une traduction du texte intégral réalisée par le chercheur Jean-François Legrain, spécialiste du Hamas), reprend les antiennes antisémites européennes. Elle définit le Hamas comme « un des épisodes du djihad mené contre l’invasion sioniste » et affirme notamment que le mouvement « considère que la terre de Palestine [dans cette acceptation Israël, Cisjordanie et bande de Gaza – ndlr] est une terre islamique de waqf [mot arabe signifiant legs pieux et désignant des biens inaliénables dont l’usufruit est consacré à une institution religieuse ou d’utilité publique – ndlr] pour toutes les générations de musulmans jusqu’au jour de la résurrection. Il est illicite d’y renoncer tout ou en partie, de s’en séparer tout ou en partie ».

    Dans son livre Le Grand aveuglement, sur les relations parfois en forme de pas-de-deux, entre les dirigeants israéliens successifs et le Hamas, Charles Enderlin cite de nombreux rapports du Shabak, service de renseignement intérieur de l’État hébreu. Dont celui-ci, dans la foulée de la diffusion de la charte de 1988 : « Le Hamas présente la libération de la Palestine comme liée à trois cercles : palestinien, arabe et islamique. Cela signifie le rejet absolu de toute initiative en faveur d’un accord de paix, car : “Renoncer à une partie de la Palestine équivaut à renoncer à une partie de la religion. La seule solution au problème palestinien c’est le djihad”. »

    Dans la lignée de ce texte, le Hamas, qui n’appartient pas à l’Organisation de Libération de la Palestine (OLP), dont fait partie le Fatah, parti de Yasser Arafat, rejette évidemment les Accords d’Oslo et toutes les phases de négociations.

    Au fil des années cependant se feront jour des déclarations plus pragmatiques. Le sheikh Yassin lui-même a, avant son assassinat par Israël en 2004, affirmé à plusieurs reprises que le Hamas était près à une hudna (trêve) avec l’État hébreu, laissant aux générations futures le soin de reprendre, ou non, le combat.

    La participation du Hamas aux élections législatives de 2006 est considérée comme une reconnaissance informelle et non dite de l’État d’Israël. Le Hamas accepte en effet un scrutin qui se déroule sur une partie, et une partie seulement, de la Palestine historique, celle des frontières de 1967, ceci en contradiction avec la charte de 1988.

    Dans une longue et savante analyse, l’historien Jean-François Legrain, reconnu comme un des meilleurs spécialistes français du Hamas, explique que la charte de 1988, écrit par un individu anonyme, n’a pas fait consensus dans les instances dirigeantes du Hamas. Elle était très peu citée par ses cadres. Ce qui ne signifie pas que des responsables du Hamas ne tenaient pas des discours antisémites. Lors d’une interview en 2009, Mahmoud al-Zahar, alors important responsable du Hamas dans la bande de Gaza, défendait la véracité du Protocole des sages de Sion, cité dans la charte de 1988.

    Au cours de la décennie qui suit sa victoire aux élections législatives puis sa guerre fratricide avec le Fatah, le Hamas, maître désormais de la bande de Gaza, montrera qu’il ne renonce pas à la lutte armée : s’il semble avoir renoncé aux attentats-suicides, si nombreux de 1993 à 1996 puis entre 2001 et 2005, il lance régulièrement des roquettes Qassam, du nom de sa branche militaire, en direction du territoire israélien.

    Ce sont les civils qui en paient le prix, avec des guerres lancées contre la bande de Gaza en 2008, 2012, 2014 et 2021. Le Hamas, sans abandonner la lutte armée, adopte en 2017 un Document de principes et de politique généraux qui semble aller contre les principes de la charte de 1988. Il ne s’agit plus de lutter contre les Juifs, mais contre les sionistes : « Le Hamas affirme que son conflit porte sur le projet sioniste et non sur les Juifs en raison de leur religion. Le Hamas ne mène pas une lutte contre les Juifs parce qu’ils sont juifs, mais contre les sionistes qui occupent la Palestine » (article 16). Plus remarqué encore, l’acceptation des frontières de 1967 : « Le Hamas rejette toute alternative à la libération pleine et entière de la Palestine, du fleuve à la mer. Cependant, sans compromettre son rejet de l’entité sioniste et sans renoncer à aucun droit palestinien, le Hamas considère que la création d’un État palestinien pleinement souverain et indépendant, avec Jérusalem comme capitale, selon les lignes du 4 juin 1967, avec le retour des réfugiés et des personnes déplacées dans leurs foyers d’où ils ont été expulsés, est une formule qui fait l’objet d’un consensus national » (article 20).

    La charte de 1988 n’est pour autant pas caduque, explique à la chercheuse Leila Seurat Khaled Mechaal, un des membres fondateurs du Hamas : « Le Hamas refuse de se soumettre aux désidératas des autres États. Sa pensée politique n’est jamais le résultat de pressions émanant de l’extérieur. Notre principe c’est : pas de changement de document. Le Hamas n’oublie pas son passé. Néanmoins la charte illustre la période des années 1980 et le document illustre notre politique en 2017. À chaque époque ses textes. Cette évolution ne doit pas être entendue comme un éloignement des principes originels, mais plutôt comme une dérivation (ichtiqaq) de la pensée et des outils pour servir au mieux la cause dans son étape actuelle. »

    Le nouveau document maintient, de toute façon, la lutte armée comme moyen de parvenir à ses fins.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/161023/aux-origines-de-l-histoire-complexe-du-hamas
    #à_lire
    #complexité #Palestine #Israël #Intifada #Gaza #bande_de_Gaza #Daech #Fatah #blocus #lutte_armée #frères_musulmans #nationalisme #islam_politique #djihad #Brigades_Izz al-Din_al-Qassam #terrorisme #corruption #droits_humains #droits_fondamentaux #Iran #Qatar #armes #armement #tunnels #occupation #résistance #libération_nationale #Déluge_d’al-Aqsa #7_octobre_2023 #Mohammed_Deif #Yahya_Ayyash #Brigades_Al-Qassam #Autorité_palestinienne

  • Le 23 septembre nous marchons pour un monde sans armes nucléaires
    https://www.obsarm.info/spip.php?article588

    Dans le cadre de la Journée internationale de la Paix (21 septembre) et de la Journée internationale pour l’élimination totale des #Armes_nucléaires (26 septembre) ICAN France, le Mouvement pour une alternative non-violente, le Mouvement de la Paix et l’Observatoire des armements appellent la population à participer le samedi 23 septembre aux différents événements qui seront réalisés à Lyon, Dijon, Paris, Quimper et d’autres villes pour porter le message : la France doit rejoindre le Traité des Nations (...) #Communiqués_de_presse

    / Armes nucléaires, #Victimes_du_nucléaire, #Actions_contre_la_guerre, #La_une

  • The American Soul Is a Murderous Soul
    https://foreignpolicy.com/2016/08/10/the-american-soul-is-a-murderous-soul-guns-violence-second-amendment-trump/#cookie_message_anchor

    By Patrick Blanchfield - In 1923, the British novelist D. H. Lawrence offered a grim assessment of America and Americans: “All the other stuff, the love, the democracy, the floundering into lust, is a sort of by-play. The essential American soul is hard, isolate, stoic, and a killer. It has never yet melted.”

    Lawrence’s observations of the American character did not draw upon deep wells of direct personal experience. When he wrote those lines, he had only been living in the United States for a bit more than a year and had spent much of that time among artists and the literati. But he was neither the first nor the last to make such an observation. Nearly 50 years ago, surveying both the wreckage of the 1960s and centuries of archives, the brilliant historian Richard Hofstadter acknowledged that “Americans certainly have reason to inquire whether, when compared with other advanced industrial nations, they are not a people of exceptional violence.”

    The allegation that the American character is essentially murderous — or at least more murderous than that of other nations — still strikes a chord today. It’s not just the periodic invitations to violence that Republican presidential nominee Donald Trump has issued over the course of his campaign, most recently against his Democratic competitor Hillary Clinton. This summer’s headlines have also enumerated trauma after trauma. Eight members of a single family murdered in Ohio. Forty-nine dead in a mass shooting in Florida. Shootings by police claiming the lives of black Americans in Louisiana, Minnesota, and Maryland. Fatal shootings of police in Texas, Louisiana, and California. Breaking reports of horror follow one another fast enough to induce a kind of whiplash.

    Or consider the strenuousness with which each political party now routinely denies that Americans are inherently violent, a refrain that can begin to feel like protesting too much. In his final speech at the Republican National Convention last month, Trump bemoaned the “violence in our streets and the chaos in our communities” but, true to form, laid the blame on hordes of “illegal immigrants … roaming free to threaten peaceful citizens”; “brutal Islamic terrorism”; and the enabling of a Democratic president whom Trump has previously and unsubtly intimated isn’t really American himself.

    Democrats likewise tend to suggest that, for Americans, acts of violence are an aberration. Announcing a gun safety program in the wake of last December’s mass shooting in San Bernardino, California, President Barack Obama declared: “We are not inherently more prone to violence. But we are the only advanced country on Earth that sees this kind of mass violence erupt with this kind of frequency.” From this perspective, violence in America does not indicate anything “inherent” in the American character: It is about the presence of guns, the availability of which is a contingent and remediable matter of policy.

    But what if there’s good reason to believe that being American has always involved a relationship of some kind to violence — whether as its victim, as its perpetrator, as a complicit party, or even as all of these at once. Rather than assuming, in Obama’s words, that Americans are “not inherently more prone to violence,” the country owes it to itself to finally try to consider the question directly.

    How is violence quantified, and what are the benchmarks used to assess whether a given society’s level of violence is high or low, normal or exceptional? The general practice among researchers across numerous disciplines is to present yearly “intentional homicide” rates per 100,000 of a given nation’s population; crucially, these figures do not include deaths directly related to full-blown wars.

    The U.N. Office on Drugs and Crime (UNODC) compiles national figures for its reports, the most recent of which reflects data from 2012 and 2013. Per the UNODC, some 437,000 people were murdered worldwide in 2012, putting the average murder rate at 6.2 victims per 100,000 persons. But beyond that average figure, as you might expect, there is wide variation in terms of both individual nations and continents. Regionally, Central America and southern Africa both clock in at over four times the global average (more than 25 per 100,000), while Western Europe and East Asia are some five times lower than it. Within continents and regions, the variations can be stark. Thus, to take Africa as an example, the rate in Senegal is 2.8; Egypt, 3.4; Sudan, 11.2; and Lesotho, the highest, at 38. In Europe, Switzerland’s rate is 0.6; the U.K., 1; Finland, 1.6; Lithuania, 6.7; and Russia, the highest, at 9.2. The Americas show the widest variation: Canada’s rate is 1.6; Argentina, 5.5; Costa Rica, 8.5; Panama, 17.2; Mexico, 21.5; and Honduras, the highest in the world — at 90.4 per 100,000.

    Against this backdrop, for the period of 2007-2012, the United States has averaged 4.9 homicides per 100,000 persons. America thus stands more or less shoulder to shoulder with Iran (4.1), Cuba (4.2), Latvia (4.7), and Albania (5). So much for the data on homicides tout court. The question then is whether or not to consider America’s standing among countries like these to be an aberration. Such states certainly aren’t in the same class as the United States in terms of development metrics like per capita GDP, and this fact tends to get cited by American politicians and political observers as prima facie evidence that something else (whether “terrorists” or guns) is skewing their country’s violence data, pushing it out of its allegedly more “natural” peer group — places like the Scandinavian states, the U.K., or Japan.

    But while such comparisons may sound rigorous at first blush, they are often naively aspirational (at best) or deliberately deceptive and chauvinistic (at worst). Nowhere is this more blatant than in the context of the debate over guns. For example, many gun control advocates and supposedly objective analysts will condemn violence in the United States as abnormal by invoking comparisons to “developed” nations as defined by the Organization for Economic Cooperation and Development (OECD). Yet these comparisons will regularly exclude Mexico, which is not only an OECD member but also America’s third-largest trading partner and its unfortunate next-door neighbor. The reason given for this exclusion, as though self-explanatory, is “the drug war.” The annual U.S. market for illegal drugs may be well over $109 billion, and an estimated quarter-million guns may be trafficked to Mexican cartels from the United States in any given year, but inviting the contemplation of such queasy moral entanglements is apparently less politically expedient, and more offensive to patriotic amour-propre, than demanding why America can’t just clean up its act and be more like the places we feel it “should” resemble.

    It’s not just our use of empirical metrics for evaluating violence in America that can be dubious. Opining on the supposedly inherent tendencies of vast groups of people toward violence — Americans, Muslims, the left-handed, anyone — should rightly raise flags. It’s the kind of thing you might expect from a 19th-century phrenologist, someone who would measure skulls for indicators of “destructiveness.” But although the vintage pseudo-scientific quackery underwriting such speculation may have fallen out of fashion, the sentiments themselves haven’t disappeared. Consider Iowa Rep. Steve King, for example, pontificating on the civilizational contributions of whites versus other “subgroups,” or research indicating widespread biases whereby black Americans are perceived to be both “prone to violence” and less susceptible to pain. Passing judgment on “a people” as an abstraction rarely leads anywhere good and frequently reveals more about the observer than the observed.

    But making claims about the inherent relationship “Americans” have with violence is especially dicey. The United States is an extremely heterogeneous country, with vast regional differences, considerable ethnic diversity, marked de facto segregation, and wide income inequality — which Americans would we be talking about?

    This is where considerations of the allegedly violent American national character run aground, though in a telling way. Because like most goods and ills in America — from job opportunities to education to healthy drinking water — violence is not equally distributed among Americans. Indeed, drilling down into the demographics of violence in America reads like an indictment of society’s broader treatment of the poor and marginalized. As analysts have pointedly observed, black Americans are some eight times more likely to be murdered than their white compatriots and, in any given year, will be killed at rates anywhere from 10 to 20 times the benchmark OECD rates. When the homicide rates for individual states rather than the national average are compared, the results are damning: The murder rates in Louisiana (11.93 per 100,000) and Washington, D.C., (13.92) are on par with figures from countries like Nicaragua (11), the Central African Republic (11.8), and Côte d’Ivoire (13.6).

    Those who cast these figures as artifacts of so-called “black-on-black crime” not only often traffic in thinly veiled racism, but don’t even attempt to understand the problem at hand. Most crimes of any sort in any place — not just murders — involve members of the same group targeting one another in close geographic proximity. And in a nation as segregated as the United States remains to this day, the concentration of violence in crowded ghettos and benighted postindustrial areas should be unsurprising. Americans have a history of citing violence as the cause of their racial prejudices. But the reality is that anti-black racism is itself the defining feature of the institutions and social pressures that generate everyday violence in the United States.

    What Americans should reflect on is how deftly their society has contained and distilled the phenomenon into marginalized communities — and how that distribution of violence is something the majority of Americans of either political persuasion tend to deem irrelevant to their periodic national debates about the country’s safety or lack thereof. The Washington-based politician or journalist who sees a headline-grabbing rampage of shootings as a sign that America is descending into barbarity, and as threatening its status as an “advanced” country, exists in a kind of cognitive bubble: Literally only blocks away, bodies regularly drop at rates otherwise only seen in violence-prone corners of the developing world. Taking an even broader view, it is arguable that, but for modern advances in antibiotics and trauma care, murder rates in such parts of the United States would surpass those historically associated with medieval Europe. American “progress,” such as it is, has apparently consisted in merely blunting some deadly outcomes and enabling others.

    Guns are undeniably a central part of this landscape. In environments in which violence is already present, and in which more violence is probable, the presence of guns appears to quicken lethal outcomes. This is true on both the level of households and the level of communities. Research indicates that, over the course of their lifetimes, one-quarter of American women will experience physical or sexual violence from a domestic partner; this rate puts the United States alongside Jordan, Serbia, Nepal, and Guatemala. But when a gun is present in an American home where there is a history of domestic violence, the likelihood that a woman living there will be killed has been credibly estimated to increase some twentyfold. On the community level, homicide rates in cities like Chicago and New York are roughly equivalent — but only for murders that don’t involve guns; gun homicides in the former are easily an order of magnitude higher than the latter.

    But these considerations do not easily translate to the national level. Although in the past year many cities have experienced a sharp and disturbing increase in homicides, with no clear explanation as to why, overall violent crime rates have been dropping for decades, even as Americans have consistently expressed a conviction that crime has been steadily getting “worse” and even as they have accordingly purchased more guns than ever before. From a certain perspective, when considering America’s unprecedented saturation with firearms, observers may be forced to admit that the surprising thing is how much more violent America could be than it currently is.

    If there is any singular feature that characterizes how many Americans understand our national relation to violence, it is our ingenuity at looking the other way, at siloing problems away from one another, and at disavowing, sublimating, or repackaging our complicity in the most easily observable patterns.

    Signs of supposed progress in expressions of American violence often disguise profound continuities. For example: The era of highly visible public lynchings, which is estimated to have claimed some 5,000 lives, has passed. Yet since then we have moved on to an institutionalized death penalty regime, wherein states that previously had the highest numbers of lynchings now have the greatest numbers of black people on death row. Both per capita and in raw numbers, America’s prisons warehouse more human beings than any other country on the planet, and its police demonstrate a clear pattern of racial bias in killing their fellow citizens at a rate stratospherically higher than that of any of its supposed peer nations. U.S. soldiers are deployed in some 135 countries, and the number of troops actually engaged in combat is almost certainly much higher than authorities are willing to admit. Meanwhile, America is far and away the world’s largest exporter of weapons, with the global arms industry’s largest and most profitable players based in the United States and reaping booming markets in conflict zones while being heavily subsidized by federal and state tax dollars.

    Everyday Americans may not be “inherently more prone to violence,” but our way of life is certainly structured around violence and around selectively empowering, quarantining, directing, and monetizing it at home and abroad. The majority of Americans apparently find no cognitive dissonance in this arrangement, if we even perceive it at all. Instead, we express bafflement and outrage that we are not something other than what we are and what we have always been. Plumbing what lurks within the “essential American soul,” a cynic might suggest, is a self-indulgent exercise, a red herring. The better question might be whether we even have one in the first place.

    #USA #violence #racisme #histoire #crime #impérialisme #armes

  • #Francesco_Sebregondi : « On ne peut pas dissocier les violences policières de la question du racisme »

    Après avoir travaillé pour #Forensic_Architecture sur les morts d’#Adama_Traoré et de #Zineb_Redouane, l’architecte #Francesco_Sebregondi a créé INDEX, pour enquêter sur les #violences_d’État et en particulier sur les violences policières en #France et depuis la France. Publié plusieurs semaines avant la mort de Nahel M., cet entretien mérite d’être relu attentivement. Rediffusion d’un entretien du 22 avril 2023

    C’est en 2010 que l’architecte, chercheur et activiste Eyal Weizman crée au Goldsmiths College de Londres un groupe de recherche pluridisciplinaire qui fera date : Forensic Architecture. L’Architecture forensique avait déjà fait l’objet d’un entretien dans AOC.

    Cette méthode bien particulière avait été créée à l’origine pour enquêter sur les crimes de guerre et les violations des droits humains en utilisant les outils de l’architecture. Depuis, le groupe a essaimé dans différentes parties du monde, créant #Investigative_Commons, une communauté de pratiques rassemblant des agences d’investigation, des activistes, des journalistes, des institutions culturelles, des scientifiques et artistes (la réalisatrice Laura Poitras en fait partie), etc. Fondé par l’architecte Francesco Sebregondi à Paris en 2020, #INDEX est l’une d’entre elles. Entre agence d’expertise indépendante et média d’investigation, INDEX enquête sur les violences d’État et en particulier sur les violences policières en France et depuis la France. Alors que les violences se multiplient dans le cadre des mouvements sociaux, comment « faire en sorte que l’État même s’équipe de mécanismes qui limitent les excès qui lui sont inhérents » ? Si la vérité est en ruines, comment la rétablir ? OR

    Vous avez monté l’agence d’investigation INDEX après avoir longtemps travaillé avec Forensic Architecture. Racontez-nous…
    Forensic Architecture est né en 2010 à Goldsmiths à Londres. À l’origine, c’était un projet de recherche assez expérimental, pionnier dans son genre, qui cherchait à utiliser les outils de l’architecture pour enquêter sur les violations des #droits_humains et en particulier du droit de la guerre. La période était charnière : avec l’émergence des réseaux sociaux et des smartphones, les images prises par des témoins étaient diffusées très rapidement sur des réseaux souvent anonymes. La quantité d’#images et de #documentation_visuelle disponible commençait à augmenter de manière exponentielle et la démocratisation de l’accès à l’#imagerie_satellitaire permettait de suivre d’un point de vue désincarné l’évolution d’un territoire et les #traces qui s’y inscrivaient. La notion de #trace est importante car c’est ce qui nous relie à la tradition de l’enquête appliquée plus spécifiquement au champ spatial. Les traces que la #guerre laisse dans l’#environnement_urbain sont autant de points de départ pour reconstruire les événements. On applique à ces traces une série de techniques d’analyse architecturale et spatiale qui nous permettent de remonter à l’événement. Les traces sont aussi dans les documents numériques, les images et les vidéos. Une large partie de notre travail est une forme d’archéologie des pixels qui va chercher dans la matérialité même des documents numériques. On peut reconstituer les événements passés, par exemple redéployer une scène en volume, à partir de ses traces numériques en image.

    Quels en ont été les champs d’application ?
    À partir du travail sur les conflits armés, au sein de Forensic Architecture, on a développé une série de techniques et de recherches qui s’appliquent à une variété d’autres domaines. On commençait à travailler sur les violences aux frontières avec le projet de Lorenzo Pezzani et Charles Zeller sur les bateaux de migrants laissés sans assistance aux frontières méditerranéennes de l’Europe, à des cas de #violences_environnementales ou à des cas de violences policières… L’origine de notre approche dans l’enquête sur des crimes de guerre faisait qu’on avait tendance à porter un regard, depuis notre base à Londres, vers les frontières conflictuelles du monde Occidental. On s’est alors rendus compte que les violences d’État qui avaient lieu dans des contextes plus proches de nous, que ce soit en Grande-Bretagne, aux États-Unis ou en Grèce, pouvaient bénéficier d’un éclairage qui mobiliserait les mêmes techniques et approches qu’on avait à l’origine développées pour des situations de conflits armés. Tout cela est en lien assez direct avec la militarisation de la #police un peu partout dans le Nord global, le contexte occidental, que ce soit au niveau des #armes utilisées qu’au niveau des #stratégies employées pour maintenir l’ordre.

    La France vous a ensuite semblé être un pays depuis lequel enquêter ?
    Je suis revenu vivre en France en 2018 en plein milieu de la crise sociale autour du mouvement des Gilets jaunes et de son intense répression policière. Dès ce moment-là, il m’a semblé important d’essayer d’employer nos techniques d’enquête par l’espace et les images pour éclairer ce qui était en train de se passer. On en parlait aussi beaucoup. En 2020, j’ai dirigé les enquêtes sur la mort d’Adama Traoré et de Zineb Redouane pour le compte de Forensic Architecture depuis la France avec une équipe principalement française. C’était une période d’incubation d’INDEX en quelque sorte. Ces enquêtes ont initié notre travail sur le contexte français en rassemblant des moyens et une équipe locale.
    On est aujourd’hui dans un rapport de filiation assez clair avec Forensic Architecture même si INDEX est structurellement autonome. Les deux organisations sont très étroitement liées et entretiennent des relations d’échange, de partage de ressources, etc. Tout comme Forensic Architecture, INDEX est l’une des organisations du réseau international Investigative Commons qui fédère une douzaine de structures d’investigation indépendantes dans différents pays et qui travaillent à l’emploi des techniques d’enquêtes en sources ouvertes dans des contextes locaux.

    Il existe donc d’autres structures comme INDEX ?
    Elles sont en train d’émerger. On est dans cette phase charnière très intéressante. On passe d’une organisation reconnue comme pionnière dans l’innovation et les nouvelles techniques d’enquête à tout un champ de pratiques qui a encore beaucoup de marge de développement et qui, en se frottant à des contextes locaux ou spécifiques, vient éprouver sa capacité à interpeller l’opinion, à faire changer certaines pratiques, à demander de la transparence et des comptes aux autorités qui se rendent responsables de certaines violences.

    On utilise depuis toujours le terme d’enquête dans les sciences humaines et sociales mais l’on voit aujourd’hui que les architectes, les artistes s’en emparent, dans des contextes tous très différents. Qu’est-ce que l’enquête pour INDEX ?
    On emploie le terme d’#enquête dans un sens peut-être plus littéral que son usage en sciences humaines ou en recherche car il est question de faire la lumière sur les circonstances d’un incident et d’établir des rapports de causalité dans leur déroulement, si ce n’est de responsabilité. Il y a aussi cette idée de suivre une trace. On travaille vraiment essentiellement sur une matière factuelle. L’enquête, c’est une pratique qui permet de faire émerger une relation, un #récit qui unit une série de traces dans un ensemble cohérent et convaincant. Dans notre travail, il y a aussi la notion d’#expertise. Le nom INDEX est une contraction de « independant expertise ». C’est aussi une référence à la racine latine d’indice. Nous cherchons à nous réapproprier la notion d’expertise, trop souvent dévoyée, en particulier dans les affaires de violences d’État sur lesquelles on travaille.

    Vos enquêtes s’appuient beaucoup sur les travaux d’Hannah Arendt et notamment sur Vérité et politique qui date de 1964.
    On s’appuie beaucoup sur la distinction que Hannah Arendt fait entre #vérité_de_fait et #vérité_de_raison, en expliquant que les vérités de fait sont des propositions qui s’appuient sur l’extérieur, vérifiables, et dont la valeur de vérité n’est possible qu’en relation avec d’autres propositions et d’autres éléments, en particuliers matériels. La vérité de raison, elle, fait appel à un système de pensée auquel on doit adhérer. C’est à partir de cette distinction qu’Arendt déploie les raisons pour lesquelles #vérité et #politique sont toujours en tension et comment la pratique du politique doit s’appuyer sur une série de vérités de raison, sur l’adhésion d’un peuple à une série de principes que le pouvoir en place est censé incarner. Ainsi, le pouvoir, dépendant de cette adhésion, doit tenir à distance les éléments factuels qui viendraient remettre en cause ces principes. C’est ce qu’on essaye de déjouer en remettant au centre des discussions, au cœur du débat et de l’espace public des vérités de fait, même quand elles sont en friction avec des « #vérités_officielles ».
    Du temps d’Hannah Arendt, le politique avait encore les moyens d’empêcher la vérité par le régime du secret. C’est beaucoup moins le cas dans les conditions médiatiques contemporaines : le problème du secret tend à céder le pas au problème inverse, celui de l’excès d’informations. Dans cet excès, les faits et la vérité peuvent se noyer et venir à manquer. On entend alors parler de faits alternatifs, on entre dans la post-vérité, qui est en fait une négation pure et simple de la dimension sociale et partagée de la vérité. Si on veut résister à ce processus, si on veut réaffirmer l’exigence de vérité comme un #bien_commun essentiel à toute société, alors, face à ces défis nouveaux, on doit faire évoluer son approche et ses pratiques. Beaucoup des techniques développées d’abord avec Forensic Architecture et maintenant avec INDEX cherchent à développer une culture de l’enquête et de la #vérification. Ce sont des moyens éprouvés pour mettre la mise en relation de cette masse critique de données pour faire émerger du sens, de manière inclusive et participative autant que possible.

    L’#architecture_forensique, même si elle est pluridisciplinaire, s’appuie sur des méthodes d’architecture. En quoi est-ce particulièrement pertinent aujourd’hui ?
    L’une des techniques qui est devenue la plus essentielle dans les enquêtes que l’on produit est l’utilisation d’un modèle 3D pour resituer des images et des vidéos d’un événement afin de les recouper entre elles. Aujourd’hui, il y a souvent une masse d’images disponibles d’un événement. Leur intérêt documentaire réside moins dans l’individualité d’une image que sur la trame de relations entre les différentes images. C’est la #spatialisation et la #modélisation en 3D de ces différentes prises de vue qui nous permet d’établir avec précision la trame des images qui résulte de cet événement. Nous utilisons les outils de l’architecture à des fins de reconstitution et de reconstruction plus que de projection, que ce soit d’un bâtiment, d’un événement, etc.

    Parce qu’il faut bien rappeler que vos enquêtes sont toujours basées sur les lieux.
    L’environnement urbain est le repère clé qui nous permet de resituer l’endroit où des images ont été prises. Des détails de l’environnement urbain aussi courants qu’un passage piéton, un banc public, un kiosque à journaux ou un abribus nous permettent de donner une échelle pour reconstituer en trois dimensions où et comment une certaine scène s’est déroulée. Nous ne considérons pas l’architecture comme la pratique responsable de la production de l’environnement bâti mais comme un champ de connaissance dont la particularité est de mettre en lien une variété de domaines de pensées et de savoirs entre eux. Lorsqu’on mobilise l’architecture à des fins d’enquête, on essaye de faire dialoguer entre elles toute une série de disciplines. Nos équipes mêmes sont très interdisciplinaires. On fait travailler des vidéastes, des ingénieurs des matériaux, des juristes… le tout pour faire émerger une trame narrative qui soit convaincante et qui permette de resituer ce qui s’est passé autour de l’évènement sous enquête.

    L’historienne Samia Henni qui enseigne à Cornell University aux États-Unis, et qui se considère « historienne des environnements bâtis, détruits et imaginés », dit qu’apprendre l’histoire des destructions est aussi important que celles des constructions, en raison notamment du nombre de situations de conflits et de guerres sur la planète. Quand on fait du projet d’architecture, on se projette en général dans l’avenir. En ce qui vous concerne, vous remodélisez et reconstituez des événements passés, souvent disparus. Qu’est-ce que ce rapport au temps inversé change en termes de représentations ?
    Je ne suis pas sûr que le rapport au temps soit inversé. Je pense que dans la pratique de l’enquête, c’est toujours l’avenir qui est en jeu. C’est justement en allant chercher dans des événements passés, en cherchant la manière précise dont ils se sont déroulés et la spécificité d’une reconstitution que l’on essaye de dégager les aspects structurels et systémiques qui ont provoqué cet incident. En ce sens, ça nous rapproche peut-être de l’idée d’#accident de Virilio, qui est tout sauf imprévisible.
    L’enjeu concerne l’avenir. Il s’agit de montrer comment certains incidents ont pu se dérouler afin d’interpeller, de demander des comptes aux responsables de ces incidents et de faire en sorte que les conditions de production de cette #violence soient remises en question pour qu’elle ne se reproduise pas. Il s’agit toujours de changer les conditions futures dans lesquelles nous serons amenés à vivre ensemble, à habiter, etc. En cela je ne pense pas que la flèche du temps soit inversée, j’ai l’impression que c’est très proche d’une pratique du projet architectural assez classique.

    Vous utilisez souvent le terme de « violences d’État ». Dans une tribune de Libération intitulée « Nommer la violence d’État » en 2020, encore d’actualité ces temps-ci, l’anthropologue, sociologue et médecin Didier Fassin revenait sur la rhétorique du gouvernement et son refus de nommer les violences policières. Selon lui, « ne pas nommer les violences policières participe précisément de la violence de l’État. » Il y aurait donc une double violence. Cette semaine, l’avocat Arié Alimi en parlait aussi dans les colonnes d’AOC. Qu’en pensez-vous ?
    Je partage tout à fait l’analyse de Didier Fassin sur le fait que les violences d’État s’opèrent sur deux plans. Il y a d’une part la violence des actes et ensuite la violence du #déni des actes. Cela fait le lien avec l’appareil conceptuel développé par Hannah Arendt dans Vérité et politique. Nier est nécessaire pour garantir une forme de pouvoir qui serait remise en question par des faits qui dérangent. Cela dit, il est important de constamment travailler les conditions qui permettent ou non de nommer et surtout de justifier l’emploi de ces termes.

    Vous utilisez le terme de « violences d’État » mais aussi de « violences policières » de votre côté…
    Avec INDEX, on emploie le terme de « violences d’État » parce qu’on pense qu’il existe une forme de continuum de violence qui s’opère entre violences policières et judiciaires, le déni officiel et l’#impunité de fait étant des conditions qui garantissent la reproduction des violences d’État. Donc même si ce terme a tendance à être perçu comme particulièrement subversif – dès qu’on le prononce, on tend à être étiqueté comme militant, voire anarchiste –, on ne remet pas forcément en question tout le système d’opération du pouvoir qu’on appelle l’État dès lors qu’on dénonce ses violences. On peut évoquer Montesquieu : « Le #pouvoir arrête le pouvoir ». Comment faire en sorte que l’État même s’équipe de mécanismes qui limitent les excès qui lui sont inhérents ? Il s’agit a minima d’interpeller l’#opinion_publique sur les pratiques de l’État qui dépassent le cadre légal ; mais aussi, on l’espère, d’alimenter la réflexion collective sur ce qui est acceptable au sein de nos sociétés, au-delà la question de la légalité.

    Ce que je voulais dire c’est que Forensic Architecture utilise le terme de « violences d’État » ou de « crimes » dans un sens plus large. Sur le site d’INDEX, on trouve le terme de « violences policières » qui donne une information sur le cadre précis de vos enquêtes.
    On essaye d’être le maillon d’une chaîne. Aujourd’hui, on se présente comme une ONG d’investigation qui enquête sur les violences policières en France. Il s’agit d’être très précis sur le cadre de notre travail, local, qui s’occupe d’un champ bien défini, dans un contexte particulier. Cela reflète notre démarche : on est une petite structure, avec peu de moyens. En se spécialisant, on peut faire la lumière sur une série d’incidents, malheureusement récurrents, mais en travaillant au cœur d’un réseau déjà constitué et actif en France qui se confronte depuis plusieurs décennies aux violences d’État et aux violences policières plus particulièrement. En se localisant et étant spécifique, INDEX permet un travail de collaboration et d’échanges beaucoup plus pérenne et durable avec toute une série d’acteurs et d’actrices d’un réseau mobilisé autour d’un problème aussi majeur que l’usage illégitime de la force et de la violence par l’État. Limiter le cadre de notre exercice est une façon d’éprouver la capacité de nos techniques d’enquête et d’intervention publique à véritablement amorcer un changement dans les faits.

    On a parfois l’impression que la production des observateurs étrangers est plus forte, depuis l’extérieur. Quand la presse ou les observateurs étrangers s’emparent du sujet, ils prennent tout de suite une autre ampleur. Qu’en pensez-vous ?
    C’est sûr que la possibilité de projeter une perspective internationale sur un incident est puissante – je pense par exemple à la couverture du désastre du #maintien_de_l’ordre lors de la finale de la Ligue des champions 2022 au Stade de France qui a causé plus d’embarras aux représentants du gouvernement que si le scandale s’était limité à la presse française –, mais en même temps je ne pense pas qu’il y ait véritablement un gain à long terme dans une stratégie qui viserait à créer un scandale à l’échelle internationale. Avec INDEX, avoir une action répétée, constituer une archive d’enquêtes où chacune se renforce et montre le caractère structurel et systématique de l’exercice d’une violence permet aussi de sortir du discours de l’#exception, de la #bavure, du #dérapage. Avec un travail au long cours, on peut montrer comment un #problème_structurel se déploie. Travailler sur un tel sujet localement pose des problèmes, on a des difficultés à se financer comme organisation. Il est toujours plus facile de trouver des financements quand on travaille sur des violations des droits humains ou des libertés fondamentales à l’étranger que lorsqu’on essaye de le faire sur place, « à la maison ». Cela dit, on espère que cette stratégie portera ses fruits à long terme.

    Vous avez travaillé avec plusieurs médias français : Le Monde, Libération, Disclose. Comment s’est passé ce travail en commun ?
    Notre pratique est déjà inter et pluridisciplinaire. Avec Forensic Architecture, on a souvent travaillé avec des journalistes, en tant que chercheurs on est habitués à documenter de façon très précise les éléments sur lesquels on enquête puis à les mettre en commun. Donc tout s’est bien passé. Le travail très spécifique qu’on apporte sur l’analyse des images, la modélisation, la spatialisation, permet parfois de fournir des conclusions et d’apporter des éléments que l’investigation plus classique ne permet pas.

    Ce ne sont pas des compétences dont ces médias disposent en interne ?
    Non mais cela ne m’étonnerait pas que ça se développe. On l’a vu avec le New York Times. Les premières collaborations avec Forensic Architecture autour de 2014 ont contribué à donner naissance à un département qui s’appelle Visual Investigations qui fait maintenant ce travail en interne de façon très riche et très convaincante. Ce sera peut-être aussi l’avenir des rédactions françaises.

    C’est le cas du Monde qui a maintenant une « cellule d’enquête vidéo ».
    Cela concerne peut-être une question plus générale : ce qui constitue la valeur de vérité aujourd’hui. Les institutions qui étaient traditionnellement les garantes de vérité publique sont largement remises en cause, elles n’ont plus le même poids, le même rôle déterminant qu’il y a cinquante ans. Les médias eux-mêmes cherchent de nouvelles façons de convaincre leurs lecteurs et lectrices de la précision, de la rigueur et de la dimension factuelle de l’information qu’ils publient. Aller chercher l’apport documentaire des images et en augmenter la capacité de preuve et de description à travers les techniques qu’on emploie s’inscrit très bien dans cette exigence renouvelée et dans ce nouveau standard de vérification des faits qui commence à s’imposer et à circuler. Pour que les lecteurs leur renouvellent leur confiance, les médias doivent aujourd’hui s’efforcer de convaincre qu’ils constituent une source d’informations fiables et surtout factuelles.

    J’aimerais que l’on parle du contexte très actuel de ces dernières semaines en France. Depuis le mouvement contre la réforme des retraites, que constatez-vous ?
    On est dans une situation où les violences policières sont d’un coup beaucoup plus visibles. C’est toujours un peu pareil : les violences policières reviennent au cœur de l’actualité politique et médiatique au moment où elles ont lieu dans des situations de maintien de l’ordre, dans des manifestations… En fait, quand elles ne touchent plus seulement des populations racisées et qu’elles ne se limitent plus aux quartiers populaires.

    C’est ce que disait Didier Fassin dans le texte dont nous parlions à l’instant…
    Voilà. On ne parle vraiment de violences policières que quand elles touchent un nombre important de personnes blanches. Pendant la séquence des Gilets jaunes, c’était la même dynamique. C’est à ce moment-là qu’une large proportion de la population française a découvert les violences policières et les armes dites « non létales », mais de fait mutilantes, qui sont pourtant quotidiennement utilisées dans les #quartiers_populaires depuis des décennies. Je pense qu’il y a un problème dans cette forme de mobilisation épisodique contre les violences policières parce qu’elle risque aussi, par manque de questionnements des privilèges qui la sous-tendent, de reproduire passivement des dimensions de ces mêmes violences. Je pense qu’au fond, on ne peut pas dissocier les violences policières de la question du racisme en France.
    Il me semble aussi qu’il faut savoir saisir la séquence présente où circulent énormément d’images très parlantes, évidentes, choquantes de violences policières disproportionnées, autour desquelles tout semblant de cadre légal a sauté, afin de justement souligner le continuum de cette violence, à rebours de son interprétation comme « flambée », comme exception liée au mouvement social en cours uniquement. Les enquêtes qu’on a publiées jusqu’ici ont pour la plupart porté sur des formes de violences policières banalisées dans les quartiers populaires : tirs sur des véhicules en mouvement, situations dites de « refus d’obtempérer », usages de LBD par la BAC dans une forme de répression du quotidien et pas d’un mouvement social en particulier. Les séquences que l’on vit actuellement doivent nous interpeller mais aussi nous permettre de faire le lien avec la dimension continue, structurelle et discriminatoire de la violence d’État. On ne peut pas d’un coup faire sauter la dimension discriminatoire des violences policières et des violences d’État au moment où ses modes opératoires, qui sont régulièrement testés et mis au point contre des populations racisées, s’abattent soudainement sur une population plus large.

    Vous parlez des #violences_systémiques qui existent, à une autre échelle…
    Oui. On l’a au départ vu avec les Gilets jaunes lorsque les groupes #BAC ont été mobilisés. Ces groupes sont entraînés quotidiennement à faire de la #répression dans les quartiers populaires. C’est là-bas qu’ils ont développé leurs savoirs et leurs pratiques particulières, très au contact, très agressives. C’est à cause de cet exercice quotidien et normalisé des violences dans les quartiers populaires que ces unités font parler d’elles quand elles sont déployées dans le maintien de l’ordre lors des manifestations. On le voit encore aujourd’hui lors de la mobilisation autour de la réforme des retraites, en particulier le soir. Ces situations évoluent quotidiennement donc je n’ai pas toutes les dernières données mais la mobilisation massive des effectifs de police – en plus de la #BRAV-M [Brigades de répression des actions violentes motorisées] on a ajouté les groupes BAC –, poursuivent dans la logique dite du « contact » qui fait souvent beaucoup de blessés avec les armes utilisées.

    Avez-vous été sollicités ces temps-ci pour des cas en particulier ?
    Il y aura tout un travail à faire à froid, à partir de la quantité d’images qui ont émergé de la répression et en particulier des manifestations spontanées. Aujourd’hui, les enjeux ne me semblent pas concerner la reconstitution précise d’un incident mais plutôt le traitement et la confrontation de ces pratiques dont la documentation montre le caractère systémique et hors du cadre légal de l’emploi de la force. Cela dit, on suit de près les blessures, dont certaines apparemment mutilantes, relatives à l’usage de certaines armes dites « non létales » et en particulier de #grenades qui auraient causé une mutilation ici, un éborgnement là… Les données précises émergent au compte-goutte…
    On a beaucoup entendu parler des #grenades_offensives pendant le mouvement des Gilets jaunes. Le ministère de l’Intérieur et le gouvernement ont beaucoup communiqué sur le fait que des leçons avaient été tirées depuis, que certaines des grenades le plus souvent responsables ou impliquées dans des cas de mutilation avaient été interdites et que l’arsenal avait changé. En fait, elles ont été remplacées par des grenades aux effets quasi-équivalents. Aujourd’hui, avec l’escalade du mouvement social et de contestation, les mêmes stratégies de maintien de l’ordre sont déployées : le recours massif à des armes de l’arsenal policier. Le modèle de grenade explosive ou de #désencerclement employé dans le maintien de l’ordre a changé entre 2018 et 2023 mais il semblerait que les #blessures et les #mutilations qui s’ensuivent perdurent.

    À la suite des événements de Sainte-Soline, beaucoup d’appels à témoins et à documents visuels ont circulé sur les réseaux sociaux. Il semblerait que ce soit de plus en plus fréquent.
    Il y a une prise de conscience collective d’un potentiel – si ce n’est d’un pouvoir – de l’image et de la documentation. Filmer et documenter est vraiment devenu un réflexe partagé dans des situations de tension. J’ai l’impression qu’on est devenus collectivement conscients de l’importance de pouvoir documenter au cas où quelque chose se passerait. Lors de la proposition de loi relative à la sécurité globale, on a observé qu’il y avait un véritable enjeu de pouvoir autour de ces images, de leur circulation et de leur interprétation. Le projet de loi visait à durcir l’encadrement pénal de la capture d’image de la police en action. Aujourd’hui, en voyant le niveau de violence déployée alors que les policiers sont sous les caméras, on peut vraiment se demander ce qu’il se passerait dans la rue, autour des manifestations et du mouvement social en cours si cette loi était passée, s’il était illégal de tourner des images de la police.
    En tant que praticiens de l’enquête en source ouverte, on essaye de s’articuler à ce mouvement spontané et collectif au sein de la société civile, d’utiliser les outils qu’on a dans la poche, à savoir notre smartphone, pour documenter de façon massive et pluri-perspective et voir ce qu’on peut en faire, ensemble. Notre champ de pratique n’existe que grâce à ce mouvement. La #capture_d’images et l’engagement des #témoins qui se mettent souvent en danger à travers la prise d’images est préalable. Notre travail s’inscrit dans une démarche qui cherche à en augmenter la capacité documentaire, descriptive et probatoire – jusqu’à la #preuve_judiciaire –, par rapport à la négociation d’une vérité de fait autour de ces évènements.

    Le mouvement « La Vérité pour Adama », créé par sa sœur suite à la mort d’Adama Traoré en 2016, a pris beaucoup d’ampleur au fil du temps, engageant beaucoup de monde sur l’affaire. Vous-mêmes y avez travaillé…
    La recherche de la justice dans cette appellation qui est devenue courante parmi les différents comités constitués autour de victimes est intéressante car elle met en tension les termes de vérité et de justice et qu’elle appelle, implicitement, à une autre forme de justice que celle de la #justice_institutionnelle.
    Notre enquête sur la mort d’Adama Traoré a été réalisée en partenariat avec Le Monde. À la base, c’était un travail journalistique. Il ne s’agit pas d’une commande du comité et nous n’avons pas été en lien. Ce n’est d’ailleurs jamais le cas au moment de l’enquête. Bien qu’en tant qu’organisation, INDEX soit solidaire du mouvement de contestation des abus du pouvoir policier, des violences d’État illégitimes, etc., on est bien conscients qu’afin de mobiliser efficacement notre savoir et notre expertise, il faut aussi entretenir une certaine distance avec les « parties » – au sens judiciaire –, qui sont les premières concernées dans ces affaires, afin que notre impartialité ne soit pas remise en cause. On se concentre sur la reconstitution des faits et pas à véhiculer un certain récit des faits.

    Le comité « La Vérité pour Adama » avait commencé à enquêter lui-même…
    Bien sûr. Et ce n’est pas le seul. Ce qui est très intéressant autour des #comités_Vérité_et_Justice qui émergent dans les quartiers populaires autour de victimes de violences policières, c’est qu’un véritable savoir se constitue. C’est un #savoir autonome, qu’on peut dans de nombreux cas considérer comme une expertise, et qui émerge en réponse au déni d’information des expertises et des enquêtes officielles. C’est parce que ces familles sont face à un mur qu’elles s’improvisent expertes, mais de manière très développée, en mettant en lien toute une série de personnes et de savoirs pour refuser le statu quo d’une enquête qui n’aboutit à rien et d’un non-lieu prononcé en justice. Pour nous, c’est une source d’inspiration. On vient prolonger cet effort initial fourni par les premiers et premières concernées, d’apporter, d’enquêter et d’expertiser eux-mêmes les données disponibles.

    Y a-t-il encore une différence entre images amateures et images professionnelles ? Tout le monde capte des images avec son téléphone et en même temps ce n’est pas parce que les journalistes portent un brassard estampillé « presse » qu’ils et elles ne sont pas non plus victimes de violences. Certain·es ont par exemple dit que le journaliste embarqué Rémy Buisine avait inventé un format journalistique en immersion, plus proche de son auditoire. Par rapport aux médias, est-ce que quelque chose a changé ?
    Je ne voudrais pas forcément l’isoler. Rémy Buisine a été particulièrement actif pendant le mouvement des Gilets jaunes mais il y avait aussi beaucoup d’autres journalistes en immersion. La condition technique et médiatique contemporaine permet ce genre de reportage embarqué qui s’inspire aussi du modèle des reporters sur les lignes de front. C’est intéressant de voir qu’à travers la militarisation du maintien de l’ordre, des modèles de journalisme embarqués dans un camp ou dans l’autre d’un conflit armé se reproduisent aujourd’hui.

    Avec la dimension du direct en plus…
    Au-delà de ce que ça change du point de vue de la forme du reportage, ce qui pose encore plus question concerne la porosité qui s’est établie entre les consommateurs et les producteurs d’images. On est dans une situation où les mêmes personnes qui reçoivent les flux de données et d’images sont celles qui sont actives dans leur production. Un flou s’opère dans les mécanismes de communication entre les pôles de production et de réception. Cela ouvre une perspective vers de formes nouvelles de circulation de l’information, de formes beaucoup plus inclusives et participatives. C’est déjà le cas. On est encore dans une phase un peu éparse dans laquelle une culture doit encore se construire sur la manière dont on peut interpréter collectivement des images produites collectivement.

    https://aoc.media/entretien/2023/08/11/francesco-sebregondi-on-ne-peut-pas-dissocier-les-violences-policieres-de-la-

    #racisme #violences_policières

    ping @karine4

    • INDEX

      INDEX est une ONG d’investigation indépendante, à but non-lucratif, créée en France en 2020.

      Nous enquêtons et produisons des rapports d’expertise sur des faits allégués de violence, de violations des libertés fondamentales ou des droits humains.

      Nos enquêtes réunissent un réseau indépendant de journalistes, de chercheur·es, de vidéastes, d’ingénieur·es, d’architectes, ou de juristes.

      Nos domaines d’expertise comprennent l’investigation en sources ouvertes, l’analyse audiovisuelle et la reconstitution numérique en 3D.

      https://www.index.ngo

  • Questo fine settimana sulle Alpi la polizia ha ammazzato una persona, ma per la stampa l’unica vittima è un campo da golf.

    De #Lorenzo_D'Agostino

    🧵20 tweet per ristabilire la realtà dei fatti.

    Venerdì scorso sono andato a Claviere, l’ultimo paese italiano della Val di Susa sul confine francese, per partecipare al campeggio itinerante «Passamontagna». Mi avevano invitato a raccontare le mie inchieste sull’antimafia in una serie di dibattiti sulle politiche di frontiera.

    In questi giorni centinaia di persone stanno attraversando il passo di frontiera del Monginevro, spesso di notte per sentieri pericolosi. L’idea del campeggio era attraversare il confine con una grande marcia tutti insieme, in sicurezza, persone migranti e solidali.

    Sabato dopo pranzo, smantellato l’accampamento, ci siamo messi in marcia. Lentamente senza lasciare nessuno indietro. Nel gruppo c’erano persone stremate da un lungo viaggio, donne con bambini piccoli, qualche anziano. L’atmosfera era allegra. Ma appena passata la frontiera...

    ...ci siamo trovati davanti uno schieramento di gendarmi francesi in antisommossa. Occupando le alture, ci hanno bloccati su un viottolo molto scosceso. Un gesto violento, un lancio di gas, avrebbe provocato una caotica e pericolosissima fuga all’indietro del gruppo.

    Io che non ho esperienza di queste cose pensavo che il blocco si potesse forzare: eravamo dieci volte più numerosi. A 1800 metri d’altezza, lontani da ambulanze e ospedali, la gendarmerie era veramente disposta a rischiare decine di feriti, forse ammazzare qualcuno?
    Chi ha a che fare ogni giorno con la polizia francese però non ha avuto dubbi: con tante persone vulnerabili e inesperte nel gruppo, bisognava evitare lo scontro a ogni costo. I gendarmi hanno annunciato l’uso imminente della forza, e il gruppo si è dato lentamente indietro.
    Rientrando al campo base, abbiamo costeggiato un campo da golf. Un enorme spazio privatizzato a cavallo della frontiera, dove i turisti ricchi si muovono liberamente tra Italia e Francia. Il contrasto con il trattamento riservato a migranti e solidali era lacerante.

    Un piccolo gruppo si è staccato dal corteo, ha divelto le recinzioni e ha danneggiato il campo da golf. Non tutti hanno ritenuto opportuna quest’azione, ma la rabbia che esprimeva è la rabbia che sentivamo tutti.

    Rientrati a Claviere, si è ragionato sul da farsi. L’idea di agevolare il passaggio di frontiera delle persone in transito con una grande marcia è stata archiviata: era chiaro che la gendarmerie non avrebbe lasciato passare nessuno, finché durava il Passamontagna.
    I migranti avrebbero passato la frontiera come hanno sempre fatto: di notte, a piccoli gruppi, per i sentieri più impervi, nascondendosi da droni e visori termici della polizia. Il campeggio forniva, almeno, una base sicura dove dormire e a cui tornare in caso di respingimento.
    Quella sera ragionavo con una compagna: se a qualcuno succedesse qualcosa di brutto passando la frontiera, di chi sarebbe la colpa? A mio avviso, certamente della polizia: bloccando la possibilità di un attraversamento in sicurezza, si è assunta ogni eventuale conseguenza.
    Non è una discussione oziosa: l’ordinamento giuridico contempla la figura del «dolo eventuale». In Italia si usa per accusare di omicidio scafisti veri o inventati. Si dà quando chi agisce accetta il rischio che le proprie azioni causino un evento nefasto non direttamente voluto. Cassazione penale, sez. I, sentenza 15/03/2011 n ° 10411: "Il fondamento del dolo indiretto o eventuale va individuato nella rappresentazione e nell’accettazione, da parte dell’agente, della concreta possibilità, intesa in termini di elevata probabilità, di realizzazione dell’evento accessorio allo scopo perseguito in via primaria. Il soggetto pone in essere un’azione accettando il rischio del verificarsi dell’evento, che nella rappresentazione psichica non è direttamente voluto, ma appare probabile. In altri termini, l’agente, pur non avendo avuto di mira quel determinato accadimento,...

    Malgrado la delusione e la rabbia, il sabato sera è trascorso in festa. Stornelli anarchici intorno al fuoco, e un dj-set di musica africana organizzato dalle persone in transito. Io ho dormito in un tendone con una ventina di persone che si preparavano a passare il confine.

    Domenica, smantellato di nuovo il campeggio, ognuno ha preso la sua strada. Alcuni hanno deciso di sfilare in corteo verso la Francia, per creare qualche piccolo, momentaneo disagio alla circolazione su una frontiera che lascia passare i ricchi e ammazza i poveri. Li ho seguiti.
    La reazione della gendarmerie è stata immediata: dalle alture, alla cieca, una fitta pioggia di gas lacrimogeni è stata sparata sul corteo pacifico e disarmato. Io, del tutto impreparato a uno scenario del genere, sono scappato via. Per me il Passamontagna è finito così.
    Lunedì mattina, al passo del Monginevro, un ciclista ha trovato il corpo esanime di un giovane guineano. Sopravvissuto al Sahara, al Mediterraneo, ucciso tra Italia e Francia. Voglio pensare che le sue ultime ore siano state di festa, circondato dai volti amici del Passamontagna.

    Allo stesso tempo sono partite le veline ai giornali per travisare la realtà. I dibattiti e le conferenze a cui ho partecipato non ci sono stati, assicura la sindaca di Claviere. La grande marcia del sabato, bloccata dalla gendarmerie, mai esistita. L’attacco al campo da golf...

    L’attacco al campo da golf collocato falsamente nella notte tra venerdì e sabato: non più una risposta alla violenza della polizia, ma un atto di vandalismo immotivato. Il lancio di gas della domenica? Inevitabile risposta al lancio di inesistenti «bombe carta» degli anarchici...

    E alla fine l’unica vittima è la turista Raffaella. Che ha sotto il naso un’implacabile strage di stato, ma vede soltanto «una tendopoli abusiva» e 400 scalmanati che «pietre alla mano, in virtù di non so bene quale ideale protestano contro non so quale ingiustizia»

    https://twitter.com/lorenzodago/status/1689600891605716993
    https://threadreaderapp.com/thread/1689600891605716993.html

    #victime #golf #tourisme #passamontagna #manifestation #Hautes-Alpes #Val_de_suse #Italie #frontières #migrations #France #inégalités

    • Sur le campement à travers la frontière « passamontagna » du début août ; un autre mort à la frontière

      La pratique du Passamontagna n’a pas fonctionné. Après des années, plusieurs camps et de nombreuses manifestations qui nous ont amenés à passer la frontière ensemble, sans que personne -le temps d’une journée - ne risque sa vie pour franchir cette ligne imaginaire qu’est la frontière, cette fois-ci, le #passage_collectif a échoué.

      versione italiana in seguito

      english version below

      Samedi 5 août plus de 500 personnes ont quitté le campement installé à Claviere pour rejoindre la prochaine étape, en France. La gendarmerie en tenue anti-émeute, déployée sur tous les chemins, a bloqué notre passage. Des #gaz_lacrymogènes et des #grenades_assourdissantes étaient déjà positionnés en amont du #cortège. Près de trente camions et voitures anti-émeutes du côté français, plus ceux positionnés du côté italien. Il a été décidé de ne pas aller jusqu’à l’affrontement qui aurait été nécessaire pour tenter de passer, afin d’éviter un très probable massacre. La police française a changé ses pratiques au fil des ans, augmentant de temps en temps son niveau de #violence et l’utilisation d’#armes. On s’est pas voulu - dans cette situation - risquer des blessures graves.
      Comme tous les jours, ce week-end a vu passer des centaines de personnes en route pour la France. Le camp a été un bon moment pour partager des réflexions, des discussions, des danses et des bavardages. Bien que le passage collectif ait échoué, les personnes exilées de passage sont néanmoins reparties, comme chaque jour sur cette frontière maudite. Plus de 100 personnes sont arrivées à Briançon dans le week-end.

      Une trentaine de refoulements.

      La rage conséquent au refoulement de masse a provoqué quelques réactions.
      Samedi aprés-midi, un cortège s’est mis en route en direction de la frontière, surprenant certains officiers italiens qui ont dû courir, et bloquant la frontière pendant plus d’une heure.
      Le lendemain, dimanche, un autre cortège s’est formé sur la route de #Claviere à #Montgenèvre, pour tenter d’atteindre la PAF, le quartier général des gardes-frontières. Un important dispositif de gendarmes, avec des camionettes et un canon à eau, a barré la route. Les gardes mobiles ont tiré de nombreux gaz lacrymogènes et quelques grenades assourdissantes et #flashballs. Sur les chemins d’en haut, les gendarmes qui tentaient de se rapprocher ont été tenus à distance pendant un bon moment.
      Pendant plus de deux heures, la frontière est restée fermée. Si personne ne passe, personne ne passe. Les marchandises et les touristes ne passent pas non plus, de sorte que ce point de passage de frontière devient inopérent.

      Si, ces jours-ci, quelqu’un - soit-disant - a "osé" gâcher le #terrain_de_golf en écrivant ou en binant, cela ne nous semble pas être une tragédie, bien au contraire. La privatisation de cette montagne dans l’intérêt de quelques riches et de touristes fortunés conduit également à sa militarisation. Protéger cet imaginaire, le paysage des villages de montagne où l’on peut jouer au golf en toute tranquillité sur le "golf transfrontalier 18 trous" appartenant à #Lavazza et à la commune de Montgenèvre et skier sur les pistes "sans frontières". Ou encore se balader à vélo électrique sur les mêmes sentiers que ceux empruntés par des dizaines d’exilés chaque jour, mais plus souvent la nuit, justement parce qu’ils ne sont pas visibles. Une destination pour touristes fortunés ne peut pas être une zone de transit pour migrants, ça gache trop le décor. Ils construisent également deux "#réservoirs_d’eau", en volant l’eau de l’environnement, pour être sûrs de pouvoir tirer de la neige en hiver sur ces pistes. Privatisation, exploitation et militarisation des montagnes vont de pair.

      Le camp de Passamontagna a également été un moment de rencontre, de discussion et de réflexion sur le monde qui nous entoure et sur les mécanismes d’exploitation et d’exclusion. Des réunions ont été organisées pour parler de l’extractivisme néocolonial qui pousse les gens à migrer, à quitter des territoires massacrés au nom du profit. De l’externalisation des frontières et de la création d’ennemis intérieurs. Des nouveaux mécanismes de répression étatiques et européens à l’égard des exilées et des autres. De luttes contre les CPR/CRA (centres de rétention administrative).
      Parce que dans une société qui nous veut de plus en plus individualistes et séparés, nous devons de plus en plus nous connaître, nous reconnaître, nous confronter, nous unir pour combattre un système de plus en plus totalisant et totalitaire.

      A Briançon, ville de première destination pour tous celleux qui franchissent cette frontière, le centre d’hébergement solidaire Les Terrasse est surchargé. Les arrivées sont trop nombreuses et les places toujours insuffisantes. C’est aussi pour cela qu’un nouveau lieu a été ouvert et rendu public lundi. Une occupation qui se veut aussi un lieu d’accueil et de rencontre pour ceux qui luttent contre cette frontière, chacun à sa manière. Il y a besoin de soutien et de matériel !

      L’adresse est 34A Avenue de la République, hôpital les jeunes pousses SSR, Briançon.

      Un chaleureux merci à toutes les cuisines solidaires qui ont nourris des centaines des personnes pendant ces trois jours et à toutes les personnes qui y ont participé et rendu possible le camp.

      -- -

      Mais le lendemain on a appris une terrible nouvelle. Le lundi 7 aout, un jeune exilé a été retrouvé mort sur la route militaire reliant Montgenèvre à Briançon. Son nom était Moussa. Il était guinéen. Face contre terre, trouvé par un touriste à vélo. On n’en sait toujours pas plus.
      Un autre mort. Une victime de plus de cette frontière qui est de plus en plus marquée par la présence de la police aux frontières (PAF), déployée sur les chemins jour et nuit.
      Le onzième, le douzième, le vingtième, qui sait. Les chiffres ne sont pas clairs car tous les décès ne sont pas rendus publics. Officiellement, dix corps ont été retrouvés depuis 2018.
      Comme pour les autres décès, c’est clair qui sont les responsables. Il ne s’agit pas d’une mort aléatoire. Ce n’est pas de la malchance. Ce n’est pas un touriste qui meurt. C’est un "migrant" de plus, jeté des bus et des trains à la frontière, obligé de marcher la nuit pour échapper aux contrôles, pourchassé par les flics parce qu’il est catégorisé comme migrant et sans papiers, généralement parce que pauvre. Sur ces chemins, la PAF mène une chasse constante et raciste à tous ceux qui ne sont pas blancs et ne ressemblent pas à des touristes prêts à dépenser leur argent sur des terrains de golf ou des pistes de ski transformées en terrain de jeu pour vélos électriques en été.
      Et c’est à vélo, à pied ou en voiture que la PAF rôde sur les pistes à la recherche de ceux qui n’ont pas les bons papiers pour les traverser. Une nouvelle force militaire vient d’arriver à Montgenèvre avec pour objectif de limiter encore plus les entrées indésirables. Il y a des centaines de flics qui protègent cette frontière. Mais le flux de personnes ne s’arrête pas, car aucun filet, mur ou garde ne pourra jamais bloquer complètement le désir de liberté et la recherche d’une vie meilleure.
      Mais la paix est difficile à trouver aujourd’hui.
      Peut-être que si nous avions pu marcher ensemble, cela ne serait pas arrivé. Peut-être que si le Passamontagna avait fonctionné, ce garçon ne serait pas mort.
      Tous les flics présents sur ces chemins samedi et dimanche ont du sang sur les mains. Tout comme le préfet de Gap, qui avait rendu illégales toutes les manifestations et tous les campements pendant le week-end, et qui a donné l’ordre d’entraver le passage de toutes les manières possibles, a du sang sur les mains.

      Chaque policier est une frontière. Le bras armé d’un Etat qui continue à diviser, sélectionner et tuer au gré de ses intérêts politiques et économiques.
      Que les responsables paient cher, ici, à Montgenèvre, à Briançon, partout en France.

      Un pensée vient obscurcir notre esprit. Nous avons du mal à perdre de vue que le corps a été retrouvé sur la route militaire, qui peut être empruntée à pied mais aussi avec une voiture 4x4, que les gardes utilisent pour effectuer leurs patrouilles. Il est difficile de mourir par accident sur cette route, d’autant plus en été.
      Trop de personnes sont déjà mortes à la frontière, en fuyant la police. Rappelons Blessing Matthew, une jeune Nigériane de 20 ans, morte en 2018 dans la Durance en tentant d’échapper aux gendarmes qui la poursuivaient. Ou encore Fahtallah, retrouvé mort dans le barrage près de Modane, où il s’était aventuré après avoir été refoulé. Ou Aullar, 14 ans, mort écrasé par le train qu’il n’avait pu prendre à Salbertrand, en direction de la frontière. Ou encore tous ceux qui sont morts de froid ou sont tombés après avoir été refoulés à la frontière et s’être aventurés sur les sentiers les plus élevés.
      La militarisation de ces montagnes tue.

      La PAF, les gendarmes, l’Etat français, l’Europe. Ici les responsables de cette mort.

      La frontière est partout, dans chaque frontière à l’intérieur et à l’extérieur de l’Europe, là où elle est peut-être la plus reconnaissable, mais elle est aussi dans chaque rue, place ou gare où la police contrôle les papiers, elle est dans les centres de rétention administrative (CRA), elle est dans chaque bureau Frontex disséminé en Europe, elle est dans chaque usine d’armement ou dispositif de surveillance qui est produit en Europe et remis à la police des frontières.
      D’où une invitation à agir chacun à sa manière, chacun à sa place, contre les frontières.

      CONTRE TOUTES LES FRONTIÈRES, LES ÉTATS QUI LES CRÉENT ET LES UNIFORMES QUI LES PROTÈGENT.
      Quelques participants au camping Passamontagna
      Considerazioni sul campeggio passamontagna 2023. Un altro morto di frontiera.

      La pratica del Passamontagna non ha funzionato. Dopo anni, vari campeggi e numerose manifestazioni che ci hanno portato ad attraversare il confine assieme, senza che nessunx - per un giorno - rischiasse la vita per superare questa linea immaginaria chiamata frontiera, questa volta il passaggio collettivo é fallito.

      Sabato più di 500 persone sono partite dall’accampamento allestito a Claviere per arrivare alla prossima tappa, in Francia. I gendarmi in antisommossa, schierata su tutti i sentieri, hanno bloccato il passaggio. Lacrimogeni e bombe stordenti alla mano, posizionati già a monte rispetto al corteo. Quasi una trentina tra camionette e macchine sul lato francese, più quelle posizionate sul lato italiano. E’ stato scelto di non arrivare allo scontro che sarebbe stato necessario per tentare di passare, per evitare un probabile massacro. La polizia francese ha cambiato pratica in questi anni, aumentando di volta in volta il suo livello di violenza e uso delle armi. Non si è voluto - in quella situazione - rischiare feriti gravi.

      Come ogni giorno, anche in questo week end erano centinaia le persone di passaggio dirette in Francia. Il campeggio é stato un bel momento per condividere riflessioni, discussioni, balli e racconti. Nonostante il passaggio collettivo sia fallito, le persone di passaggio si sono comunque messe in cammino successivamente, come avviene ogni giorno su questa maledetta frontiera. Più di 100 persone sono arrivate a Briaçon nel weekend. Una trentina i push-back.

      La rabbia conseguente al respingimento di massa ha provocato alcune reazioni. Sabato pomeriggio un piccolo corteo é partito in direzione della strada sul confine, cogliendo di sorpresa qualche agente che si é ritrovato a dover correre, e bloccando la frontiera per più di un’ora.
      Domenica un altro corteo é stato fatto sulla strada che da Claviere porta a Monginevro, nel tentativo di arrivare alla caserma della PAF, la sede delle guardie che proteggono il confine. Un dispositivo importante di gendarmi, con camionette e un idrante sbarravano la strada. Le guardie hanno sparato lacrimogeni e qualche bomba stordente e priettili di gomma. Sui sentieri sopra la strada sono stati tenuti a distanza i gendarmi che cercavano di avvicinarsi.
      Per più di due ore la frontiera é rimasta chiusa.
      Se non passano tutti, non passa nessuno. Nemmeno le merci e i turisti, per cui questa frontiera di solito non esiste.

      Se in queste giornate qulcunx - dicono - ha "osato" rovinare i campi da golf con qualche scritta o zappata, non ci sembra una tragedia. La privatizzazione di questa montagna per gli interessi di pochi ricchi e dei turisti benestanti é anche ciò che porta alla sua militarizzazione. È anche per proteggere quest’immaginario, lo scenario dei paesini di montagna dove giocare a golf in tranquillità sulle "18 buche transfontaliere" di proprietà Lavazza e del Comune di Monginevro e sciare sulle piste "senza confine”, che vengono militarizzati i sentieri di queste montagne. Una meta per il turismo ricco non può essere zona di passaggio per migranti. A Monginevro stanno anche costruendo due "bacini idrici", che sottrarranno acqua all’ambiente circostante, per assicurare di avere neve artificiale nei caldi inverni a venire.
      Privatizzazione, sfruttamento e militarizzazione della montagna sono parte dello stesso meccanismo.

      Il campeggio Passamontagna è stato anche un momento di incontro, discussione, ragionamento sul mondo che ci circonda e sui dispositivi di sfuttamento ed esclusione. Ci sono stati incontri dedicati all’estrattivismo neocoloniale che spinge le persone a migrare, ad andarsene da territori massacrati in nome del profitto. Si è discusso di esternalizzazione delle frontiere e della creazione dei nemici interni. Di scafismo e DIA . Dei nuovi meccanismi legilsativi di guerra verso i/le migranti e solidali. Di lotte ai CPR/CRA.
      In una società che ci vuole sempre più individualisti e separati, dobbiamo incontrarci, conoscerci, riconoscerci, confrontarci e unirci per lottare un sistema sempre più totalitario.

      A Briançon, prima città di arrivo per tuttx coloro che attraversano questo confine, il rifugio solidale Les Terrasse é sovraccarico. Troppe le persone che arrivano, e i posti sono insufficienti. Anche per questo un nuovo spazio é stato aperto e reso pubblico lunedì 7 agosto. Un’occupazione che vuole essere anche un luogo di ospitalità e di incontro per chi questa frontiera la combatte, ognuno a suo modo. C’é bisogno di sostegno e materiali !
      L’indirizzo é 34A Avenue de la République, hopital les jeunes pousses SSR, Briançon.

      Un ringraziamento enorme và a tutte le cucine solidali che hanno nutrito centinaia di persone in questi tre giorni e tutte le persone che hanno partecipato e reso possibile il campeggio.

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      Ma nei giorni successivi viene data una notizia terribile. Lunedì 7 agosto, un giovane "migrante" é stato trovato morto sulla strada militare che da Monginevro arriva a Birançon. Faccia a terra, ritrovato da un turista in bicicletta. Il suo nome era Moussa. Arrivava dalla Guinea.
      Per il momento non si sà molto di più.
      Un’altra morte. Un’altra vittima di questo confine che prende le sembianze dalla polizia di frontiera (PAF) schierata sui sentieri giorno e notte.
      La undicesima, dodicesima, ventesima, chissà. I numeri non sono chiari perché non tutte le morti vengono rese pubbliche. Ufficialmente, dal 2018 ad oggi, son stati ritrovati dieci cadaveri. E non é una morte casuale. Non é la sfortuna.
      A morire è l’ennesimo "migrante", buttato giù dai bus e treni in frontiera, obbligato a camminare di notte per fuggire in controlli, inseguito dalle guardie per il suo essere senza documenti, tendenzialmente perché povero. Come per le altre morti, i responsabili sono chiari. Su questi sentieri la PAF effettua una caccia costante, razzista, verso chi non é bianco e non sembra un turista pronto a spendere i suoi soldi sui campi da golf o sulle piste da sci che diventano parco giochi per bici elettriche d’estate.
      Ed é in bicicletta, a piedi, su quad o in macchina che si apposta la PAF sui sentieri alla ricerca di chi non ha il buon pezzo di carta per attraversarli. Dotata di droni, sensori e visori notturni, una nuova forza militare é arrivata recentemente a Monginevro con lo scopo di limitare ancora di più gli ingressi indesiderati. Centinaia di guardie proteggono questo confine. Ma il flusso di persone non si ferma, perché nessuna rete, muro o guardia riuscirà mai a bloccare il desiderio di libertà e la ricerca di una vita migliore.
      Ma é difficile oggi trovare pace.
      Forse, se il Passamontagna avesse funzionato, quel ragazzo non sarebbe morto.
      Ogni sbirro presente su quei sentieri sabato e domenica ha le mani sporche di sangue. Così come ha le mani sporche di sangue il Prefetto di Gap, che ha reso illegale ogni manifestazione e campeggio nel week end, e che ha dato ordine di impedire con ogni mezzo necessario il passaggio.
      Ogni sbirro é una frontiera. Braccio armato di uno stato che divide, seleziona e uccide a seconda dei propri interessi politici ed economici.
      Che la paghino cara i responsabili, qui, a Monginevro, a Briançon, ovunque.

      Un pensiero ci offusca la mente. Ci rimane difficile non pensare al fatto che il corpo é stato trovato sulla strada militare, percorribile a piedi e anche con una macchina 4x4, che infatti usano le guardie per effettuare i loro pattugliamenti. Difficile morire per caso su quella strada.
      Già troppi i morti in frontiera, in fuga dalla polizia. Ricordiamo Blessing Matthew, giovane ventenne nigeriana morta nel 2018 nel fiume Durance mentre cercava di scappare dai gendarmi che la inseguivano. O Fahtallah, trovato morto nella diga vicino a Modane, dove si era avventurato dopo essere stato respinto. O il 14enne Aullar, morto stritolato dal treno che non poteva prendere a Salbertrand, diretto al confine. O tutti gli altri morti di freddo o caduti dopo esere stati respinti alla frontiera ed essersi inespicati sui sentieri più alti.
      La militarizzazione di quste montagne uccide.
      La PAF, i gendarmi, lo stato francese, l’europa. Qui i responsabili di questa morte.

      La frontiera è ovunque, in ogni confine interno ed esterno all’europa, dove forse è più riconoscibile, ma è anche in ogni strada, piazza o stazione dove la polizia controlla i documenti, è nei centri di detenzione per il rimpatrio, è in ogni ufficio di Frontex sparso sul territorio europeo, è in ogni fabbrica di armi o di dispositivi di sorveglianza che prodotti in europa vengono regalati alle polizie di confine.
      Da qua un invito, di agire ognunx a suo modo, ognunx nel proprio luogo, contro le frontiere.

      CONTRO OGNI FRONTIERA, GLI STATI CHE LE CREANO, E LE DIVISE CHE LE PROTEGGONO
      Alcunx partecipanti al campeggio Passamontagna
      Considerations on the camping against the borders passamontagna. Another border death.

      The Passamontagna’s practice did not work. After years, various camps and numerous demonstrations that led us to cross the border together, without anyone - for one day - risking their life to cross this imaginary line called border, this time the collective crossing failed.

      On Saturday 5th, in fact, more than 500 people left the campsite set up in Claviere to reach the next stop, in France. The gendarmerie in riot gear, deployed on all the paths, blocked our passage. Tear gas and stun grenades were already positioned upstream from the procession. Almost thirty trucks and riot cars on the French side, plus those positioned on the Italian side. It was decided not to go to the clash that would have been necessary to try to pass, to avoid a very likely massacre. The French police have changed their practice over the years, increasing their level of violence and use of weapons from time to time. We did not want - in that situation - to risk serious injuries.
      Like every day, this weekend there were hundreds of people passing through on their way to France. The camp was a good time to share reflections, discussions, dancing and chatting. The people passing through nevertheless left, as happens every day on this cursed border. More than 100 people arrived in Briançon this weekend. Around thirty push-backs.

      The anger at not being able to cross the border to continue camping in France provoked some reactions.
      On the same day, Saturday, a march started in the direction of the road, catching some Italian officers by surprise as they had to run, and blocking the border for more than an hour.
      The next day, Sunday, another march took place on the road from Claviere to Montgenèvre, in an attempt to reach the PAF, the headquarters of the guards protecting the border. An important device of gendarmes, with small trucks and a water cannon barred the road. The guards fired many tear gas and some stun grenades and flashballs. On the paths above, the guards that tried to get closer went keeped far.
      For more than two hours the border remained closed. If no one passes, no one passes. Neither do goods or tourists, so in practice this border does not exist.
      If these days someone - they say - has ’dared’ to spoil the golf course with some writing or hoeing, it does not seem like a tragedy, quite the contrary. The privatisation of this mountain for the interests of the rich few and wealthy tourists is what also leads to its militarisation. To protect this inmaginary, the scenery of the mountain villages where one can play golf in peace on the ’18-hole cross-border golf course’ owned by Lavazza and the Montgenèvre municipality and ski on the ’borderless’ slopes. Or whizzing on electric bicycles on the same trails travelled by dozens of migrants every day but more often at night, precisely because they cannot be seen. A destination for wealthy tourists cannot be a transit area for migrants. They are also building two ’water reservoirs’, stealing water from the surrounding environment, to make sure they can shoot snow in winter on these trails. Privatisation, exploitation and militarisation of the mountains go together.

      The Passamontagna camp was also a time for meeting, discussion, and reasoning about the world around us and the devices of exploitation and exclusion. There were meetings that spoke of neo-colonial extractivism that pushes people to migrate, forced to leave territories massacred in the name of money. Of externalisation of borders and the creation of internal enemies. Of scafism and DIA (anti-mafia investigative directorate). Of new state and European repression mechanisms towards migrants and others. Of confrontation in the CPR/CRA struggles.
      Because in a society that wants us to be increasingly individualistic and separate, we must increasingly know each other, recognise each other, confront each other, unite to fight an increasingly totalising and totalitarian system.

      In Briançon, town of initial destination for all those who cross this border, the solidarity shelter Les Terrasse is overloaded. Too many people arrive, and places are always running out. This is also why a new place was opened and made public on Monday. An occupation that also wants to be a place of hospitality and a meeting place for those who fight this border, each in their own way. Support and materials are needed !
      The address is 34A Avenue de la République, hopital les jeunes pousses SSR, Briançon.

      A huge thank you goes to all the solidarity kitchens that fed hundreds of people over these three days and all the people who participated and made the camp possible.

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      But we learn a terrible news in the next days. Monday 7 agust, a young migrant was found dead on the military road from Montgenèvre to Briançon. Face down on the ground, found by a tourist on a bicycle. We still don’t know anything more.
      Another death. Another victim of this border that takes the shape of the border police (PAF) deployed on the paths day and night.
      The 11th, 12th, 20th, who knows. The numbers are unclear because not all deaths are made public. Officially, ten bodies have been found since 2018.
      As with the other deaths, it’s clear who is responsible. It is not a random death. It is not bad luck. It is not a tourist who dies. It is yet another "migrant", thrown off buses and trains at the border, forced to walk at night to escape through controls, chased by guards for being a migrant and undocumented, tending to be poor. On these paths the PAF carries out a constant, racist hunt towards anyone who is not white and does not look like a tourist ready to spend his money on golf courses or ski slopes turned into playground for electric bikes in summer.
      And it is by bicycle, on foot or by car that the PAF lurks on the trails looking for those who do not have the good papers to cross them. A new military force has recently arrived in Montgenèvre with the aim of limiting unwanted entry even further. Hundreds guards protect this border. But the flow of people does not stop, because no net, wall or guard will ever be able to completely block the desire for freedom and the search for a better life.
      But peace is difficult to find today.
      Perhaps if we had been able to walk together this would not have happened. Perhaps if the Passamontagna had worked that boy would not have died.
      Every cop on those paths on Saturday and Sunday has blood on his hands.
      So too has blood on his hands the Prefect of Gap, who made all demonstrations and camping illegal over the weekend, and who gave orders to prevent the passage in every way.
      Every cop is a border. The armed arm of a state that continues to divide, select and kill according to its political and economic interests.
      Let those responsible pay dearly, here, at Montgenèvre, at Briançon, everywhere in France.

      Another thought clouds our minds. We find it hard not to think about the fact that the body was found on the military road, which can be travelled on foot and also with a 4x4 car, which the guards use to carry out their patrols. It is difficult to die by accident on that road.
      Already too many have died on the border running the police. Recall Blessing Matthew, a young 20-year-old Nigerian woman who died in 2018 in the Durance River while trying to escape from the gendarmes who were chasing her. Or Fahtallah, found dead in the dam near Modane, where he had ventured after being turned back. Or 14-year-old Aullar, who died crushed by the train he could not catch in Salbertrand, bound for the border. Or all the others who froze to death or fell after being turned back at the border and venturing onto the highest paths.

      Militarisation kills on these montains.
      The PAF, the gendarmes, the French state, Europe. Here the responsible for this death.

      The border is everywhere, in every border inside and outside Europe, where perhaps it is most recognisable, but it is also in every street, square or station where the police check documents, it is in the detention centres for repatriation, it is in every Frontex office scattered across Europe, it is in every arms factory or surveillance device that is produced in Europe and given to the border police.
      Hence an invitation, to act each in his own way, each in his own place, against borders.

      AGAINST ALL BORDERS, THE STATES THAT CREATE THEM AND THE UNIFORMS THAT PROTECT THEM
      Some participants of the Passamontagna camp

      https://valleesenlutte.org/spip.php?article606

  • Marchons pour un monde sans arme nucléaire
    https://www.obsarm.info/spip.php?article565

    Le samedi 23 septembre, ICAN #France, le Mouvement pour une Alternative Non-violente, le Mouvement de la Paix et l’Observatoire des armements vous donnent rendez vous à Dijon, Lyon, Paris et dans de nombreuses autres villes, pour une grande mobilisation citoyenne et joyeuse. Soyons nombreus.e.s pour cette Marche contre les #Armes_nucléaires, pour affirmer que nous voulons que la France rejoigne le Traité sur l’interdiction des armes nucléaires (TIAN) ; nous refusons la Loi de programmation (...) #Événements

    / #Prolifération_nucléaire, France, Armes nucléaires, #Industrie_nucléaire, Implantation / Bases de (...)

    #Implantation_/_Bases_de_défense
    https://www.obsarm.info/IMG/pdf/marchons_pour_un_monde_sans_arme_nucleaire_lyon_23sept2023_r_v.pdf
    https://www.obsarm.info/IMG/pdf/marchons_pour_un_monde_sans_arme_nucleaire_lyon_23sept2023_affiche.pdf

  • Mort de #Nahel  : IL EST URGENT DE MENER UNE VÉRITABLE #RÉFORME DU #MAINTIEN_DE_L’ORDRE

    Nahel est mort. Il a été tué à bout portant par un policier. Il avait 17 ans. Nous publions une analyse du contexte dans lequel sa mort s’inscrit. Nous appelons à la justice, mais aussi à une révision des règles d’utilisation des armes à feu par la police et à la fin du racisme systémique dans l’application des lois.

    Mardi 27 juin 2023, à 8h 15. Un policier tue par balle Nahel, un mineur de 17 ans, lors d’un contrôle routier à Nanterre, en banlieue parisienne. Dans la voiture se trouvent deux autres garçons âgés de 17 et 14 ans. Deux jours plus tard, le policier auteur du tir mortel est mis en examen pour «  homicide volontaire par une personne dépositaire de l’autorité publique  ». Maintenu en détention provisoire, il fait actuellement l’objet d’une enquête officielle de l’Inspection générale de la police (IGPN).

    D’après la vidéo rendue publique et que nous avons analysée, le tir semble constituer un recours illégal à la force meurtrière.

    Depuis ce nouveau drame, des mobilisations nationales sont organisées partout en France. La colère de la population doit être entendue.

    Il est urgent de mener une véritable réforme du maintien de l’ordre et de reconnaître enfin le racisme systémique dans l’application de la loi.
    Ce que nous dénonçons  :

    les règles actuelles du maintien de l’ordre en France ne sont pas conformes aux normes internationales  ;

    l’incapacité de longue date à mettre fin au profilage racial  ;

    l’incapacité à garantir la responsabilité des agents qui font un usage excessif de la force.
    Ce que nous demandons :

    une réforme complète des règles régissant l’utilisation des armes à feu et de la force meurtrière par les responsables de l’application des lois  ;

    la fin du dangereux déni des autorités concernant les effets du racisme systémique dans le maintien de l’ordre  ;

    la création d’un organisme indépendant chargé d’enquêter sur les plaintes déposées contre des agents des forces de l’ordre.

    Combien de Nahel n’ont pas été filmés  ?

    Combien de policiers n’ont pas été jugés  ?

    Combien de familles de victimes attendent encore justice  ?

    Les autorités françaises ne peuvent plus délibérément refuser d’admettre la réalité et laisser couver ces injustices.Il est urgent que le gouvernement agisse. Pour ne pas condamner la France à voir les mêmes drames se reproduire.

    Contrôles routiers   : un problème de longue date

    Les tirs mortels, lors de contrôles routiers par la police, sont un problème de longue date. Il s’est aggravé ces dernières années.

    Le tir mortel d’un policier sur Nahel - le plus récent d’une longue série d’homicides illégaux commis par la police lors de contrôles routiers - souligne l’urgence d’une refonte totale des règles françaises régissant l’utilisation des armes à feu par les responsables de l’application des lois, qui sont dangereusement imprécises et permissives.

    Nils Muižnieks, directeur régional Europe d’Amnesty International

    En 2017, un article ajouté au Code de la sécurité intérieure a élargi les motifs d’utilisation des armes à feu. Si le recours à la force doit répondre à une «  absolue nécessité  » et à «  une stricte proportionnalité  », l’usage des armes à feu et de la force meurtrière n’est plus strictement limité aux seuls cas de «  menace imminente de mort  » ou «  de blessure grave  ». Il est autorisé dès lors qu’il existe un risque "présumé" ou "anticipé" de blesser d’autres personnes.

    Cette formulation, trop vague, laisse une trop grande part d’arbitraire et de liberté d’appréciation aux policiers et est contraire au droit international relatif aux droits humains. L’homicide de Nahel est un exemple tragique des failles de ce cadre juridique. La vidéo montre clairement que l’avancée du véhicule ne constituait pas une menace pour les policiers.

    Le jour de la mort de Nahel, la député Caroline Abadie, vice-présidente de la Commission des lois de l’Assemblée nationale, a déclaré dans une interview  : «  C’est quand même la police qui détient le droit de faire usage de la force. […] On est dans un état de droit, il faut […] rappeler les fondamentaux, quand il y a un barrage de police, on s’arrête, point barre […] Il faut aussi rappeler ces principes basiques17.  » Ce raisonnement, largement répandu, est erroné.

    Selon le droit international, le simple fait qu’une personne refuse d’obtempérer ou tente de s’enfuir, sans mettre en danger la vie de quiconque, n’est pas une raison suffisante pour utiliser une arme à feu. Un refus d’obtempérer à un ordre d’arrêter une voiture ne constitue pas en soi un motif légitime de recours à la force.  L’usage d’une arme à feu dans une telle situation ne peut être justifié que par des considérations autres que le simple fait qu’un véhicule a forcé un poste de contrôle  : il doit y avoir une menace imminente de mort ou de blessure grave pour des tiers.

    👉 Ce que nous dénonçons.

    Le cadre juridique français sur les règles d’utilisation des armes à feu n’est pas conforme au droit international relatif aux droits humains ni aux normes internationales en la matière. 
    👉 Ce que nous demandons.

    Les responsables de l’application des lois ne doivent être autorisés à utiliser leurs armes à feu qu’en dernier recours, en situation de légitime défense ou pour défendre des tiers contre une menace imminente de mort ou de blessure grave. 

    Le poids du racisme systémique

    Si les autorités doivent revoir la politique générale de la police en matière d’utilisation des armes à feu, elles doivent aussi prendre des mesures significatives pour lutter contre le racisme systémique dans le maintien de l’ordre.

    En France, l’utilisation illégale des armes à feu dans le contexte de contrôles routiers semble en effet être associée à un préjugé raciste, puisque beaucoup des victimes d’homicides illégaux survenus dans ce contexte sont des personnes racisées. Selon l’agence de presse Reuters, la majorité des personnes tuées par la police dans un véhicule étaient racisées. Nahel était lui-même français d’origine algérienne. 

    En 2021, avec une coalition d’organisations (la Maison communautaire pour un développement solidaire, Pazapas, le Réseau Égalité, Antidiscrimination, Justice interdisciplinaire, Human Rights Watch et Open Society Justice Initiative) nous avons engagé une action de groupe contre l’État français pour son inaction depuis des années. Nous avons saisi la plus haute juridiction administrative française, reprochant aux autorités de ne pas avoir pris les mesures nécessaires pour empêcher et sanctionner les contrôles d’identité au faciès menés par la police, malgré des preuves accablantes faisant état de discrimination systémique. 

    Les pratiques de contrôle au faciès ne naissent pas de rien.

    Le profilage racial est à la fois une cause et une conséquence du racisme systémique. De telles pratiques n’existent pas dans un contexte vierge et leur prévalence en France peut être considérée comme un reflet de la persistance d’un racisme sociétal systémique.

    TendayiAchiume,Ex-rapporteuse spéciale sur les formes contemporaines de racisme, de discrimination raciale, de xénophobie et de l’intolérance
    👉 Ce que nous dénonçons.

    L’incapacité de longue date à mettre fin au profilage racial.
    👉 Ce que nous demandons.

    La fin du dangereux déni des autorités concernant les effets du racisme systémique dans le maintien de l’ordre.

    Le grand déni des autorités

    «  Nous sommes préoccupés par le meurtre d’un jeune homme de 17 ans d’ascendance nord-africaine par la police en France mardi dernier. Nous notons qu’une enquête a été ouverte concernant des allégations d’homicide volontaire. Le moment est venu pour le pays de s’attaquer sérieusement aux problèmes profonds liés au racisme et à la discrimination dans le contexte du maintien de l’ordre. Nous tenons également à insister sur l’importance du respect du droit de réunion pacifique. Nous demandons aux autorités de veiller à ce que le recours à la force par la police afin de lutter contre les éléments violents durant les manifestations respecte toujours les principes de légalité, de nécessité, de proportionnalité, de non-discrimination, de précaution et de responsabilité. Toute allégation de recours disproportionné à la force doit rapidement faire l’objet d’une enquête.  » 

    Cette brève déclaration d’une porte-parole du Haut-Commissariat des Nations Unies aux droits de l’homme (HCDH) a immédiatement suscité de vives réactions.

    Le ministère français des Affaires étrangères a déclaré en retour  : «  Toute accusation de racisme ou de discrimination systémiques par les forces de l’ordre en France est totalement infondée. […] L’usage de la force par la police et la gendarmerie nationales est régi par les principes d’absolue nécessité et de proportionnalité, strictement encadré et contrôlé  ».

    Laurent Nuñez, préfet de police de Paris, a répondu sur BFMTV : «  Non, certainement pas, il n’y a pas de racisme dans la police.  »

    Le ministre de l’Économie, Bruno Le Maire, lors d’une interview au journal britannique The Telegraph : «  Je leur répète avec vigueur qu’il est inacceptable de dire que la police française est raciste, c’est totalement inacceptable  ». Selon ce même article, le ministre a écarté les accusations concernant le tir mortel, le qualifiant d’«  incident isolé  » dans un maintien de l’ordre qui «  respecte l’état de droit et fait son travail dans des conditions difficiles  ». 

    Six jours après la mort de Nahel, la présidente du Parlement français, Yaël Braun-Pivet, a même affirmé haut et fort  : «  La police exerce sa mission de façon merveilleuse  !  ».

    Ces déclarations de haut·es responsables du gouvernement français sont symptomatiques d’un refus de reconnaître l’existence d’un recours excessif à la force dans le cadre du maintien de l’ordre et d’un racisme systémique dans l’application des lois.

    Les affres de l’impunité

    Le déni des autorités renforce le sentiment d’impunité des forces de l’ordre et alimente une violence pourtant maintes fois dénoncée.

    En 2005, dans notre rapport sur les graves violations commises par des responsables de l’application des lois en France
    En 2009 , dans notre rapport «  France : des policiers au-dessus des lois  »
    En 2018, quand la France a été épinglée dans l’affaire Naguib Toubache
    👉 Ce que nous dénonçons.

    Ces dernières années, plusieurs de nos recherches montrent que, dans les affaires où des responsables de l’application des lois sont mis en cause, l’enquête – lorsqu’enquête il y a – n’est pas conforme aux critères de rapidité, d’indépendance, d’impartialité et d’efficacité établis par les normes internationales relatives aux droits humains.
    👉 Ce que nous demandons.

    La reconnaissance du caractère systémique du racisme dans le maintien de l’ordre et la création d’un organisme indépendant disposant de ressources suffisantes pour enquêter sur toutes les allégations de graves violations des droits humains imputées à des agents de la force publique.

    L’homicide de Nahel ne saurait être séparé de ce contexte. Il est impossible de ne pas y voir le manque d’action concrète de l’État français pour garantir l’obligation de rendre des comptes et mettre en œuvre une réforme systémique garantissant la non-répétition des pratiques abusives récurrentes. Il est urgent de mener une véritable réforme du maintien de l’ordre et de reconnaître enfin le racisme systémique dans l’application des lois.

    https://www.amnesty.fr/actualites/mort-de-nahel-reformer-utilisation-des-armes-a-feu-et-mettre-fin-au-racisme-

    #Amnesty #racisme_systémique #armes_à_feu #armes #police #normes_internationales #responsabilité #contrôles_routiers #refus_d'obtempérer #déni #impunité

    ping @karine4

  • BRI & RAID [850 agents] - Maintien de l’ordre
    https://maintiendelordre.fr/bri-raid

    Armements utilisés en violences urbaines
    Fusils à pompes, bean bags, grenades lacrymogènes et assourdissantes

    En plus des grenades utilisées en maintien de l’ordre et du LBD, la BRI et le RAID utilisent leur propre équipement.

    Dans le cas des violences urbaines, la protection des personnes et des biens est assurée par les forces de l’ordre « conformément aux règles de droit commun » en relevant des articles 122-5 du code pénal (légitime défense des personnes et des biens) et 122-7 (état de nécessité). Les policiers ont donc le droit d’intervenir avec leurs armes « sauf s’il y a disproportion entre les moyens employés et la gravité de la menace », comme le rappellent les deux articles.

    À l’aide de fusils de calibre 12, les agents tirent des munitions dites « bean bags », des petits sacs de toiles remplis de billes de plomb. À bout portant, les tirs de munitions bean bag comme de LBD, peuvent devenir des tirs létaux. En 2014, la Société française de médecine d’urgence (SFMU), publie un rapport sur cette arme : « Le bean bag présente un potentiel létal non négligeable à moins de 3 mètres par manque de déploiement ou encore par rupture du sachet et pénétration des plombs. À une distance supérieure ou égale à 7 mètres, même parfaitement déployé, le bean bag peut être responsable de lésions sévères, voire mortelles. » Une autre étude de 2021, cette fois-ci américaine, analyse une quarantaine de cas. L’un d’eux est celui d’un homme visé au thorax à une distance de 8 mètres. Il décèdera 15 minutes après.

    [...]

    En cas de crise, la BRI-PP qui compte une centaine d’agents, peut adopter la formation BRI-UCT (Unité contre-terroriste) et ainsi passer à plus de trois cents membres. Dans cette configuration, la BRI-UCT est appuyée par d’autres unités de la préfecture de police de Paris avant tout pour sécuriser le périmètre. On peut retrouver des policiers des CSI, de BAC de nuit, de la DSPAP mais aussi des unités de la DOPC. Dans ce cadre, la BRI-UCT fait également partie de la force d’Intervention de la Police Nationale, #FIPN. Cette force est aussi composée du #RAID et du GIPN.

    #police #BRI #maintien_de_l'ordre #armes_de_la_police #fusil #beanbags #LBD

  • 🛑🛑 Le nombre de personnes tuées par un tir des forces de l’ordre a doublé depuis 2020 - Basta !

    Année après année, la liste des tués par les forces de l’ordre ne cesse d’augmenter. Trop souvent, la thèse de la légitime défense ou du refus d’obtempérer ne supporte pas l’analyse des faits. Basta ! en tient le terrible mais nécessaire décompte (...)

    #ViolencesPolicières #armes #morts...

    ⏩ Lire l’article complet…

    ▶️ https://basta.media/Refus-d-obtemperer-le-nombre-de-personnes-tuees-par-un-tir-des-forces-de-l-

  • Emeutes urbaines : à Mont-Saint-Martin, un jeune homme dans le coma, interrogations sur l’intervention du RAID au cours d’une « nuit terrifiante »
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/07/04/emeutes-urbaines-a-mont-saint-martin-un-jeune-homme-dans-le-coma-interrogati

    Pour cette nuit, onze agents du RAID sont « engagé[s] » dans cette commune d’à peine 10 000 habitants pour « assurer la sécurité des personnes et des biens », peut-on lire dans un tweet du préfet du département. La veille, selon la municipalité, la buvette du stade, une dizaine de véhicules et un établissement pour autistes ont brûlé ; il y a eu aussi des affrontements avec les forces de l’ordre dans la cour de l’école Jean-de-la-Fontaine.

    Vers « minuit cinquante une heure », Aimène, Yorick et Mimoun décident d’aller se ravitailler à la boutique d’une pompe à essence de Rodange, au Luxembourg. A peine cinq kilomètres à parcourir. Aimène prend le volant d’une Clio 3 blanche qui appartient à la mère de Yorick. Celui-ci s’assoit derrière le conducteur, Mimoun du côté passager. A peine parti, il faut revenir : l’un d’eux a oublié ses cigarettes. Léger détour. Juste avant de passer sur la chicane et un ralentisseur de la rue de Verdun, Aimène, vitre baissée, rétrograde en seconde. « Je tourne la tête à gauche, j’aperçois des policiers dans le noir, je vois une lampe torche qui nous éclaire et j’entends “poc” », raconte Mimoun. Aimène ne répond plus.

    « Moi, je ne comprends pas. J’entends la voiture en surrégime, je dis “Aimène, qu’est-ce que tu fais, avance” », poursuit Yorick. « Il y a du sang partout, je prends le volant pour éviter le terre-plein devant nous, je tourne à droite sur la rue de Marseille. Aimène est inconscient. Putain, il a pris une balle », lance Mimoun. Selon le récit des deux passagers, la voiture aurait continué sa course sur 500 mètres, le pied de la victime étant resté sur l’accélérateur. « On arrive à se stationner un peu plus loin à l’entrée de la bretelle NR2, détaille Mimoun. Je lui mets un tissu dans le cou, je pensais que le sang sortait par là ; mais ça n’a servi à rien, je ne savais pas qu’il coulait de la tête. » Yorick : « J’appelle les pompiers tout en disant à Aimène de ne pas s’endormir ; ils ne répondent pas, alors je contacte quelqu’un. » A ce moment-là, aucun policier ne les aurait suivis pour leur porter un éventuel secours.

    « Il y a une volonté de faire la lumière »

    A 1 h 10, le téléphone de Nordine, 28 ans, vibre. « Il me dit “Aimène a pris une balle. Viens”, se souvient-il. On arrive avec deux amis et je suis choqué : je lui retire sa casquette et un sachet entré dans sa tête, je vois un trou. » Il filmera le projectile dans la casquette ensanglantée. Direction les urgences de l’hôpital de Mont-Saint-Martin ; là-bas, on ne peut pas le traiter. « On évoque la possibilité de l’héliporter à Nancy, mais à cause des orages [prévus par Météo-France], on nous dit qu’il ne pouvait pas décoller », raconte Maya.

    Aimène est donc transporté en ambulance à l’hôpital d’Arlon, pour subir une opération à 3 h 50. Depuis, le jeune homme a été plongé dans le coma, son état de santé reste extrêmement fragile. La famille a le droit de lui rendre visite chaque jour de 16 heures à 17 h 30.

    [...]

    Dans le quartier, des habitants, qui disent ne pas avoir participé aux émeutes, ont assuré au Monde qu’ils ont été « pris pour cible » par des membres de cette unité d’élite lors de cette nuit « terrifiante ». Certains ont été touchés. On constate aussi des impacts sur des voitures. Toujours dans la même zone, à l’angle des rues de Marseille et Verdun où, selon ces témoignages, des membres du #RAID auraient été dissimulés ou allongés, selon eux, dans les buissons. « Des jeunes m’ont dit que ça tirait à tout va, explique Serge de Carli, le maire de Mont-Saint-Martin (divers gauche). J’ai posé des questions, une enquête est en cours. »

    A 1 h 10, soit quelques minutes après la blessure d’Aimène, un habitant a filmé une scène dans laquelle on voit trois voitures roulant à faible allure, dans des circonstances indéterminées, puis le RAID tirer en leur direction. « C’est comme si on était à la fête foraine, assure au Monde Théo Palmieri, 21 ans, l’un des chauffeurs. Je déposais un ami, il n’y a pas eu d’insulte ou de geste de notre part. »

    https://justpaste.it/a0hc4
    https://seenthis.net/messages/1008575

    #révolte #émeutes #maintien_de_l'ordre #armes_de_la_police #beanbags

    • Projectile en sachet — Wikipédia
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Projectile_en_sachet

      Un projectile en sachets ou un sac à pois (traduction de l’anglais : bean bag rounds, littéralement : « munitions à sac de haricots ») est une munition pour arme à feu, dont les cartouches contiennent des sachets. Ces sachets peuvent contenir du plomb, du sable ou des billes d’acier. Une fois tiré, le sachet se déplie et frappe la cible par le côté plat. Ces munitions peuvent contenir de la teinture pour repérer la cible par la suite, ou bien des agents chimiques pour l’affecter directement. Les cartouches peuvent être tirées depuis un fusil ou un lance grenade1.

      Elles sont utilisées dans plusieurs pays pour contrôler les foules. Elles ont par exemple été utilisées lors des Manifestations de Ferguson en 2014 aux États-Unis2 et aussi dans les Manifestations de 2019 à Hong Kong contre la loi d’extradition3, sur les Hongkongais, et aussi dans les Manifestations de 2019 au Chili.

    • Jeune homme dans le coma lors d’émeutes à Mont-Saint-Martin : ouverture d’une information judiciaire
      https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/07/07/jeune-homme-dans-le-coma-lors-d-emeutes-a-mont-saint-martin-ouverture-d-une-

      Yassine Bouzrou, l’avocat de la famille de la victime – le même qui suit l’affaire de Nahel M. – explique au Monde qu’il « trouve que la procureure de la République du Val-de-Briey a fait preuve de beaucoup de réserves en affirmant qu’à ce stade, on ne peut pas accuser mon client de quoi que ce soit ». Il ajoute : « Elle n’a pas cherché non plus à criminaliser la victime comme le font trop souvent ses confrères. Les investigations vont pouvoir se poursuivre et démontrer qu’un agent du RAID a fort probablement tiré sur mon client. »

      maintenant qu’après plus de 3000 arrestations la presse est disponible (cf. le meurtre d’Alhoussein Camara à Angoulème qui fini par faire l’objet d’un article dans Le Monde) le parquet fait varier ses scénars, prend des précautions

      #Aimène_Bahouh

    • Émeutes : un jeune homme toujours dans le coma après un tir policier, son avocat [Yassine Bouzrou] dénonce l’« hostilité » des juges
      https://www.leparisien.fr/faits-divers/emeutes-un-jeune-homme-toujours-dans-le-coma-apres-un-tir-policier-son-av

      Il dénonce l’ « hostilité » des magistrats. Une requête en dépaysement a été déposée auprès du procureur général de Nancy par Me Yassine Bouzrou, avocat de la famille d’Aimène B., un jeune homme de 25 ans toujours dans le coma après avoir été touché le 30 juin par un tir d’un policier du Raid, à Mont-Saint-Martin (Meurthe-et-Moselle), pendant les émeutes.

      L’avocat dénonce le « refus » des juges d’instruction Nancy de lui donner accès au dossier de l’affaire, après l’ouverture début juillet d’une information judiciaire pour « tentative d’homicide volontaire ». Une opposition « inacceptable » et qui « interroge quant à leurs motivations », a-t-il estimé mardi dans une lettre transmise au procureur général de Nancy, demandant le renvoi de l’affaire à un autre tribunal.

      « Des éléments doivent être dissimulés »

      Me Bouzrou dit avoir reçu une fin de non-recevoir lundi, après avoir sollicité une copie de la procédure auprès du tribunal judiciaire. Il indique avoir essuyé un nouveau refus lorsqu’il a tenté de joindre le greffier, le secrétariat lui ayant répondu que le dossier n’était « actuellement pas en forme pour être consulté ».

      « Le fait d’avoir besoin de mettre en forme le dossier avant d’en donner connaissance à la partie civile permet de craindre que des éléments doivent être dissimulés avant sa consultation », juge Me Bouzrou dans le communiqué.

      « Un souci de protection du policier »

      « Le refus des magistrats instructeurs d’instruire ce dossier et de communiquer aux parties civiles les éléments du dossier démontre une hostilité qui ne peut s’expliquer que par un souci de protection du fonctionnaire de police qui a commis une infraction extrêmement grave », ajoute-t-il, précisant que ce dernier n’a - « à (sa) connaissance » - « toujours pas été mis en examen ».

      Dénonçant aussi des « liens habituels » entre les policiers du Raid, basés à Nancy, et les magistrats et le parquet de cette même ville, Me Bouzrou demande un renvoi de la procédure vers un autre tribunal.

      #indépendance_des_juges #justice